Nicola Fano
Viaggio in Emilia

Luzzara è Zavattini

Il paese di Zavattini è la testimonianza di un'Italia che si trasforma, modifica i suoi spazi e i suoi profili, ma resta legata alla sua identità profonda. Fatta di luoghi, idee e cose. Con il Po sullo sfondo, ammalato discreto

Luzzara è Zavattini. Nella realtà, nella fantasia e nella memoria comune. Il basco, gli occhiali, il grugno e il camice de La veritaaaà: qui il mito si incarna in strade e palazzi. Al di là dei murales zavattiniani, al di là del bellissimo centro culturale che gli è stato intitolato. Concretezza e debolezza, slanci in avanti e frenate di timidezza: Luzzara è Zavattini per come si offre, oggi, simile a una lavagna sulla quale l’Italia è incardinata, a tre dimensioni.

Ottomila abitanti, una sindaca simpatica e competente, qualche bar, due botteghe di prelibatezze alimentari (ma nelle vie del centro ci sono più sedi sindacali che negozi), una via principale, una torre antica: si arriva a Luzzara scorrendo sull’argine del Po, anche se il fiume non si vede. E non perché sia in secca (lo è da due anni, dicono qui), ma perché un articolato sistema di argini e spazi liberi per contenere le piene lo relega in fondo, lontano da occhi indiscreti. Occorre camminare parecchio per avvistarlo dopo aver salutato podisti e ciclisti: l’aria è ferma, i pioppi – piantati di recente – d’inverno sono fili sparsi nell’aria e il sole scende dietro di loro con delicatezza. I tramonti sulla pianura padana sono diversi da quelli sul mare: il sole non urla, non schizza il cielo di rosso. È più elegante.

E proprio così, elegante, si mostra Luzzara entrando in paese: la piazza con la torre e, giù, la via dei portici appaiono all’improvviso, tra capannelli di uomini fuori dai bar, a gesticolare, lontani dai gazebo che il covid ha sparso per l’Italia. A Luzzara si sta ancora in strada, non sotto le tende. Percorri il corso (che non è tale, ma è solo una strada lunga e centrale, Via Dalai si chiama) e ammiri palazzi sontuosi, li immagini residenze se non nobiliari, almeno ricche; forse opulente. E invece sono facciate che chiudono un sistema economico formidabile che ora non c’è più. Immediatamente dietro alla facciata di queste costruzioni a due piani una volta c’erano le residenze (in alto) e i vecchi uffici (sotto). Ma oltre l’edificio affacciato sulla via, seppure direttamente collegato ad esso, c’era l’azienda. Dove si stagionavano i formaggi, per esempio: un’aia lunga e stretta in fondo alla quale si aprivano i campi dove s’allevavano mucche e maiali. Le prime per il latte da formaggio, i secondi per i salumi, con annesse spalle cotte e ciccioli. L’ideologia vegetariana qui non era di casa.

La vita di Luzzara questa era: casa e bottega. Entri, oggi, nelle aie oltre le facciate principesche e ti ritrovi subito in un film italiano anni Fine Quaranta/Cinquanta, con la campagna a ridosso della città. Le cascine di mille pellicole, oppure l’illusione di un villaggio che pervade i diseredati Miracolo a Milano. Proprio lì sembra di entrare, ora, anche se nelle stanze dove una volta veniva stagionato il parmigiano oggi ci sono accoglienti bed&breakfast. Il mondo è cambiato: la via principale di Luzzara è diventata una quinta teatrale con le due file di abitazioni ricche ma, spesso, vuote; abbandonate, in vendita. Restaurarle e abitarle costa troppo. Sennonché fuori dal perimetro del “centro storico” (poco più che un cardo e un decumano) il paese è disseminato di casette semplici e confortevoli e villette a schiera con le facciate piatte dipinte a colori pastello come fossimo a Burano. La zona che collega le due aree della città è disseminata di targhe d’ottone che annunciano geometri e ditte di costruzioni: mestieri fecondi quando c’è da trasferire un vecchio paese in una nuova periferia.

Poi, oltre il cerchio delle villette a schiera, verso l’argine del Po, qualche vecchio casolare padano ancora resiste in piedi: i tetti sono solidi, probabilmente rifatti dopo il terremoto del 2012, ma i muri perimetrali sono pericolanti, le finestre hanno i vetri rotti, le aie sono piene di buche: simulacri di una vita contadina che non c’è più, inesorabilmente. Eppure questi edifici sono bellissimi, riverberano un’identità forte, sembra di sentire ancora le grida dei bambini che ci si rincorrevano invece di fare i compiti. Oggi, invece, senti solo i versi lontani delle anatre che si chiamano da un capo all’altro del Po, interrotte dalle – poche – automobili che hanno accesso all’argine. Eppure non è un paesaggio d’abbandono: viene da pensare che prima o poi qualcuno qui ci tornerà. Foss’anche quella giovane mamma di colore che spinge in fretta la sua carrozzina sul ciglio della strada, lì.

Sono qui a Luzzara per presentare un libro pubblicato dalla nostra casa editrice, Succedeoggi Libri: si intitola Vocabolario della pace, l’ha curato Valentina Fortichiari e riunisce una parte del carteggio tra Cesare Zavattini, Aldo Capitini e Danilo Dolci. Sono qui a ritrovare un mio mito di formazione, Zavattini. Ci ospita Simone Terzi del Centro culturale intitolato a lui: uno di quei gioielli della cultura (biblioteca pubblica, luogo di incontro e di costante attività per la cittadinanza) che, in questa nostra tormentata Italia, resistono solo nelle zone segnate da un profondo senso di identità condivisa. E Luzzara è un luogo dove l’identità condivisa è ancora forte. È nella cura con cui la signora Luigia prepara i cappelletti, nell’affetto con il quale il signor Antonio ti consiglia il miglior lambrusco della zona, nella competenza con la quale la signora Adele ti racconta l’emozione che provò quando lesse Totò il buono, nella gioia con la quale il signor Simone ti spiega che quella Rolleiflex è identica a quella con cui Paul Strand ha immortalato Luzzara. Meraviglie perdute? A sentire i telegiornali o l’ignominia recitata come un rosario blasfemo dall’attuale classe dirigente politica (e non solo) italiana, penseresti di sì.

Ma poi basta una passeggiata qui per capire che sotto qualcosa cova ancora. È non è solo roba da vecchi, non è solo un passato sfilacciato che qualcuno tiene in vita a fatica. No, a Luzzara il passato coincide con il futuro. L’alimentari sul corso il mercoledì prepara spaghetti di soia e il venerdì riso alla Cantonese, ma cappelletti e ciccioli vanno a riba tutti i giorni. E poi, i “distretti” della nuova industrializzazione 4.0 sono lontani («Ha visto dov’è il Conad? Ecco, vada di lì, oltre…»), i profili dei capannoni delle grandi industrie dell’indotto automotive che hanno soppiantato l’economia di Via Dalai da qui non si vedono: le Mercedes dei dirigenti del distretto non passano di qui, sfrecciano verso le ville fuori paese, oltre il cerchio delle casette color pastello, oltre la cinta delle cascine abbandonate. Corrono verso non luoghi. Non sono le non-mostre, il non-teatro di Zavattini, non sono la negazione dello spettacolo fine a se stesso, come diceva il grande scrittore arrabbiato: sono spazi senza memoria né identità, ville qualunque. Qui no. Qui a Luzzara il futuro coincide con il passato: Luzzara è Zavattini. 

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