Paolo Restuccia
La morte dello scrittore

Per Kenzaburō Ōe

Ritratto di Kenzaburō Ōe, il grande scrittore giapponese premio Nobel nel 1994: è come una montagna da scalare attraverso i suoi libri di narrativa e il suo impegno sociale. Al centro c'è sempre un universo sospeso tra passato e futuro

Alcuni scrittori sono come montagne, non basta leggerli, bisogna scalarli. Per ricordare Kenzaburō Ōe, il grande scrittore giapponese morto da pochi giorni, si possono intraprendere vari sentieri. Si può cominciare a inerpicarsi partendo dai racconti. Per esempio, ce ne sono due pubblicati nel 1957 che in qualche modo ho imparato a considerare come un’anticipazione imprevista del mondo che stava per arrivare. Sono racconti che parlano di lavoretti da studenti. In uno, L’orgoglio dei morti, si tratta di spostare dei cadaveri da una vasca riempita di una soluzione d’alcol marrone scuro. Nel secondo, Uno strano lavoro, si tratta di uccidere centocinquanta cani utilizzati come cavie e di cui un ospedale deve liberarsi per non incorrere nelle proteste degli animalisti. Entrambi i lavori, fatti per raggranellare pochi spiccioli, sono segnati dalla sensazione della precarietà e dell’inutilità: i protagonisti mi sono rimasti in mente per anni con forza, giovani che non sanno cosa gli riserverà il futuro e però sentono che sarà altrettanto inutile e precario. Al di là della realtà quasi surreale dei loro mestieri improvvisati, somigliano – mi pare – moltissimo ai ragazzi che oggi attraversano una città in bicicletta per portarti una pizza o vengono assunti con contratti irregolari, come se fosse la norma della vita che li aspetta. In un altro racconto dello stesso periodo, Animale d’allevamento (che gli valse il premio Akutagawa), si narra di un pilota statunitense afroamericano che viene fatto prigioniero e condotto in un villaggio giapponese, visto dai ragazzini come una specie di animale, un uomo dalla pelle nera mai visto prima. Rivelazione dell’altro negli occhi di chi era già altro per un lettore italiano come me, come a dire che non c’è mai nessun limite a ciò che possiamo sentire come altro, esotico. O diverso.

Oppure si può partire dai romanzi. Come per esempio Il grido silenzioso del 1967, o Il giorno in cui lui mi asciugherà le lacrime (del 1972), solo per citarne un paio. Mi pare che la caratteristica più evidente della scrittura romanzesca di Kenzaburō Ōe sia nell’efficacia di una narrazione che si svela nel suo compiersi, portando il lettore a muoversi in territori enigmatici dove vanno esplorate figure, luci e ombre che si rivelano nel finale molto più umane e vicine a noi di quanto possano sembrare all’inizio. Senza avventurarmi in analisi critiche posso dire che le storie di Ōe per me non rappresentano semplicemente la società contemporanea come mi pare faccia per esempio Banana Yoshimoto, né il senso del Giappone tradizionale che persiste anche se pervaso dalla nostalgia della perdita alla Mishima, e nemmeno trasformano la nostra esperienza della vita in un una realtà mitologica pop come fa Haruki Murakami, la qualità di Ōe invece mi sembra quella di tenere insieme tutto ciò con la sua realtà personale che si trasforma in un’esperienza universale per il lettore.

E infatti se si parte dalla motivazione del premio Nobel (assegnatogli nel 1994) si scopre che dice più o meno così: «Con forza poetica crea un mondo immaginario in cui vita e mito si condensano per formare uno sconcertante ritratto dell’attuale condizione umana». Anche se da lettore io non condivido l’idea che il suo mondo sia “immaginario” o almeno leggendolo l’ho sentito sempre reale, non meno del mondo di qualunque altro scrittore che crei potenti metafore in cui far riflettere la nostra esistenza. E insieme si può leggere il suo discorso di accettazione del premio, intitolato Il Giappone, l’ambiguità e me stesso, in una sorta di immaginario dialogo con Yasunari Kawabata, il precedente Nobel giapponese che l’aveva intitolato Il Giappone, la Bellezza e me stesso.

Oppure si può partire dalla sua vita trasfusa nella scrittura. Per esempio, nelle pagine dedicate al figlio Hikari nato con una lesione cerebrale e diventato poi, grazie all’impegno strenuo del padre e della madre, un famoso compositore. Scrive Kenzaburō Ōe nel suo scritto su Hikari, Una famiglia (pubblicato in Italia nel 1997): «Mi accorsi che mostrava un grande interesse per il canto degli uccelli, e quasi con frequenza maniacale presi a fargli ascoltare un disco su cui era inciso il canto di cento specie diverse». Finché un giorno il piccolo non riconoscerà all’improvviso il verso di uno degli uccelli tra tanti. E da lì partirà la sua ricostruzione esistenziale.

Oppure si può seguire il suo impegno politico nato fin dagli esordi con un’inchiesta sull’estrema destra giapponese, continuato con un rigoroso pacifismo, dato l’orrore delle atomiche statunitensi sganciate su Hiroshima e Nagasaki, e trasformato in avversione totale verso il nucleare anche d’uso civile dopo l’incidente di Fukushima, il che ha dato vita a un dialogo serrato e molto fertile con un antinuclearista convinto come Noam Chomsky. La sua attività appassionatamente antimilitarista l’ha portato poi a criticare con forza i tentativi di cambiare l’articolo della costituzione giapponese che rinuncia per sempre alla guerra.

In fondo poco conosciuto in Italia, con alcune sue opere ancora da tradurre oppure fuori catalogo, Kenzaburō Ōe resta davvero una sorta di montagna intellettuale da scalare, magari partendo proprio da uno dei percorsi raccontati fin qui, che portano tutti a un autore apparentemente diversissimo da noi e immerso nella sua cultura, capace tuttavia di parlare la lingua dell’arte che avvicina i mondi lontanissimi.

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