Per una poetica del vuoto/2
Inferno Georgofili
Giulia Arnetoli ha dedicato un intenso romanzo alla strage compiuta dalla mafia in via dei Georgofili, a Firenze, nel 1993. La storia di un bambino che diventa una specie di Gian Burrasca buono
Nadia e Caterina Nencioni erano due piccolissime bambine che il 27 maggio 1993 intorno all’una antimeridiana sfumarono nella notte con la loro Torre de’ Pulci a un passo dagli Uffizi. Un’autobomba piazzata in via dei Georgofili spazzò via pietre e persone: spalancò un vuoto nel paesaggio aereo contemplato con desiderio da Giacomo, il Virgilio di questa storia, Il vuoto alla finestra di Giulia Arnetoli (SEF – Società Editrice Fiorentina 2022, pagine 161, 14€), che racconta (sottotitolo in copertina) la strage di Via dei Georgofili attraverso gli occhi di un bambino.
Nadia aveva nove anni e come Giacomo, narratore creato dall’autrice, era in quarta elementare, Caterina aveva pochissimi mesi ed è la vittima più inerme di questo vile attentato di mafia (il Mostro Rosso contro cui Giacomo prende l’impegno di lottare come David contro un Golia sleale) a seguito del quale di lei, tra le macerie, i pompieri e i vigili urbani, le forze dell’ordine e la popolazione che generosamente hanno scavato spesso a mani nude, ritroveranno solo la stoffa dei lenzuolini e delle camicine in cui era avvolta per la notte.
Giacomo, il nostro io narrante, dalla sua condizione di bambino, ci guida a esplorare una sensibilità, la sensibilità dell’infanzia, che spesso, per automatismo, non per forza con dolo, è sottovalutata dagli adulti, che tendono a non dare importanza a ciò che i bambini con grande profondità sentono e intuiscono dunque capiscono e comprendono anche di situazioni “da grandi”.
Giacomo rivendica di continuo il diritto a non essere messo da parte, a non essere ignorato, a non finire dimenticato e spostato come un pacco senza sensibilità.
Giacomo è perfettamente capace di comprendere e avversare (in cuor suo, all’inizio, ma anche in modo aperto a un certo punto, con la folle sincerità dei bambini, per cominciare) l’ingiustizia e l’omertà, il bullismo di un paio di compagni di classe, la scomparsa delle persone care, la morte di chi amiamo, il crollo di una torre che prima svettava nel cielo magnifico del centro storico di Firenze e poi con fragore di scoppi e vetri rotti (per esempio quelli della sua finestrella sul cielo) scompare.
Lo skyline fiorentino (come poi lo skyline di Manhattan cinque anni dopo) è stato cancellato con una detonazione al tritolo: metodo mafioso classico, collaudato già su Falcone, che Giacomo ha imparato a conoscere a scuola grazie alle bravissime maestre, capaci di destare la sensibilità civile dei bambini.
Vuoto in cielo e vuoto in terra. La Torre de’ Pulci non svetta più. E in terra, al posto di un quartiere, ora c’è un cratere dentro cui si affanna anche Mario, il padre di Giacomo, il suo eroe, vigile urbano come Giacomo vorrebbe diventare da grande per emularne le gesta e la tranquilla saggezza di uomo buono delle istituzioni.
Ci avviciniamo a quel vuoto che è un baratro fisico e dell’anima per gradi, come a un silenzio sordo.
Giulia Arnetoli con sapienza di narratrice colloca la data fatale al centro esatto dello sviluppo, e ci tiene per mano proprio come una maestra (quale è lei stessa) terrebbe per mano i suoi piccolissimi allievi nella manovra di avvicinamento allo scoppio della verità. I giorni della narrazione sono tra maggio e giugno, e al loro centro esplode la data ferale.
Con Giacomo, protagonista e narratore in erba, viviamo il difficile attraversamento del quotidiano tra il dentro (la vita familiare, in una bella casa del centro, con suggestiva finestrella sui tetti della città storica, e tra le lenzuola sotto cui Giacomo ama rigugiarsi) e il fuori (le mattinate a scuola tra il covare il desiderio di giustizia per un compagno deriso da due bambinacci e un difficile compito assegnato dalle maestre: trovarsi un amico di penna con cui intessere una corrispondenza vera, a suon di lettere realmente scritte e ricevute – sfida per Giacomo sul piano della sua maggior difficoltà: socializzare come tutti, lui vede, riescono a fare, e lui sente di non saper fare anche a causa dei suoi occhialini dalle lenti molto spesse, fondi di bottiglia da miope).
Giacomo quasi si sente più burattino che bambino, e poi si trasforma in un Gian Burrasca buono.
La bomba a orologeria, il tritolo dal nome buffo piazzato dentro un’auto lasciata in via de’ Georgofili e fatto brillare nel cuore della notte, è un vero atto sovversivo annienta il placido scorrere di tante vite afflitte da crucci e iniquità che improvvisamente si ridimensionano per fare spazio a una tragedia vera e immensa, la cui misura è il vuoto enorme scavato nel cuore di Firenze e nella vita interiore di un bambino.
Non un giornalino come il salace diario di Giannino Stoppani, ma una serie di lettere all’amica di penna ideale che non risponderà mai, diventa il giornale di bordo di un’intera esistenza che Giacomo dedica all’impegno civile, alla personale lotta contro la mafia, l’ingiustizia, l’omertà, la violenza, l’iniquità. Giacomo è diventato un insegnante, un educatore profondo, lo stesso bambino ora armato dei mezzi potenti, non violenti, pacifici, dell’istruzione.
L’invenzione delle lettere è uno di questi.
Ne Il vuoto alla finestra la scrittura epistolare è il giro di volta che permette di entrare più profondamente nel senso civile e umano di vicende solo in apparenza esaurite dal loro peso reale, pubblico, cronistico: in più permette di scavalcare il tempo che in genere ci travolge col moto ondoso inarrestabile della vita-burrasca.
Certe lettere a nessuno dopotutto sono destinate a un tempo elastico ed eterno, subito dopo essere diventate il canovaccio stabile di un’esistenza raccolta e sviluppata attorno ai ricordi (sostanziati di oggetti) e alla memoria – proprio come accade a Giacomo, in questo piccolo grande libro, in teoria destinato ai ragazzi delle scuole, agli adolescenti (letteratura per ragazzi) ma nutriente anche per i lettori adulti che sorprendentemente vi rivivono e ritrovano innocenza e pulizia d’animo.
Chiudo con una minuscola impressone personale: misteriosamente nel corso dell’intera lettura non sono riuscita a scacciare l’immagine del bambino immortalato in una foto di famiglia mentre è in groppa al suo cavallo che salta un ostacolo, bambino che poi, in quanto figlio di un pentito di mafia, fu detenuto per due anni in una buca sotterranea e infine sciolto nell’acido, nel gennaio 1996.