Anna Camaiti Hostert
Alla Sala Umberto di Roma e poi in tournée

La banalità del potere

Marco Lorenzi ha trasportato a teatro il celebre film “Festen”, opera-manifesto di Thomas Vintenberg. Ne è nato uno spettacolo perfetto che riflette sugli orrori prodotti dal potere. E sulle conseguenze del cinismo imperante

Se dovessi pensare ad una trasposizione per immagini del piccolo pamphlet La banalità del male dove la filosofa Hannah Arendt racconta le dinamiche che hanno portato un uomo ordinario e comune, il gerarca nazista Adolf Eichmann, a diventare un mostro, niente per intensità e orrore, servirebbe al proposito meglio dello spettacolo teatrale Festen. Il gioco della verità primo adattamento italiano tratto dalla sceneggiatura del film omonimo danese del 1998 di Thomas Vintenberg. Scritto da Mogens Rukov e BO Hr. Hanses il film è stato il primo ad aderire al manifesto cinematografico Dogma 95 creato nel 1995 dai registi Lars Von Trier e Thomas Vintenberg. Sue regole precipue quelle secondo le quali i valori tradizionali della recitazione, senza luci, senza scenografia, senza musica si sposano con l’esclusione di effetti speciali. Unico espediente quello dell’uso della camera a mano.

Regista di questa pièce teatrale italiana, Marco Lorenzi, fondatore della compagnia torinese il Mulino d’Amleto, vincitrice del Premio della critica A.N.C.T. del 2021, in questo spettacolo ha colto il “fascino dei rapporti che si esperiscono entro una comunità e come si possa continuare a viverci normalmente nonostante l’orrore che in essa si è perpetrato e vissuto”. Elemento importante da rimarcare di questo talentuoso giovane regista teatrale è che ha colto e rispettato del Dogma 95, il valore dell’ironia e dell’autoironia cupa, che, al di là del tema scabroso, egli è riuscito a mantenere, esaltando il valore del suo significato in termini di graffio politico.

Lo spettacolo è al terzo anno di tournée ed è sostenuto dall’impegno produttivo di diverse istituzioni dal TPE (Teatro Piemonte Europa), all’ Elsinor Centro di Produzione Teatrale, al Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, al Teatro delle Briciole Solares Fondazione delle Arti in collaborazione con Il Mulino di Amleto. Sarà a Roma di nuovo a giugno dopo esservi stato al teatro Sala Umberto dal 28/2 al 5/3 e successivamente e Siena e in alcune altre città italiane.

Gli attori, dall’affermato Danilo Nigrelli, epitome perfetta della banalità del male nel ruolo di Helge, perfettamente assecondato in questo da Irene Ivaldi nel ruolo della moglie, a Elio D’Alessandro nel ruolo di Christian, a Raffaele Musella in quello ciò Michael, a Barbara Mazzi in quello di Helene sono tutti bravissimi. Gli altri non in ruoli da protagonisti, Yuri D’agostino, Roberta Lanave, Carolina Leporatti e Angelo Tronca contribuiscono a creare un mosaico perfetto che completa l’immagine integrale di questa tragica vicenda. Una vicenda difficile da raccontare e da interpretare che, mi ha detto Nigrelli, a cui certo non manca la competenza e la professionalità, è faticosa da introiettare quanto da cancellare, tanto è l’orrore che ti si appiccica addosso.

Una famiglia danese dell’alta borghesia si riunisce per celebrare il sessantesimo compleanno del pater familias, Helge. Sono presenti tre dei quattro figli, la moglie, la moglie di uno dei figli e alcuni amici. Tutto sembra svolgersi nella maniera più normale e usuale. C’è un clima all’inizio, almeno apparentemente allegro, tipico di una riunione familiare. Manca solo la figlia gemella del figlio più grande Christian morta suicida poco tempo prima. E qui suona il primo campanello di allarme. Le nevrosi del figlio più piccolo Michael, i suoi rapporti perennemente tesi con la moglie, il suo essere sempre uneasy e sempre sull’orlo di una crisi di nervi ne fanno suonare un altro. Fino ad arrivare al brindisi del figlio più grande Christian durante il quale egli accusa il padre di avere abusato sessualmente di lui e della sorella quando erano bambini e di avere determinato il gesto disperato della sorella. E qui si apre l’abisso in un gioco al massacro che non conosce limiti e si basa sulla rivelazione di episodi che hanno distrutto le vite dei figli, mentre il capofamiglia ha continuato, accanto alla moglie, complice delle sue atrocità, a vivere una vita falsamente normale. Un rapporto tossico con la figura paterna e maschile, ma anche con le dinamiche di autorità e di potere ad essa legate, in un meccanismo sempre celato e reso invisibile dall’ipocrisia di riti reiterati, di malsane relazioni di potere. In questo Festen è una pièce di grande impatto emotivo e di potente rilevanza politica.

La bellezza di questo spettacolo a metà tra una tragedia greca e una fiaba dell’orrore dei Fratelli Grimm, oltre alla bravura di tutti gli interpreti, superbi nei loro ruoli, sta nella sua realizzazione tecnica. Il palco è diviso a metà: da una parte un telo trasparente davanti al boccascena, dietro di esso una telecamera azionata dagli stessi attori li riprende mentre recitano. Le loro immagini, spesso primi piani, sono riprodotte sul telo davanti agli spettatori che hanno cosi tre luoghi di osservazione: il telo su cui vengono proiettate le immagini, gli attori dietro di esso e dietro la cinepresa e infine il palcoscenico, terzo elemento che ristabilisce la divisione dello spazio occupato, ribadendo allo stesso tempo la realtà di quell’unità spazio temporale tipica del teatro. Da tutto ciò scaturiscono tre diversi livelli di posa in opera del reale che trovo molto attuali: il primo quello che ci viene rappresentato come reale, quello che vediamo sul telo, il secondo quello che ne svela la sua artificialità con la macchina da presa visibile dietro di esso e il terzo quello della divisione dello spazio sul palcoscenico che ribadisce la totale artificialità di quello che stiamo vedendo. È come se a due interpretazioni l’una fittizia e l’altra veritiera che svela l’artificio se ne sovrapponesse una terza che ci dice che tutto quello che stiamo vedendo è una rappresentazione, qualcosa di fittizio. Perché questo è il teatro after all! E proprio in questi livelli diversi credo stia l’originalità di questa rappresentazione che unisce alla storia sofisticata che va pericolosamente a toccare corde dell’intimità di ognuno di noi, il disvelamento dei meccanismi di potere. Ognuno di noi, sembra dire la sceneggiatura, può diventare Helge, come ognuno di noi sarebbe potuto diventare Adolf Eichmann, come ci ricordava Hannah Arendt e continuare a vivere la propria vita nella normalità, come se niente fosse accaduto. Perché proprio in questo sta la banalità del male, nel non riuscire a conquistare una capacita autonoma di pensare per riuscire a vedere quello che si è fatto: Thinking without a Bannister (pensare senza balaustre) avrebbe detto Arendt. La rilevanza politica di Festen. Il gioco della verità che ad essa nel suo titolo fa per l’appunto appello, sta esattamente qui. Ma se questo è un elemento di riflessione politica a livello di contenuto ce n’è uno anche a livello formale: l’artificio della macchina da presa e il suo rapporto con il palcoscenico, che ci ricorda quanto labile sia il confine con l’abisso, quanto facile sia precipitarvi: basta un telo che divide la rappresentazione dal reale e che crea un mondo alternativo, una sorta di metaverso in cui perdersi senza riuscire a vivere nel reale con la consapevolezza di quello che si è fatto. Questo ha consentito ai mostri di sopravvivere e di continuare a vivere una vita apparentemente normale.

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