Viaggio nella realtà virtuale
Le metaidentità
Abbiamo fatto un esperimento con la Artificial Intelligence creando un clone di noi stessi. Un doppio immateriale fatto di parole, emozioni e descrizioni. Il risultato finale è sconfortante: l'uomo è veramente antiquato
Niente da fare, devo arrendermi all’evidenza. Sono doppio. Non in senso morale (almeno spero), che andate a capire? Ma in senso fisico. O meglio, digitale. Perché tutto è lì. Nell’intreccio sempre più stretto tra quella convenzione che siamo abituati a chiamare, e considerare, realtà e il mondo virtuale, che sempre più assume i caratteri della nostra – nostra, di umani – realtà e in cui sempre più abitiamo. Ma facciamo un passo indietro.
Sarò antiquato, non provo neppure a negarlo. Ma Alexa mi dà sui nervi. Con la sua pretesa che io le chieda di mettere musica rilassante, mentre io magari non desidero altro che uno sballo mentale al ritmo dell’heavy metal. O addirittura, ipsa dixit, dovrei implorarle una hit parade dello Zecchino d’oro per tener buoni i pargoli, peraltro inesistenti nel mio raggio d’azione. In mancanza di meglio, si propone per ragguagliarmi sul meteo.
Non ho dubbi: dietro quella compitezza da signorina di buona famiglia, si cela uno spirito incrollabilmente autoritario. Un tentativo subdolo di modellare il mio comportamento. Di fare di me, come avrebbe detto in epoche preistoriche Herbert Marcuse (e tanti altri dietro a lui), un soggetto eterodiretto. Eterodiretto io? Ma stiamo scherzando? Io sono Io, genuino prodotto cartesiano, penso-sono in carne e ossa, assolutamente indeterminabile.
Alexa, ormai lo sanno anche gli orsi polari, è quel congegno che ammicca dai nostri televisori e attende, falsamente servizievole e l’aria di rivolgerti amichevoli consigli, che le chiediamo di fare qualcosa per noi. Un’invadente figlia dell’intelligenza artificiale. Come invadente al limite della prevaricazione – nascente forma di imperialismo, non armato ma non meno esiziale – si palesa l’intelligenza artificiale. Che procede con passi da gigante nei territori umani e riserva sorprese a getto continuo.
Stuzzicato dalle moine di Alexa, decido di mettere alla prova questo nuovo mostro (in senso latino) mitologico. Di misurarmi, insomma, con la sua onnipotente mamma, l’intelligenza artificiale. Per noi, da qui in poi, Lady AI (Artificial Intelligence). Che oggi ha il suo rampollo più versatile nel ChatGpt (all’anagrafe Chat Generative Pre-Trained Transformer), programma per elaborare testi in linguaggio naturale, di cui sento dire meraviglie; parla correntemente decine e decine di lingue, scrive testi di vario genere, si produce in analisi di mercato. Congratulazioni! Ma ora, a noi due.
Comincio con l’abc. Una domandina elementare sul sottoscritto. Non finisco di formulare la richiesta, che arriva la risposta. Scorro sbalordito le righe: oddio, c’è qualche piccola imprecisione; mi attribuisce un testo che non credo di aver mai scritto. La fretta è pessima consigliera anche per Lady AI.
Inezie, comunque. Nel complesso la scheda è precisa e, confesso, anche piuttosto lusinghiera. Nella vita ho fatto, faccio, il giornalista. E ho scritto alcuni libri. Con una «narrazione avvincente e ironica» e «riflessioni profonde», asserisce, bontà sua, Lady AI. Ne cita alcuni; sorvola – mistero – proprio su quelli che considero i miei parti migliori. Ma forse non avrà avuto il tempo di leggerli.
Bene, un punto a favore dl Lady AI. Ma questa era una bagatella, adesso il gioco si fa duro: Lady, saprebbe scrivere un testo ne «lo bello stilo che m’ha fatto onore»? Lady AI non fa una piega. Si mette al lavoro e, paf!, ecco il testo. È passata appena una manciata di secondi. Non è lungo; furbescamente, per aggirare ogni responsabilità presumo, appone l’avvertenza: «Ecco un possibile esempio di una breve storia secondo lo stile di Giuliano Capecelatro». Vale la pena darci un’occhiata per vedere di cosa sia capace la nostra amica, che sempre più spazio occuperà nelle nostre vite. Eccolo:
Era una giornata come tante altre a Roma. Il sole splendeva alto nel cielo azzurro, la gente si affollava nelle strade e nei negozi, le auto sfrecciavano nel traffico caotico. Ma per Marco era una giornata speciale. Era il giorno del suo compleanno.
Marco era un ragazzo semplice e timido, che lavorava come impiegato in un’agenzia di viaggi. Non aveva molti amici né una fidanzata. La sua unica passione era il calcio. Tifava per la Roma da quando era bambino e non perdeva mai una partita della sua squadra del cuore.
Quel giorno aveva deciso di regalarsi un biglietto per lo stadio Olimpico, dove la Roma avrebbe affrontato il Milan in uno scontro al vertice della classifica. Era sicuro che i giallorossi avrebbero vinto e gli avrebbero regalato una gioia indimenticabile. Ma non sapeva che il destino gli aveva riservato una sorpresa molto più grande.
Mentre si dirigeva verso lo stadio a bordo della sua vecchia Vespa, Marco notò una donna bellissima che camminava sul marciapiede accanto a lui. Era alta e snella, con lunghi capelli biondi e occhi verdi come smeraldi. Indossava un abito rosso che metteva in risalto le sue forme perfette.
Marco rimase incantato da quella visione. Non riusciva a staccare gli occhi da lei. Si sentì improvvisamente invadere da un’emozione nuova e potente: l’amore a prima vista. Senza pensarci due volte, decise di seguirla. Dimenticò la partita, il biglietto, lo stadio. L’unica cosa che contava era raggiungere quella donna e parlarle.
Ma non fu facile. La donna camminava veloce e cambiava spesso direzione. Marco dovette fare slalom tra le auto e i pedoni per tenerla d’occhio. A un certo punto perse il controllo della Vespa e cadde rovinosamente sull’asfalto. Si rialzò dolorante ma determinato a riprendere l’inseguimento. Ma quando guardò intorno a sé non vide più la donna bionda. Era sparita nel nulla.
Marco si sentì perso e disperato. Si chiese se fosse stata solo un’illusione o se invece fosse stata la donna della sua vita. Non lo seppe mai.
Perché quella donna era Valeria Rossi, la moglie del presidente della Repubblica Italiana.
E qui tiro un sospiro di sollievo. Non mi ci ritrovo per niente. La storia è piena di banalità che fanno venire la pelle d’oca, di ripetizioni, il finale è a dir poco ingenuo, tirato via alla meno peggio. D’accordo, lo ha scritto in pochi istanti. Mentre io, al di là di quelli che possono essere i risultati, sono un certosino della scrittura, una ricerca nevrotica della perfezione mi spinge a tornare centinaia di volte, sempre insoddisfatto, su un brano, una parola.
Diciamo, allora, match pari. Devo ammettere, comunque, che Lady AI, in quel fulmineo lasso di tempo, ha saputo cogliere, e in minima parte utilizzare, alcuni caratteri della mia sfida alla pagina bianca.
Inoltre, non sono certo un autore a cinque stelle, di quelli che vendono sfracelli di copie appena intingono la penna nell’inchiostro (mi si passi l’immagine arcaica). Al massimo di stelle me ne assegnerei un paio (che non è proprio poco, in un mercato drogato, inflazionato e pesantemente manipolato dalle grandi holding del libro).
Se le fosse capitato uno scrittore con la “s” maiuscola, o un giornale di quelli che fanno opinione, allora sì che Lady AI si sarebbe rimboccata le maniche digitali e, dopo ampia raccolta di materiale, avrebbe sfornato qualcosa di stupefacente. In effetti, ho letto che tutti gli esperimenti del genere si sono conclusi con risultati sorprendenti.
Lady AI ci sa fare, non ci piove; ma c’è il trucco. La nostra lady setaccia in lungo e in largo internet, pesca tutto quanto c’è da pescare (ed è ovvio che quanto più un autore è famoso e un media diffuso, tanto più materiale circola in rete), infine miscela tutto e tira le somme, depone cioè il prodotto finito tra le braccia dei motori di ricerca. Il tutto più veloce della luce.
Ma non è la fulmineità di Lady AI a sgomentarmi.
Qualcos’altro mi angustia. In quattro e quattr’otto, anzi molto meno, Lady AI ha messo al mondo un clone, anche se solo di quella porzione relativa alla mia attività cosiddetta intellettuale.
Dunque, non sono la meraviglia del creato, unica e irripetibile, che ho sempre creduto di essere. Sono doppio, per questo aspetto della mia persona. Se poi una delle intraprendenti creature di Lady AI (e già haccene più di millanta nel mondo) si prendesse la briga di assemblare l’insieme di informazioni che compongono la mia persona, impiantandole su un supporto, sarei doppio in tutto e per tutto. Replicabile all’infinito per di più.
Non è una novità. È quanto, in qualche modo, promette il Metaverso, con suggestioni quasi evangeliche, considera il filosofo Eugenio Mazzarella, che segnala «il trascendere… del mondo reale nel virtuale per il tramite della transitività dei due mondi» (Contro Metaverso. Salvare la presenza. Edito da Mimesis).
Non dimentichiamo poi che teorie fisiche tutt’altro che peregrine (la teoria delle stringhe, ad esempio), parlano di multiverso, cioè di un coacervo di universi paralleli. In cui, in un gioco di specchi cosmico, uno potrebbe immaginare di venire replicato, ma con destini ogni volta diversi, nelle alte realtà.
Non sta a me giudicare se la proliferazione multiversale di Giuliano Capecelatro costituisca un bene o un male. Quello che so è che questi sdoppiamenti senza fine, che Mazzarella bolla come «ri-ontologizzazione digitale», cioè trasferimento e ricomposizione dell’essere cui siamo abituati nel campo virtuale, mi provocano il capogiro e soprattutto una forte inquietudine.
Perché nelle immagini proiettate da questa selva di specchi, nulla vieta di procedere a ritroso. L’ente che se ne va in giro su questa briciola di universo, o multiverso che sia, con l’etichettatura Giuliano Capecelatro. Docg non sarà forse, a sua volta, il duplicato di qualche altro ente, importato da altre lande?
Al dunque, cos’altro è il tracotante Io, se non un supporto di muscoli, ossa, cartilagini in cui viene inserito un programma che lo rende atto a fare alcune cose? Beninteso, questo non vuole essere un argomento a favore di qualche Ente supremo, magari digitale, che non rientra tra le mie opzioni interpretative.
Martin Heidegger guardava con sospetto la tecnica, che definiva bifronte e giudicava addirittura il punto di arrivo finale della metafisica, che riteneva indispensabile superare. Negli anni Cinquanta, il filosofo Gunther Anders, allievo di Edmund Husserl, scriveva L’uomo è antiquato. Solo un titolo ad effetto di fronte al dilagare delle tecnologie?
Alla luce dei progressi stratosferici della tecnica in genere, e soprattutto della tecnologia informatica, oggi ufficialmente designata ICT (Information and Communication Technologies), viene da pensare che, più che antiquato, l’uomo, come lo abbiamo rappresentato e in parte ancora lo rappresentiamo, sia del tutto obsoleto, per far spazio ai suoi avatar, i legittimi abitatori dell’infosfera, la nuova frontiera, il mondo integrato dei mezzi di comunicazioni e delle informazioni che ne scaturiscono.
Mazzarella parla di «grande dismissione del reale nel virtuale», e cita Luciano Floridi, professore di filosofia ed etica oxfordiano, che parafrasa e aggiorna Hegel: «ciò che è reale è informazionale e ciò che è informazionale è reale». In mezzo quello che resta, o ci illudiamo sia restato, dell’Uomo, ipotesi su cui in millenni abbiamo costruito le nostre chiese, religiose e filosofiche. Nel gorgo della «ri-ontologizzazione digitale», quell’insignificante ente denominato io, espressione il cui significato sta rapidamente colando a picco, si aggira smarrito. Che dire? Che fare? Confinato nel mio orticello, non ho davvero strumenti per azzardare risposte. La mia sola preoccupazione è che tra qualche giorno mi ritrovi come un ebete davanti al totem catodico a piatire timoroso, compunto: «Alexa, le dà fastidio se, invece della musica rilassante, ascolto un cd dei Black Sabbath?».
Le fotografie sono di Roberto Cavallini