L'ultima puntata di "Storie di Nina"
Nina e la madre
«Come segretaria, ebbe un successone. Talmente bella per quel lavoro che quasi tutti gli avvocati dello studio – dai giovani procuratori rampanti ai fascinosi soci anziani della lawfirm – le facevano una corte spietata. Per un certo tempo, lei resistette»
Quando raggiunse l’ospedale, lui ormai non c’era più. Lo avevano portato via quelli in divisa. La bambina era intubata, le fu concesso di vederla al di là di un vetro. Dovette subire una sorta di vestizione, prima. Camice e guanti sterili, copriscarpe in plastica con elastico alla caviglia, cuffia per i capelli, mascherina chirurgica. Stella notò che, mentre la vestivano, le infermiere la guardavano male… I loro gesti erano bruschi, sgarbati, quasi le stessero infliggendo una punizione. Nel modo in cui le legavano addosso quella roba, le stringevano la cuffia… la fustigavano, le passò per la mente quest’immagine. La flagellazione delle infermiere. N’ebbe un’altra, d’immagine, quando transitò davanti a uno specchio, subito prima d’entrare. La mascheravano. Entrava da sua figlia camuffata, perché nessuno potesse riconoscerla.
Ma non ci badò, a queste immagini fugaci. Solo impressioni passeggere. C’era Nina, ora, a cui pensare, quella cosina piena di tubi e monitor stesa su un affare tecnologico che ricordava lontanamente un letto. Ma no, ebbe la lucidità di confessarsi che, anche in quelle circostanze, non era Nina il suo unico pensiero. Molte altre cose le sobbollivano in testa, oltre a lei. Magma ustionante dentro la zucca.
Le infermiere uscirono. Entrò un medico e le disse secco secco che avevano dovuto operare. Comunicazione di routine alla madre, sottolineò, obbligatorio informarla. Ci tenne a precisare che era un obbligo. Fornì scarni dettagli sull’intervento: interessava un’area parieto-occipitale di corteccia. Dentro la testa, insomma. Il trauma aveva causato un’emorragia, avevano dovuto ridurre l’ematoma. Erano stati costretti ad asportare un tassello osseo di calotta, per consentire all’edema di espandersi senza comprimere troppo l’encefalo. La pressione dentro la scatola cranica era salita oltre il limite, bisognava aprire quel varco. Grazie al quale, pur sotto la membrana flessibile delle meningi, si poteva contenere la pressione entro livelli accettabili e controllarla. Ma non era questo a preoccuparli. Il tassello di scatola cranica era stato congelato, se tutto fosse andato liscio sarebbe stato uno scherzo, poi, rimetterlo al suo posto. Era l’edema, ora, il problema. La bambina era sedata, coma farmacologico indotto. Troppo presto per valutare eventuali danni al cervello. Andava monitorata, occorreva aspettare. Almeno quarantott’ore, dare tempo all’edema di riassorbirsi. La giovane età giocava a favore.
Tutto questo il medico glielo disse quasi senza guardarla, con una voce piatta e aspra, che, se mai vi si fosse voluto leggere una connotazione emotiva, la si sarebbe detta orientata al disprezzo. Volse lo sguardo su di lei solo alla fine, e non era uno sguardo benevolo. Pareva che in quell’ospedale tutti ce l’avessero con lei…
Fino a poco tempo fa, Stella non pensava più che la sua vita potesse cambiare. Trentatré anni, sposata a ventidue, una figlia venuta subito – causa di un matrimonio precoce, che non aveva desiderato – lavorava da quasi cinque come segretaria in uno studio legale. Suo marito, Nicola, di dieci anni più vecchio, era architetto. All’epoca in cui s’erano conosciuti erano entrambi due bei ragazzi. Lei alta, bionda, amante della moda e di una versione un po’ ingenua di glamour, con qualche ambizione nel mondo dello spettacolo. Lui sportivo, buon giocatore di tennis, mediamente elegante per la portata delle sue tasche, frequentatore di locali trendy ma a buon mercato; non molto dotato, come architetto, però una laurea l’aveva ben presa e, dopo un paio d’anni di galleggiamento in cui s’era arrangiato con lezioni di tennis presso circoli dei quartieri buoni, s’era infilato in una ditta di costruzioni che gli offriva un regolare contratto: primo impiego nei servizi tecnici, con ragionevoli sviluppi di carriera. Senza eccessivi intoppi sarebbe forse arrivato alla dirigenza prima dei cinquant’anni. Queste le prospettive di allora. Ora ne aveva quarantatré e lavorava ancora in un open space accanto a colleghi parecchio più giovani. Da un paio d’anni battagliava all’interno della ditta per avere una stanza tutta sua e forse prima o poi l’avrebbe ottenuta.
Quanto a lei, aveva probabilmente sopravvalutato la sua bellezza. Non era male, né di viso né di corpo, ma tutti i casting a cui partecipò – come modella per la pubblicità e per case di moda, particine in show televisivi e in un paio di film – non le procurarono neanche un ingaggio. Fu in quel periodo che conobbe Nicola, quel giovanotto brillante e piuttosto attraente, con dei trascorsi sportivi di tutto riguardo in circuiti di tennis di buon livello – anche se magari lui li gonfiava un po’ – e che comunque faceva la sua figura in mezzo ai maschi in voga nell’ambiente che frequentava lei. Lo incontrò a un paio di feste e prese a uscirci di quando in quando, poi sempre più assiduamente. A differenza di quasi tutti gli altri, Nicola fu carino e sensibile nei riguardi delle sue mire artistiche, la sostenne nelle fasi altalenanti e un tantino deludenti delle sue avances verso il mondo dello spettacolo. In questo quadro misto, un po’ gaudente un po’ consolatorio, si prese, o credette di prendersi, una cotta per lui, fecero coppia fissa insomma, quasi si fidanzarono, finché a un bel momento lui la mise incinta.
Decisero di sposarsi. Poi ci fu il parto, Nina. E fu più difficile, dopo. Fu più difficile innanzi tutto per le sue mire artistiche. Ebbe ancor più bisogno di sostegno da parte di Nicola. C’erano gli impegni della maternità, ad aggravare il tutto, e lei non era preparata a questo. E vi fu anche qualche modesta difficoltà economica. Niente di grave, ma, in tre, pareva proprio che fosse finita la fase spensierata dei localini alla moda e delle feste. Abitavano in un appartamentino grazioso in un quartiere semicentrale, o di prima periferia, comprato con un bel mutuo sopra e intestato a entrambi. Una vita matrimoniale come tante.
Solo che lei non aveva rinunciato del tutto alle sue ambizioni, non ancora. Aveva solo ventitré anni e quando riprese la linea, dopo la gravidanza, ci riprovò. Il secondo assalto durò alcuni anni, durante i quali, mentre lei si barcamenava tra gli impegni familiari e le ambizioni per il mondo dello spettacolo, si rese conto che il suo maggior sostegno, in quelle ambizioni, non era più Nicola, era proprio Nina. Quella bambina – che inizialmente aveva percepito come un vincolo, un ostacolo; che le aveva causato una brutta depressione post-partum – quella bambina sembrava comprendere d’istinto, meglio di chiunque altro, i sogni della mamma, era la sua fan più sfegatata. L’osservava per ore mentre Stella si truccava, provava abiti, metteva su toilette diverse, studiava pose, espressioni, recitava battute, simulava passi di danza… Un po’ alla volta, Nina era diventata il suo pubblico, la guardava incantata per giornate intere, batteva le manine, rideva, s’entusiasmava, le luccicavano gli occhi davanti alle metamorfosi della madre, ai suoi continui cambiamenti d’aspetto, a tutte quelle esibizioni. Stella provava e riprovava davanti a lei; in definitiva, provava per lei. E la bambina andava in estasi per quei maldestri e goffi tentativi che non le avrebbero procurato nessun ingaggio, applaudiva, rideva, era un giudice di una parzialità assoluta. Stella cominciò a non poterne più fare a meno, se la portò dietro anche ai provini, e vide che in fondo questo l’aiutava: la tenerezza che quella bambina, così incondizionatamente innamorata della madre, suscitava nel freddo e competitivo ambiente dei casting, bilanciava abbondantemente il sarcasmo e il disappunto che forse poteva suscitare, tra avversarie e impresari, il fatto che lei fosse già madre, che si portasse una bimba dietro. Ma, soprattutto, Stella comprese che la presenza di Nina le era d’aiuto, non poteva più farne a meno. La sosteneva, l’ammirazione assoluta di quella bambina, le dava sicurezza; per Nina lei era la star, l’unica al mondo, non esistevano altre stelle nel firmamento fuorché lei.
Tutto questo, però, non fu sufficiente a farle avere una parte. E dopo tre o quattr’anni di tentativi infruttuosi, quando ormai s’avvicinava alla trentina, Stella dovete affrontare il nocciolo del problema. Ebbero diverse discussioni in famiglia con quello che adesso era suo marito, e lei fu costretta ad ammettere che c’era bisogno di un secondo stipendio in casa. Il mutuo si mangiava un terzo delle loro rendite, era un fatto oggettivo. Se volevano continuare a uscire la sera, andare in qualche ristorantino, fare di quando in quando un viaggetto o concedersi delle vacanze, bisognava bene che anche lei portasse il suo contributo alla ditta. Le restava l’ammirazione senza riserve di Nina, lei sarebbe comunque rimasta il suo adorante pubblico, ma era giunto il momento di scendere dal palcoscenico e venire a patti con la realtà. Parlava piuttosto bene l’inglese, sull’utilizzo dei computer sapeva il giusto e si trovò un impiego da segretaria in uno studio legale.
Come segretaria, ebbe un successone. Talmente bella per quel lavoro che quasi tutti gli avvocati dello studio – dai giovani procuratori rampanti ai fascinosi soci anziani della lawfirm – le facevano una corte spietata. Per un certo tempo, lei resistette. Ma poi le capitò di cogliere, in certe conversazioni telefoniche di Nicola, in certi messaggi sbirciati di straforo sul suo telefonino, qualche segnale che, forse, nel ramo fedeltà a una coppia con ormai sei-sette anni di convivenza alle spalle non s’imponevano impegni così granitici.
Investigò meglio, su quei sospetti. E si rese conto che, come lei, anche lui aveva un certo successo con le colleghe d’ufficio, era un bell’uomo, ex-sportivo, ex-playboy… Non le parve il caso di farne un dramma, né di causare sconquassi coniugali per inseguire sciocche chimere. Al contrario, le parve piuttosto un’opportunità. L’aveva spesso sentito dire, a studio, dai suoi insinuanti avvocati, che ‘le difficoltà sono opportunità’, era una delle loro frasi preferite… Quindi s’adattò, scelse di cogliere le opportunità che le reciproche – e distanti – situazioni lavorative offrivano a entrambi.
Qualche sfizio se lo cavò, ebbe inviti a cena in ristoranti di lusso, con qualcuno degli Avv di studio ebbe fuggevoli avventure. Cose gradevoli, una tantum, consumate in posti carini tra cocktail patinati, seratine glamour e week-end camuffati da impegni di lavoro. Con Nicola, del resto, dopo che lui l’aveva costretta a rinunciare alle ambizioni per lo show-business, non si sentiva in debito di nulla. E poi, senza neppure bisogno di parlarne, con lui le cose s’erano messe in chiaro abbastanza facilmente. Avrebbe avuto difficoltà, oggi, a ricostruire con esattezza chi dei due avesse esercitato per primo l’opzione extra-coniugale. Ma, tutto sommato, era propensa a credere d’essere stata lei. Lui, comunque, l’aveva seguita a ruota. E trovarono rapidamente un equilibrio, su questo punto.
Il patto non escludeva affatto una vita coniugale regolare, andavano ancora a letto insieme, e anche piuttosto di frequente, era uno degli aspetti migliori del loro rapporto. Altre cose buone erano le vacanze, i viaggetti, certe cene e certi week-end. Un rapporto matrimoniale funzionante, opportunamente rarefatto dal lavoro. E integrato – positivamente, in fondo – da intermittenti escursioni esterne. L’essenziale in questo ménage era il rispetto reciproco (solo talvolta sconfinante in disinteresse) e una certa sincerità – non spinta all’eccesso, era del tutto inutile scendere in particolari – oltre a un’assoluta attenzione alla non invasione di campo. Nessuna possessività, nessuna stupida gelosia. Su questi presupposti, il matrimonio poteva durare.
Avevano certi beni comuni – la casa – e certe comuni responsabilità – la bambina, Nina, per la verità percepita un po’ come un peso e un limite da entrambi, a questo punto; ma, stranamente, se Nina era un po’ di peso per loro, i nuovi e più leggeri termini del patto familiare che Stella e Nicola stipularono, non turbarono affatto Nina. La bambina parve adattarsi facilmente, spontaneamente a quella nuova situazione, in cui a volte restava sola con mamma, percependo a distanza la confusa presenza di un altro uomo; altre volte restava sola con papà, e compariva – talvolta anche fisicamente – un’altra donna; altre volte ancora sia mamma che papà sparivano, specie a ridosso dei week-end, le lasciavano un po’ di roba da mangiare dentro al frigo e lei s’arrangiava. Tutto questo sembrava non pesarle affatto. Talora Stella si esibiva ancora per lei – quand’era in buona, oppure a consolarla del fatto d’averla lasciata sola per un intero week-end – e Nina s’entusiasmava come un tempo per i suoi numeri, agli occhi della bambina Stella era sempre l’unica al mondo, la sola star. E poi, di quando in quando, mamma e papà stavano ancora insieme come ai vecchi tempi, facevano brevi vacanze a tre, qualche gita, alternavano certi fine settimana in comune ad altri indipendenti.
Insomma, la famiglia era ancora unita, Stella e Nicola erano saldamente legati l’una all’altro da questioni pratiche, oggettive. Andavano abbastanza d’accordo soprattutto a letto, come s’è detto, e stavano ben attenti a non mischiare più di tanto il sesso coi sentimenti. Con questa ricetta, traevano ancora vantaggi reciproci da una vita comune condotta tenendo le giuste distanze. Un modus vivendi come un altro, permetteva di tirare avanti. Discontinuità e rapporti laschi, questo era il segreto. A Nina non pareva dispiacere.
Così, nel secondo quinquennio del loro matrimonio, il piano di convivenza era abbastanza definito. E funzionò egregiamente per un certo tempo.
Poi, a un certo punto, che successe? Comparve quel tizio, a rompere l’equilibrio.
Il tizio era un avvocato scapolo sui quaranta, entrato di recente come senior partner nello studio legale. Un tipo brillante. Affascinante. Gaudente. Si prese Stella come segretaria personale – la nominò sua Personal Assistant, PA era l’acronimo – le fece avere un considerevole aumento di stipendio e cominciò a portarsela in giro in missioni a Londra, Parigi, New York, o dovunque gli capitasse di andare a discutere contratti, trattare affari o seguire dispute e contenziosi per una delle facoltose imprese cui lo studio legale offriva i suoi servigi. La vita di Stella cambiò.
Talvolta quei viaggi contemplavano l’uso di jet privati. Alla peggio, nei voli intercontinentali si dovevano accontentare della prima classe. L’alloggio consisteva sempre in confortevoli suite di noti alberghi pluristellati, e presto Stella – che in qualità di PA curava l’agenda, il piano di viaggio, le prenotazioni, eccetera del suo Avv – ebbe i suoi hotel preferiti a Londra, Parigi e New York, i suoi ristoranti e i suoi lounge-bar abituali in quelle città. S’occupava anche degli svaghi dell’Avv: qualche serata a teatro o all’opera, una matinée sportiva presso il locale circolo di golf, dopocena in night club con secchiello di ghiaccio e champagne di marca dentro. Tutte queste cose, ovviamente, le facevano insieme. E lei perse la testa per quel tipo, o per la vita che gli ruotava attorno, abbastanza da maturarci delle mire.
Le tornarono su, come un rigurgito tardo-fiabesco, le fantasie giovanili che aveva nutrito per il mondo dello spettacolo, per una patina brillante di glamour e successo. Oppure semplicemente, senza che distinguesse bene tra le due cose, una patina brillante di quattrini. Si guardava molto allo specchio. Si guardò moltissimo allo specchio, in quel periodo. Si trovava ancora bella, le parve che lui la facesse sentire così.
In tutto questo, il modus vivendi coniugale con Nicola, con quella palla al piede di Nina dietro, perse parecchie attrattive. Da un bel po’ di tempo non s’esibiva più per lei. Azioni svalutate; ebbe un crollo di borsa, il suo matrimonio. E cominciò a pensare a come liberarsene. Poteva contare sul suo Avv? Si mise in testa che poteva contarci. Si convinse non di aver perso la testa per lui, ma che lui la stesse perdendo per lei, ebbe la certezza d’essergli ormai divenuta indispensabile. Allora cominciò a parlare a Nicola di divorzio.
Ci andò abbastanza cauta, all’inizio. La casa era comunque un valore, gliene spettava la metà. E c’era poi la questione Nina. Se aveva bisogno di seguire l’Avv nei suoi viaggi, essergli sempre accanto, non mollare la presa su di lui, Nina era d’impaccio. A pensarci bene, non le parve d’aver mai detto all’Avv di avere una figlia. Ma certo lo sapeva già, si disse Stella, a studio qualcuna delle altre segretarie si sarà ben premurata d’avvertirlo. Non ritenne quindi di dover affrontare il tema direttamente con lui. E non era certo colpa sua, ma solo delle circostanze, se quel certo peso per il suo ruolo materno, quel vincolo che, come tutto nel suo ménage coniugale, era un legame lasco, improvvisamente s’aggravava, il cappio si stringeva. Era proprio costretta a disfarsene.
Probabilmente nei ragionamenti di Stella esisteva qualche lacuna, certi tasselli non erano al posto giusto. La prima cosa che non aveva messo in conto, per esempio, fu la reazione di Nicola. Quando cominciò a parlargli della fine del loro matrimonio, di come trovare una soluzione alla casa, a Nina – di come spartirsi i resti, insomma – lui ebbe quella reazione… Non se l’aspettava proprio. Sarà stato, forse, che aveva dieci anni più di lei, cominciava a vedere più da vicino l’orizzonte ingrigirsi; sarà stato il fatto che le cose, sul lavoro, non gli andavano troppo bene, non era mai stato un granché come architetto, e questo era un dato ormai assodato, ma pareva che non se la cavasse troppo bene neanche come quadro intermedio d’azienda… forse la dirigenza non l’avrebbe raggiunta mai; e questo fatto, accoppiato a un principio di calvizie che andava prendendosi il centro della zucca – stava a anna’ in piazza, come dicono a Roma – e un certo calo fisico corredato di vistosa pancetta che gli faceva avere meno successo con le colleghe, erano tutte tessere di un mosaico piuttosto sconfortante. Non proprio l’ideale per guardarla tranquillamente spiccare il volo.
Su questi aspetti, forse, Stella fece male i suoi conti. Ma non si sarebbe proprio aspettata che tutto ciò lo portasse a bere. Non lo aveva mai fatto. E invece fu quel che accadde. Quando lei cominciò a parlargli di divorzio, lui in risposta s’attaccò alla bottiglia. Con un altro risvolto, ancor più sorprendente. Quando beveva, Nicola diventava aggressivo. Ebbero delle liti. E lui le mise le mani addosso. In un paio di occasioni le mise addosso anche a Nina.
Stella non era una donna paurosa. Era forte fisicamente, gagliarda, e imparò a difendersi. Più d’una volta ne diede più di quante ne prendeva. E se, alla fine di quelle liti manesche, scorrevano delle lacrime, non erano mai le sue. Inoltre, si fece furba. Se era ubriaco, non era il caso di discutere con lui. Bisognava starne alla larga. Quanto a Nina… Beh, lei sapeva difendersi un po’ peggio. Talvolta, in quelle liti, ne buscava qualcuna, un paio di colpi di striscio o riflesso toccavano a lei. Ma non piangeva mai, pareva non turbarsi affatto. Incassava come una nuova versione, un po’ più cruda, degli spettacoli che una volta sua madre allestiva per lei, quelle gag di litigio familiare in cui i due attori recitanti erano pur sempre, per lei, gli unici e i soli. E anche se a volte, nei momenti più torvi delle sbronze di Nicola, subito prima che lui si sciogliesse in lacrime, le toccava un manrovescio o un calcio, le si gonfiava un labbro o camminava zoppa per un paio di giorni, queste conseguenze le parevano lievi, eteree, quasi frutto di fantasia, come quelle zuffe. Non erano cose gravi, non avevano consistenza, lei non se ne lamentava mai. E non avrebbe cambiato quelle scene con altre più liete, mutando gli interpreti: per lei non ne esistevano di migliori. Le intenzioni più nobili non valevano ai suoi occhi una sola delle loro cattive azioni. Quella bambina era un angelo.
Quanto a lamenti e lacrime, invece, Nicola era un vero strazio. Dopo aver alzato le mani per primo, si pentiva, piangeva, chiedeva perdono. Spesso non ricordava affatto cos’aveva detto o fatto, il giorno dopo. E questo decadimento, lungi dall’impietosirla o farla recedere dai suoi intenti, inasprì i rapporti tra loro. Non lo sopportava più. Quel ménage coniugale che avevano tenuto miracolosamente in piedi per una decina d’anni, andava in pezzi, gli crollava addosso. A lei. A lui. Ma non pensava proprio che il peggio sarebbe toccato a Nina. Nina pareva invulnerabile, pareva passare attraverso tutto questo come uno spiritello incorporeo, una salamandra tra le fiamme, era l’idolo familiare infrangibile e persistente. La sua calma, la sua serenità, quel suo veder tutto con gli occhi di un bambino che assiste a uno spettacolo, partecipa a un gioco, avrebbe disinnescato qualunque incombente catastrofe.
E invece adesso eccola lì, dietro quel vetro, allacciata a quei tubi. Una serie di spie luminose e diagrammi sui monitor misuravano il suo residuo di vita. Guardandola, Stella sentiva venir meno la sua, di vita, la vedeva affondare, inghiottita dal vuoto. E cercava dentro di sé, nel subbuglio che aveva dentro, delle ragioni valide per riemergere, per tirarsene fuori. Come se sprofondasse nelle sabbie mobili, aveva bisogno di attaccarsi a qualcosa – un ramo cadente, una liana, un pezzo di corda – per uscirne.
Avrebbe potuto essere quell’embrione di senso di colpa che sentiva crescerle dentro, poteva essere quello, il salvagente. Un embrione fragile, ma forse avrebbe retto, tutto stava ad afferrarlo sul serio, assecondarne la necessità, riconoscere l’oggettivo stato delle cose: s’avviava ai trentacinque, aveva una figlia undicenne in pericolo di vita, la stessa per cui aveva ballato, cantato, recitato, e che l’aveva incondizionatamente ammirata, amata, che l’amava ancora… Bastava questo, non c’era da fare castelli in aria e non è poi un male avere un futuro segnato, prima o poi ce l’abbiamo tutti. Avrebbe potuto attaccarsi lì, per esempio.
Invece s’attaccò al telefono. Nello stato inconsulto in cui era, chiamò l’Avv.
Dell’Avv finora s’è detto poco, e non è che ci sia poi molto da dire. Uomo di poche parole, l’Avv. E che merita poche parole. Brillante, intelligente e sbrigativo. Stella gli piaceva molto, come PA. Tra le migliori che avesse mai avuto: simpatica, allegra, non molto capace sul lavoro, ma abbastanza da assicurare il livello di efficienza che lui richiedeva su mansioni semplici come prenotare jet e alberghi e gestire un’agenda. Il tutto, dentro un corpo che rappresentava senz’alcun dubbio la sua dote migliore, decorativa alle cene, capace di vestirsi a tono e di parlare poco.
Però non gli era mai passato per la mente che quella scema pensasse lontanamente di coinvolgerlo nei suoi guai. Non voleva proprio saperne, dei guai altrui, l’Avv. Così, quando ricevette quella telefonata, a un’ora tarda in cui sorseggiava il suo cognac XO prima di andare a letto, e la sentì confusamente parlare d’ospedale, di bambina, addirittura di coma, batté svelto in ritirata.
“Sì, capisco che hai dei problemi,” disse. “Beh, non preoccuparti, non è necessario che m’accompagni nella prossima missione. Come dici? Sì, parto domani. Non te l’avevo detto? Già già, non fa nulla, penserà Laura, della segreteria generale, a prenotarmi i biglietti… No, non so quanto starò via… Ovvio che è una missione non rinviabile, ce n’è d’altro tipo? Beh, ci sentiremo quando rientro… No, non so quando. Ora devo andare.” Riattaccò.
Quando Stella provò a richiamarlo, sei volte nei successivi dieci minuti, suonò prima libero senza risposta, poi fece uno strano suono dopo il primo squillo e la linea cadde. Allora gli mandò dei messaggi e sulle prime lui fu anche abbastanza garbato da risponderle. Ma il tono delle risposte s’indurì al terzo scambio, quando lei scrisse: ‘Insomma! Lo capisci che ho bisogno di te! Adesso!’ Tre punti esclamativi. Era troppo, per l’Avv. Rispose: ‘Senti. Finora sei stata una brava PA. Non guastarti il prosieguo di carriera. Ti farò trattar bene, a studio.’
Stella spedì altri messaggi, che non ebbero risposta, ma lei insistette a mandarne. Subito dopo l’ultimo, il suo telefono squillò. Era l’Avv, Stella rispose e sentì nell’auricolare la voce di lui risuonare distante e metallica, gerarchica come non era mai stata: “Ascolta, Stella. Stammi bene a sentire, perché non lo ripeto. Abbiamo passato dei momenti piacevoli, ma chiuso. Le nostre strade divergono. Ti farò avere un buon aumento di stipendio e un posto di tutto riposo nella segreteria generale di studio. Fine del tuo ruolo da PA, dei viaggi e di tutto il resto. E d’ora in avanti ci daremo del lei. Ecco i termini della proposta. Se le va bene è così e se no è così lo stesso.” Click, riagganciò.
E non fu tutto. Quando vennero di nuovo i Carabinieri, al Pertini, e la trovarono lì, accasciata su quella sedia, pochi istanti dopo quell’ultima telefonata, vollero parlarle. Non furono troppo gentili neanche loro. E non parvero del tutto soddisfatti delle sue risposte. Le parlarono di cose che riguardavano Nina, cose confuse che Stella, con quel subbuglio che aveva in testa, non capì del tutto. Colse certe parole. Omissione, era una che ricorreva di frequente; e mancata tutela, le parve, e abbandono… Poi c’era dell’altro. Ma il resto gliel’avrebbero detto in caserma. Portarono via anche lei.
3. Fine. Clicca qui per leggere la prima e la seconda puntata.
Le fotografie sono di Maria Luisa Paolillo