Leopoldo Carlesimo
La seconda puntata di "Storie di Nina"

Nina e il padre

«E adesso, che ci tornava a fare a casa? Ma dove andare, se no? Quindi, finiti i tonnarelli cacio e pepe e la coratella coi carciofi che aveva ordinato dopo, scolato quel mezzo litro, s’incamminò. Arrivò a casa sudato, faceva già caldo ed era in digestione...»

Quando tentò di prenderla, lei resistette. Cercò timidamente di sottrarsi al suo abbraccio, ma era piccola e magra e leggera e lui ebbe facilmente la meglio. La sollevò tra le braccia e la avvolse in un plaid e la trasportò fino all’auto parcheggiata nel vialetto. Tutto questo lo fece mormorando parole. Nessun interesse per il loro significato, ove mai ne possedessero uno. Il senso di quelle parole stava solo nel riempire il silenzio. Nessuno, al suo posto, avrebbe voluto che il silenzio prendesse il sopravvento. Perciò insignificanti parole continuavano uscirgli di bocca, accompagnando gesti obbligati: chiudere la portiera, mettere in moto, imboccare la sopraelevata, correre fino al Pertini…

Non gli parve di piangere, non se ne accorse, in principio. Poi sentì qualcosa di umido scivolare lungo le guance e leccò del salato sulle labbra e così seppe che stava piangendo. Cercò di ringoiarle, non poteva certo concedersi il lusso di un crollo nervoso in un momento del genere… Stringeva il volante fino a farsi male e vide che questo l’aiutava. La presa sugli strumenti di guida – volante, cambio, i tre pedali là sotto – gli ridava una parvenza di controllo sulla realtà. Il rapporto con quei meccanismi snebbiava il cervello, sarebbe arrivato in ospedale quasi completamente lucido. Ma doveva inventare una storia, era costretto a raccontarne una. Ci avrebbe pensato strada facendo. Aveva un quarto d’ora buono per imbastirla, qualcosa di convincente…

La giornata era cominciata molto presto. Verso le due del mattino la sentì andarsene. Per l’ennesima volta, ormai era un cliché. Capitava, la sera, quando aveva alzato un po’ il gomito. E lei facilmente trovava un pretesto per litigare. Sicché poi, dopo la lite e il resto, quando lui era troppo prostrato per reagire, la sentiva oltre la parete ammucchiare un po’ di roba dentro un borsone – era un pezzo, ormai, che dormivano in camere separate – e via, spariva. Forse sarebbe ricomparsa la sera dopo. Forse. Aveva proprio perso la testa per quel tipo.

Lui sprofondò in un sonno malsano e si svegliò la mattina all’alba, solo con un confuso ricordo dell’accaduto. Gli si sarebbe chiarito più tardi, nel corso della giornata, ma lì per lì gli parve che non fosse successo nulla di troppo grave. La bambina, grazie a dio, era in gita scolastica. Sarebbe tornata quella sera e se Stella non fosse stata ai patti… Gli assistenti sociali li avevano già diffidati. Mai più, mai, lasciare sola per l’intero week-end la bambina. Ma a lei, a Stella, naturalmente non importava. Egoista fino in fondo, non rinunciava a niente. Troppo furba, per lui, quella donna. Continuava a fregarlo.

Arrivò in ritardo e fu redarguito dal capufficio. Inoltre non aveva pronta la parte che toccava a lui di quell’importante presentazione… Altre rogne in vista. S’accomodò al suo tavolo e la compagna della postazione accanto, quella Marta, gli chiese con la sua vocina insinuante se era tutto a posto. Sapeva cosa intendeva. Lei l’aveva certo finita, la sua parte, figurarsi. Non mancò di dirglielo, velenosa e tagliente. L’aveva già mostrata al capufficio.

“A me restano giusto un paio di ritocchi,” replicò Nicola. Orientò lo schermo in modo che lei non potesse sbirciarci dentro. Un paio di ritocchi! Quasi tutto il lavoro ancora da fare, altroché… non avrebbe mai fatto in tempo.

Ci provò comunque, per una decina di minuti buoni. Restò quasi un quarto d’ora con lo sguardo fisso sullo schermo e il mouse che viaggiava qua e là, le dita che accarezzavano la tastiera alla ricerca di idee che non venivano. Non riusciva, non riusciva a concentrarsi. Aveva bisogno di una boccata d’aria, rinfrescarsi le idee… e allontanarsi dallo sguardo di quella vipera. S’alzò e fece per andare in bagno. Lungo il corridoio, subito prima della toilette, la porta che dava sul ballatoio era aperta. Non fu mica lui a deciderlo, si trattò d’un gesto automatico. Imboccò la scaletta di servizio che scendeva al cortile, lo attraversò e aprì il cancello che dava sul vicolo.

Era fuori. Ma non era d’aria, gli parve, che aveva davvero bisogno. In fondo al vicolo, il baretto a quell’ora era poco frequentato. Un po’ presto per un aperitivo, si disse, però sentì che gli avrebbe giovato. Avrebbe lavorato meglio, dopo. Entrò. Davanti al banco non c’era nessuno e dietro al banco Ernesto, il barista, gli fece un cenno di saluto. Prese un Campari. Poi ne prese un altro ed Ernesto lo guardò in quel modo. S’affrettò a pagare. “E’ questo caldo,” buttò lì. “Secca la gola.” Non ebbe risposta, né ne aspettava. Fece a ritroso il percorso fino alla postazione.

Ci trovò il sorriso di Marta, ad attenderlo. “S’è affacciato il direttore,” gli disse. “Ha convocato la riunione per le undici.” Le nove e trenta. Ormai era impossibile. Ma ci provò, per un quarto d’ora buono, prima di arrendersi, provò e riprovò a metter mano a quella serie di slides. Niente da fare. Non veniva niente. Uscì dalla presentazione, stando ben attento a tenere lo schermo coperto agli occhi della vipera. Passò il resto del tempo a dirsi che avrebbe fatto meglio a chiedere un colloquio, prima della riunione. Meglio spiegarsi in anticipo, invece di…

Ma non lo fece. Non bussò né alla porta del capufficio né a quella del direttore, e quando si sedette, in sala riunioni, e collegò il computer come se avesse qualcosa da proiettare sullo schermo, sentì che gli sudavano le mani e le dita tremavano. Sicché, dopo la parte della vipera, ch’era subito prima della sua, quando toccò a lui, dovette semplicemente dire che non l’aveva pronta. Ci fu un lieve mormorio, poi silenzio. Il direttore guardò il capufficio e il capufficio puntò gli occhi su di lui, su Nicola, o almeno ci provò. Ma il direttore non glielo permise. Tenne salda la presa sul superiore gerarchico e scandì gelido: “Mi aveva assicurato che per le undici avremmo avuto la prima bozza pronta. Completa di ogni componente. L’incontro è per domani.” “Ha ragione, ma non ho avuto il tempo di rivederle tutte…” farfugliò il capufficio. “Nicola deve aver avuto qualche problema…” “Lo vedo.” Con quegli sguardi furenti, il capufficio gli lanciava forse un salvagente, ne avevano bisogno entrambi… Doveva dire qualcosa, subito. Balbettò: “Sì, purtroppo, è accaduto un fatto grave a casa, ieri sera…” Lo disse con voce rotta, gli venne bene, emozionato, quasi commosso e del tutto credibile… Il direttore accusò il colpo, non volle entrarci. In tono gentile, con indulgenza, lo interruppe: “Vuole che le racconti i miei?” Poi, rivolto al capufficio: “D’accordo, non ho tempo adesso. Passiamo oltre. Mi presenterà la seconda bozza con le revisioni, completa della parte mancante, nel pomeriggio. Diciamo alle 15. Dovremmo avere ancora il tempo per una terza revisione alle 20. Poi montate il tutto stasera e domattina alle 9 facciamo la prova generale. L’incontro coi giapponesi è nel pomeriggio, avremo ancora un po’ di tempo, in mattinata, per i ritocchi finali.”

Passarono oltre. Tutti gli sguardi s’allontanarono da lui. Le altre parti della presentazione si succedettero senza inconvenienti, e su ciascuna, ora qui ora là, il direttore faceva osservazioni, venivano suggeriti dal capufficio e dagli altri certe modifiche, integrazioni o tagli. Parlarono un po’ tutti, come sempre, seguendo uno schema collaudato in cui ciascuno era chiamato a dare il suo contributo; cioè dire cose grossomodo intelligenti stringatamente inerenti al tema, e fare al tempo stesso bella figura. La vipera fu quella che riuscì meglio in entrambe. Nicola fu l’unico che non disse niente. Quando la riunione finì e tutti tornarono alle proprie postazioni, il capufficio gli sibilò alle orecchie: “Entri da me.” Chiuse la porta alle sue spalle e l’invitò con cortesia eccessiva ad accomodarsi.

S’aspettava una sfuriata. Fu peggio, ma lui non la percepì in quel modo, al contrario ne fu sollevato. Il capufficio disse: “Senta, Nicola. La vedo in difficoltà, con questo lavoro… saranno quei problemi che ha a casa, cui ha accennato… Purtroppo però abbiamo la riunione domani, non c’è tempo. Passi la sua parte a Marta, che cura la sezione precedente, e a Giovanni, che cura la successiva. Metà per uno. Adesso li chiamo entrambi, per comunicarglielo. Quanto a lei, è esentato dal servizio. Per oggi e anche per domani. Vada pure a occuparsi dei suoi problemi. Ci vedremo dopodomani, dopo l’incontro coi giapponesi, per riparlarne.”

Licenziato? L’avrebbe saputo tra quarantott’ore. Ma fu con sollievo che uscì da quell’ufficio. Non passò nemmeno per la sua postazione, ficcò semplicemente il capo nell’open space e gridò: “Marta, Giovanni, il Dott. Mori chiede di voi, vi aspetta!” Voltò le spalle alla sala gremita di postazioni e di teste e proseguì spedito lungo il corridoio. Subito prima della toilette, imboccò la scaletta.

L’ora adesso poteva anche andare, s’avvicinava la mezza. Ma lo sguardo che Ernesto gli piantò addosso, servendogli il Campari, era uno schermo trasparente sui suoi pensieri. “Fanculo,” ruminò Nicola. “Se ti va proprio di tenere il conto, fa’ pure.” Se lo scolò d’un fiato e ne ordinò un altro.

Non millantava, i problemi c’erano davvero. E forse avevano pure qualcosa a che fare con la sua crescente incapacità di lavorare e di concentrarsi, col tremito alle mani e con l’impulso sempre più incontrastato a far ricorso all’alcol, anche se in ufficio tali questioni erano irrilevanti. Problemi di nessun interesse, come gli era stato giustamente ricordato.

Il fatto che il suo matrimonio fosse ormai un cadavere che solo due lacci impedivano a lui e Stella di seppellire – una casa in due, con una figlia indesiderata dentro – era un fatto banale. Così se lo trascinavano dietro, quel corpo in decomposizione, senza riuscire a liberarsene. E marciva, imputridiva con loro. I due corni della questione, su cui disputavano ormai da mesi, erano a chi spettasse la casa e chi dovesse accollarsi la bambina. Si tenevano stretti in questa presa di lotta, andando a fondo.

Mentre stava sull’autobus, appeso alla maniglia e sballottato dalla folla, sentì con angoscia avvicinarsi casa. Scese un paio di fermate prima e si fermò in una trattoriola che conosceva nei paraggi a mangiare un boccone. Un’insegna modesta, con menù affisso in bacheca, prezzi modici e nomi dei piatti solo in italiano. Il locale era stretto e semibuio, livello di arredi e pulizia un po’ sotto il minimo corrente, tavolini coperti da tovagliette a scacchi bianchi e rossi con saliera e stecchini a centrotavola. Scelse un tavolo lontano dalla cucina, per non impuzzolentire gli abiti, e ordinò. Stava per prendere mezzo bianco, ma ripensò ai Campari che già aveva in corpo e decise di limitarsi a un quartino.

Gli sarebbero serviti almeno un paio di bicchieri per fare quella telefonata. Ma, visto che era a dosi razionate, s’accontentò di uno, compose il numero e chiamò. Lei rispose al quinto squillo, segno che ci aveva pensato su. “Stella…”. “Cosa vuoi?” “Dovevi starci tu, a casa, questo week-end…” “Non mi seccare.” “Ho problemi al lavoro, Stella. Portiamo fuori quella delegazione di giapponesi, ci devo essere, rischio il posto, altrimenti. A Nina devi pensarci tu.” “Ma inventane un’altra, buffone! Hai solo voglia di andare a sbatterti una delle tue troie.” Si sentì alzare la voce. “Senti, stronza, toccava a te. Io ho già fatto l’altro, di week-end…” “E hai pure il coraggio di parlare, dopo ieri sera?” Questo lo sconcertò. Che aveva fatto, ieri? Cos’aveva detto? Non se lo ricordava più. Quando beveva, non lo ricordava mai. Ma non poteva essere così grave… “Tutte storie. Ci marci, a fare la vittima. Solo per farti i tuoi porci comodi!” “Non te lo ricordi neanche più, eh? Non ci torno, a casa, non ci sto sotto lo stesso tetto con uno come te.” “E Nina?” “Affanculo anche Nina. E’ diventata una catena, ormai. Basta!” “Che madre! Perché non lo dici a quelli dei servizi sociali?” “Diglielo tu.” “Dove sei?” “Fatti miei.” “Se non torni, stasera…” Click, Stella aveva attaccato.

Poi, d’un tratto, mentre l’oste scodellava i tonnarelli cacio e pepe che aveva ordinato, gli tornò in mente la scena della notte prima. E dovette prendere altro mezzo litro, per sopportarla. Le parole di Stella erano sonore e nitide come se le sentisse ora. Se l’erano date. Un’altra volta. Era successo di nuovo, l’aveva fatto ancora. E lei aveva reagito. E adesso stavano lì, buttati una da una parte e uno dall’altra. A lui, come sempre, salivano le lacrime agli occhi, dopo. Che vergogna. Non riusciva proprio a trattenerle. Lei disse a bassa voce:

“Sono disposta a lasciarti la casa, se ti prendi Nina.” Era una proposta. Oscena? Indecente? Forse no, forse si limitava a riconoscere lo stato delle cose.

La proposta era arrivata al termine della lite, l’ultima, quando esauriti gli insulti, le lacrime, le grida – tutti di lui, come sempre; era lui il primo a insultare, poi era il solo a piangere; ed era sempre lui l’unico ad alzare la voce, quando non… quando non alzava anche le mani, com’era successo quella sera – quand’ebbero recitato tutto il copione fino all’ultima battuta, quando entrambi caddero esausti, lei sul divano lui su quella vecchia carcassa di poltrona bergère che chissà che aspettavano a buttar via… Si teneva la testa tra le mani, platealmente, mentre sentiva quel raspo in gola, che aveva bisogno d’esser bagnata, subito, e pensava dentro di sé a un pretesto che gli consentisse di filarsela, andare all’armadietto, prendere la bottiglia. Allora lei, con una voce più roca del solito, concluse:

“Finiamola, Nicola. Non possiamo andare avanti così. Non ha senso. Io ho davanti a me un’opportunità, e non ci rinuncio. Rivoglio la mia libertà. La rivoglio tutta quanta. In questo non rientrate né tu né Nina. Sono disposta a lasciarti la casa se ti prendi lei. Mi pagherai un ragionevole affitto per la mia metà. Possiamo fare un accordo anche domani. Andiamo da un avvocato, mettiamo per iscritto.”

A questo Nicola non era preparato. Lo lasciò senza fiato, quella proposta. E non ebbe più bisogno di nessun pretesto, non dovette cercare alcun escamotage, per alzarsi dalla poltrona, curvo come se avesse ricevuto una randellata, andare allo stipo sotto la libreria, prendere la bottiglia e versarsene una bella dose. Liscio. Lo fece stancamente, ma lucidamente, sentendosi perfettamente giustificato. L’alcol lo fece stare subito meglio.

“Cioè. Se mi faccio carico io della bambina, tu mi lasci la casa. E ti pago un affitto. E la chiudiamo qui. Questo proponi.”

“Sì.”

“Divorzio. Consensuale.”

“Sì.”

“Non te ne importa che bevo. Che non sono capace di fare il padre. Che non sono più capace di lavorare. Che quando mi ubriaco divento emotivo, manesco, a volte violento… Mi lasci la casa con dentro Nina, incassi un po’ di soldi e te ne vai. Non te ne frega niente del resto.”

“Proprio niente.”

“E lo vuoi per iscritto. Un pezzo di carta per liberarti di tutt’e due.”

“Sì.”

“Hai proprio perso la brocca per quel tizio…”

E adesso, che ci tornava a fare a casa? Ma dove andare, se no? Quindi, finiti i tonnarelli cacio e pepe e la coratella coi carciofi che aveva ordinato dopo, scolato quel mezzo litro, s’incamminò. Arrivò a casa sudato, faceva già caldo ed era in digestione, si lasciò andare sulla bergère, quel vecchio catafalco mezzo sfondato che non aveva rivali quanto a comodità. S’appisolò.

Al risveglio, due ore dopo, aveva un cerchio alla testa e la bocca impastata. E la gola secca, che reclamava ancora qualcosa. Le cinque. Stella non era rincasata, come minacciato. E certo, se non era rientrata per quell’ora, non l’avrebbe fatto più tardi, né l’indomani, né forse mai. Andata da qualche parte con quel tizio, sicuro. Ma, quanto a week-end, anche lui aveva dei piani. E quella stronza… Come fare, con Nina? Sarebbe rientrata alle sei da quella gita scolastica, bisognava andarla a prendere. Vaglielo a spiegare, se no, agli avvoltoi dei servizi sociali e alle insegnanti ficcanaso… Si fece una doccia, per scrollarsi di dosso i residui dell’alcol vecchio e prepararsi al nuovo, e s’avviò.

Quanto al week-end, ci pensò su strada facendo. L’aveva già portata a casa, quella collega d’ufficio, l’ultima con cui aveva imbastito una relazione. Se Stella non fosse rientrata, avrebbero potuto stare lì, a casa, Nina ormai la conosceva, pareva trovarla persino simpatica…

Era successo un paio di volte negli ultimi mesi. Stella il week-end spariva, volava via col suo tizio, lasciava campo libero. E lui e quella tizia, quella Mabel, s’organizzavano la loro seratina. Potevano farlo a casa, Mabel sapeva cucinare, le piacevano le cenette casalinghe, come se fossero loro due gli sposati. Sicché cenavano serenamente tutt’e tre, lui e Mabel con Nina, Mabel la trovava un angelo. “E’ così tranquilla,” diceva. “Così quieta.” Ci scherzava, la coccolava, a Mabel i bambini piacevano; e anche a Nina non pareva dispiacere, quella quarantenne un po’ goffa, un po’ massiccia, matronale, che prendeva per una o due sere il posto di Stella. La lasciava fare. Mabel – che non aveva figli – vezzeggiava Nina per tutta la prima parte della serata. “Sempre così taciturna, così dolce, un tesoro,” diceva. Dopo cena, Nina si ritirava nella sua cameretta, a colorare vecchi album da disegno – Mabel le aveva chiesto di mostrarglieli, e lei l’aveva fatto – o a guardare dei cartoni, e lui e Mabel avevano campo libero.

La mattina dopo facevano colazione tutti insieme, come una famiglia. Mabel sapeva preparare delle colazioni fantastiche… Non era un’evasione extra-coniugale, in realtà, era piuttosto un tuffo nel tepore matrimoniale dei vecchi tempi. Avrebbero potuto rifarlo, non era venuta male, a Nina non era dispiaciuto affatto. E in quelle occasioni – grazie a quegli effimeri, distorti simulacri di famiglia – lui aveva anche meno bisogno di bere, Stella era lontana, con tutto quel che si portava dietro.

Quanto a Nina, poi, Mabel aveva ragione. Era un angelo, quella bambina. Accettava tutto, s’adattava a tutto. Pareva contenta che suo padre si tirasse un po’ su, malgrado Stella, assente lei. Che Mabel le andasse a genio, era semplicemente conseguenza del fatto che vedeva il suo papà più sereno, solo questo, Nicola lo capiva. Non era Mabel a piacerle, ma l’effetto che aveva su di lui. Quella bambina gli voleva bene.

E pure con Stella, quando poi lei tornava dal suo week-end col tizio, le cose andavano un po’ meglio, per qualche giorno riuscivano tenerla a galla senza litigare. Messe le giuste distanze, la tregua reggeva. Quel residuo d’armonia che aleggiava ancora per casa, quella pausa di calma… di tutto questo, la bambina pareva essere consapevole, quasi esserne misteriosamente attrice, come un piccolo nume tutelare domestico sembrava assecondare, favorire e proteggere quell’inconsueta evoluzione del ménage familiare…

Il pullman arrivò puntuale, alle sei spaccate. La maggior parte dei genitori erano già lì ad attendere le bambine. Aspettò che la folla di mamme e papà con alunne al seguito sciamasse, poi s’avvicinò. Eccola lì, Nina, ai piedi del pullman, tra le due ficcanaso. Nicola le salutò, fece un bel sorriso e strinse loro le mani. Quelle arpie. Restituirono la stretta senza sorridere. Una delle due lo prese da parte, mentre l’altra accompagnava Nina sul pullman a cercare qualcosa.

“La bambina ha avuto una crisi di nervi, oggi,” gli disse sottovoce la prof peggiore, Elsa, così si chiamava, la più accanita.

“Come, una crisi…?” Farfugliò Nicola.

“Sì. Ha perso le chiavi di casa, devono esserle cadute durante la gita e non c’è stato verso di ritrovarle. Ma quello che ha stupito tutti, quello che è anormale” disse Elsa, e fissò su di lui uno sguardo inquisitore che sembrava frugargli dentro “quello che è anormale è la reazione della bambina. Nina era assolutamente nel panico, era terrorizzata. Ha avuto accessi di pianto, tremava, non riusciva a parlare… E’ durata parecchio, ci abbiamo messo un pezzo a calmarla.” Elsa tacque. Il suo sguardo s’incattivì: “Lei sa spiegare perché tanta paura? Cosa la spaventa così?”

Pur con lo strascico d’alcol che aveva addosso, Nicola sapeva rispondere a domande del genere. Recitò bene, gli riusciva di stare in parte anche quand’era pieno, e disse angosciato che non sapeva proprio come spiegarselo, si mostrò ansioso, agitato. Come in ufficio, l’emotivo riusciva a farlo in modo credibile. Volle vedere Nina, assicurarsi che stesse bene.

“Ma perché date le chiavi di casa a una bambina di undici anni?” Chiese Elsa. Non mollava la presa.

“Gliele ha date la madre,” disse Nicola. “Sa com’è. Cerca di renderla responsabile, un po’ alla volta. Non importa, se le ha perse, cambieremo la serratura…” Elsa cercò ancora di farsi spazio, ma le ulteriori domande che escogitò furono più facili. Nicola non ebbe difficoltà a rispondere. Alla fine gli riconsegnò la bambina, e lui salì in macchina con Nina, la portò a casa.

Lungo il tragitto non parlarono affatto, né delle chiavi perdute, né della crisi di Nina, né d’altro. Nicola s’era fatto improvvisamente cupo, taciturno, roso dal colloquio con l’arpia. Quella ficcanaso! Era stato costretto a render conto, a giustificarsi, a mentire. L’umiliazione di quel colloquio gli bruciava come un affronto, l’ennesimo. Entrò in casa di pessimo umore.   

Sicché adesso era lì, di nuovo stravaccato sulla bergère. Era buio, passate le dieci, e Stella non era tornata. Quella bottiglia che aveva davanti gli aveva fatto buona compagnia, nel frattempo. La metà mancante. L’altra sarebbe bastata per tirare mezzanotte, un’ora ragionevole in cui ficcarsi sotto le pezze e buttarsi alle spalle quello schifo di giornata. Niente male, per un giorno solo. Chiuso con Stella, chiuso col lavoro. Perché l’avrebbero licenziato, sicuro. Beh, quel po’ che aveva in banca sarebbe servito a pagare l’affitto a Stella per qualche tempo, in attesa di trovarsi un altro impiego. Perché aveva deciso di accettare la sua proposta, che altro poteva fare?

Non c’era nient’altro da fare. Queste le conclusioni delle due ore di riflessioni e pensieri in cui aveva ruminato i fatti della giornata, in compagnia della metà mancante di bottiglia, che ora aveva in corpo. Rimuginio dal tasso alcolico crescente, le cui conclusioni gli parvero ovvie e persino leggere. Tutto logico, lineare, non gli pesava affatto. Questione risolta, l’avvenire immediato non riservava più sorprese. Questo, almeno, alle dieci di sera. Merito dell’alcol, che alleggerisce, a volte, nelle dosi appropriate. Chi poteva immaginare che due ore più tardi, dopo l’altra mezza bottiglia, sempre per via dell’alcol le cose potessero cambiare ancora, che la giornata fosse ancora in grado di spiazzarlo…

Quando, a mezzanotte circa, Nina uscì di camera per andare in bagno – s’era coricata presto, dopo la cena frugale che lui era stato più o meno in grado di arrangiare, aveva guardato un po’ di cartoni sulla piccola TV che teneva nella sua cameretta e s’era addormentata – quando ne uscì, Nicola era in sala. Aveva smesso di rimuginare sulla proposta di Stella. Aveva smesso di rimuginare sui colleghi d’ufficio, sul lavoro perduto, sul barista che tiene il conto dei suoi Campari, sulle arpie ficcanaso cui deve giustificare suo ruolo di padre… aveva smesso di rimuginare su tutto questo. O meglio, non era più lui a farlo. Erano quelle cose che tornavano su da sole, caoticamente, come fossero animate di vita propria. Un magma bollente d’immagini e pensieri che, grazie a quella bottiglia ormai vuota, gli fluttuavano davanti agli occhi e gli zappavano nel cervello. Il capufficio. Stella. La vipera. Il barista. La ficcanaso, soprattutto, quella dannata ficcanaso…

Fu allora che comparve Nina. Era in pigiama. E non avrebbe dovuto affacciarsi a quella porta, perché lui la vide. Nello sguardo l’odio tranquillo di un uomo che ha passato la serata da solo a bere. La chiamò.     

“Nina! Vieni un po’ qui!”

La bambina s’avvicinò.

“Com’è andata, oggi, che hai perso le chiavi?”

Nina farfugliò qualcosa, con voce insonnolita, angelica, innocente. Ma Nicola non riconobbe quell’innocenza.

“Tu ti perdi le chiavi, e io devo renderne conto a quell’arpia? Com’è questa storia, eh?”

Gliene mollò uno, prendendola appena sopra l’anca. Nina si piegò, attutì il colpo.

“No, pa’…” piagnucolò. “Non è stata colpa tua, la prof si sbaglia…”

Ma lui non l’ascoltò. Aveva tutt’altra roba, ormai, che gli guizzava davanti agli occhi. Le idee si mescolavano, un gran turbinìo dentro la testa. Il capufficio, la vipera, la proposta di Stella. Gli parve che in qualche modo tutta quella roba si legasse assieme, e comprendesse anche lei, Nina. Sì, ecco, c’era qualcosa che la bambina condivideva con tutti loro…

“Tua madre non si vede, eh? Lo sai che m’ha fatto una proposta? Te lo devo dire, riguarda anche te… Ci staresti, tu, qui con me? Senza mamma. Mamma si leva dai coglioni. C’è un tizio di mezzo, questo lo sai… Lei se ne va. La casa ce la teniamo noi, io e te, soli soletti… Magari ogni tanto ci viene Mabel…”

La bambina s’avvicinò troppo e Nicola gliene mollò un altro, ma la prese di striscio, alla gamba. Non le fece troppo male. Lei implorò: “Oh, pa’… non farlo. Parlerò io con mamma, pa’, vedrai, la convinco, s’accomoda tutto…”

A lui parve che quella fosse la sua parte della proposta, quella che veniva da Nina, la contropartita che gli offriva lei. Gliene mollò un altro, poi un altro ancora.

Quando raggiunse l’ospedale e il pronto soccorso, e consegnò la bambina a quella gente in camice, stava ancora limando il resto della storia. C’era il tavolo di marmo, in sala, con quello spigolo piazzato proprio nel punto dov’era volata la testa di Nina… Tutto vero, del resto, era andata proprio così, e lui sapeva bene che, in qualunque storia, è sempre meglio raccontare più verità possibile. Omise solo un dettaglio, o meglio lo aggiustò. Una piega del tappeto, in cui la bambina aveva inciampato, prese il posto della carezza che le aveva rifilato lui. Gliene aveva mollati solo un paio, del resto, neanche troppo forti… Non potevano proprio aver portato a tali conseguenze.

La raccontò così ai sanitari e gli parve che funzionasse. E quando poi arrivarono quelli in divisa, la raccontò anche a loro. Ma la sua percezione d’ubriaco doveva essere proprio alterata, perché quella storia non convinse nessuno. E c’era quella denuncia per maltrattamenti, pendente, con le testimonianze delle ficcanaso e i rapporti degli assistenti sociali e tutto il resto.

Quelli in divisa lo portarono via. Chiese di vedere Nina, prima di seguirli. Non glielo concessero.

2. Continua. Clicca qui per leggere la prima puntata.


Le fotografie sono di Maria Luisa Paolillo

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