Nicola Fano
La morte di un grande teatrante

L’utopia di Scaparro

In memoria di Maurizio Scaparro, un artista e intellettuale vulcanico che ha lasciato un segno indelebile nella cultura degli ultimi quarant'anni con la sua progettualità e la sua vocazione all'utopia. Nel segno di Cyrano e Adriano, il suo è stato proprio un "Teatro del Mondo"

Maurizio Scaparro – scomparso all’indomani dei suoi novant’anni festeggiati nel settembre scorso – si porta via un mondo di passioni che non era solo suo, ma di quella vasta comunità di artisti e teatranti che nei decenni dalla fine dei Settanta all’inizio del Duemila hanno creduto fermamente, tenacemente, nella centralità sociale della cultura e del teatro. Una persuasione umana, prima che politica, che ha lasciato spazio alla corruzione (economica, politica, culturale) che da più di un decennio governa quel che resta del teatro, in Italia. Tanto che Maurizio Scaparro era ormai un “corpo estraneo”, quasi l’ultimo testimone di una stagione mitica e perduta. Ossia quella stagione nella quale la progettualità collettiva prevaleva sull’interesse individuale.

Uomo di punta del teatro pubblico in Italia (aveva diretto lo Stabile di Bolzano, poi il Teatro di Roma, poi la Biennale Teatro), Scaparro resterà nella memoria di chi l’ha conosciuto più per la vulcanica capacità di progettare con gli altri che non per il protagonismo onanista che oggi alligna nei pochi divi sopravvissuti del teatro pubblico italiano. Utopia era la parola che gli si sentiva pronunciare più di frequente, e non era una formula vuota ma il motore della sua vulcanica forza propulsiva che lo portava a lanciare sfide, a tentare strade nuove, non sempre comprese da chi gli stava intorno. Si deve a lui, per esempio, il ritorno di interesse (culturale, sociale, prima ancora che turistico) per il Carnevale di Venezia che egli reinventò quando dal 1979 al 1982 diresse la Biennale Teatro. Ma, per capire di che cosa stiamo parlando, occorre ricordare che in quella veste commissionò a Aldo Rossi la progettazione e la realizzazione di un grande teatro galleggiante: lo chiamò Teatro del Mondo e lo fece partire da Dubrovnik (nell’allora Jugoslavia comunista) per farlo approdare sul Bacino di San Marco. Lì, su quel palco assurdo e magnifico, recitarono attori di lingue diverse, a segnare un atto di congiunzione culturale che andava oltre le frontiere, le ideologie e le Cortine. Quella meraviglia (il teatro di Aldo Rossi) dopo essere marcito dalle parti della Giudecca, è stato smontato e abbandonato: non è più tempo di utopie.

Il Teatro del Mondo a Venezia

Con questo precedente, il Mediterraneo è stato sempre terreno di battaglia culturale per Scaparro. Non si contano i festival che ha promosso, favorito e diretto cercando di costruire ponti tra le diverse sponde del Vecchio Mare. Con puntate nel Maghreb come in Francia come in Spagna. Perché anche questo pregio aveva, Scaparro: pensava in chiave internazionale, finendo per risultare indigesto a un certo gretto provincialismo di chi gestiva e gestisce il teatro in Italia. No, lui portava la cultura degli altri da noi e la nostra fuori dai confini: la sua dimensione progettuale era europea. E non a caso aveva affiancato Giorgio Strehler, nel 1983, alla direzione del Théâtre de l’Europe, all’Odeon di Parigi: proprio la Francia, infatti, è stata la sua seconda patria e a Parigi ha continuato a pensare e realizzare progetti fino alla fine.

Ma un folle salto in avanti nella definizione del linguaggio teatrale sembrava, anche, la tenace politica di relazione tra cinema e teatro che Scaparro portò avanti realizzando diversi film di fortissimo impianto teatrale (quello su Don Chisciotte resta forse il più riuscito), nella convinzione che la tecnologia non potesse che far bene a un’arte antica come il teatro, a patto di innestarla sulla tradizione, sulla passione per la memoria.

Un lungo sodalizio artistico lo ha legato a Pino Micol, con il quale ha realizzato forse il suo spettacolo più bello, un Cyrano poetico ed essenziale del 1978 che, grazie a una riuscita traduzione in prosa di Franco Cuomo, recuperò uno spessore filosofico allo spadaccino raccontato in chiave romantica da Edmond Rostand: era uno spettacolo vivo e vitale, ma pervaso di possente malinconia per la sconfitta patita dalla poesia e della conoscenza sotto i colpi di una certa qual gagliardia militaresca del mondo circostante. Erano gli Anni di Piombo, del resto, e l’eroe di Scaparro-Micol sembrò l’altra faccia della medaglia del capolavoro di Strehler, la Tempesta di Shakespeare allestita con Tino Carraro e Giulia Lazzarini in quella stessa stagione e che rifletteva proprio sulla sconfitta dell’arte ad opera di una realtà odiosa. Ma lo spettacolo di maggior successo, fra i tantissimi di Scaparro, è stato sicuramente Memorie di Adriano, per lunghi anni ripreso con Giorgio Albertazzi protagonista, tanto da farne un’icona del teatro che mescolava la parola, lo spazio e la danza: un altro salto in avanti: la prima edizione fu nel 1989, ma per anni e anni è stato ripreso e rielaborato dall’interprete e dal regista.

Resta il fatto che il nome di Maurizio Scaparro è uno di quelli che hanno segnato un’epoca. Non solo per i suoi spettacoli, ma proprio per la sua progettualità, per le sue utopie: e questo è ciò che Maurizio si è portato via definitivamente.

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