Alla Galleria Nazionale
Nuovo barocco romano
Una ricca mostra curata di Antonello Tolve ripropone quattordici artisti che hanno raccontato la trasformazione italiana dagli anni Ottanta. Uno sguardo inedito su Roma, nel quale il riflesso barocco finisce per apparire il segno di una crisi
Peccato che la Galleria nazionale di valle Giulia continui ad arricchire il suo cartellone ospitando iniziative chiavi in mano come un bed and breakfast taccagno: scarsa promozione, cartella stampa e didascalie ridotte all’osso, nessun catalogo per chi voglia più informazioni su ciò che ha visto, figurarsi un manifesto all’ingresso per sapere che c’è in programma.
Se n’è scivolata via così senza alcun risalto una bella e ricca mostra che rileggeva con nuove suggestioni l’opera di un maestro dell’Ottocento come Domenico Morelli e molti importanti lavori che il museo ha declassato con il suo riallestimento alla Instagram. E rischia ora di fare la stessa fine l’intrigante rassegna che ne ha preso il posto e resterà in cartellone fino a maggio. Si intitola Presente indicativo ed è curata da Antonello Tolve, un critico di solida formazione e in riconosciuta ascesa.
In passerella, con due o più opere, quattordici autori di alta o buona classifica, tutti nati all’inizio degli Anni Sessanta, e tutti che hanno costruito la loro carriera qui a Roma. Una generazione di sessantenni cresciuti e venuti fuori in un periodo, tra la fine degli Anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, in cui il mondo e il nostro paese hanno vissuto stagioni di radicali trasformazioni, dal crollo del muro di Berlino al torrido ribaltamento di Mani pulite. Un decennio poco e mai sistematicamente indagato dalla critica d’arte. Specialmente nella capitale, che non è certo l’epicentro del mercato ma resta un trampolino di rilevanza internazionale.
Stava finendo il vento da vacche grasse e una circolazione di denaro mai vista che si riversava anche nel settore dell’arte, si era conclusa la spinta del ‘68 e si era spenta la rabbia del ‘77, cominciavano a girare la disillusione e il disimpegno, la febbre pop del gruppetto di piazza del Popolo capitanato da Schifano si stava esaurendo, la transavanguardia stava imboccando la strada maestra dell’America, il manipolo di autori che ruotava attorno al Pastificio Cerere di San Lorenzo aveva acceso già l’attenzione ma restava un modello isolato. I galleristi di peso non avevano ancora alzato bandiera bianca e stava spuntando una nuova leva di collezionisti in cerca di novità. E poi il vantaggio che a Roma la platea degli artisti con la patente e le motivazioni da professionisti era ancora piuttosto ridotta, anche se non puntava a fare comunità.
Insomma un’atmosfera di stimoli e di relitti ingombranti che ha fatto da incubatrice con punti di partenza ideali e formali molto diversi ai quindici artisti in gestazione su cui Antonello Tolve ha concentrato le sue scelte, sapendo di lavorare all’ingrosso e di lasciarsi dietro molte firme e produzioni importanti, ma convinto che quelle pagine mai incasellate e a sufficienza studiate possano fornire boe e cannocchiali per addentrarsi nel caos della Roma creativa, confusa e probabilmente infelice, di questo presente da terzo millennio.
La mossa più abile e stimolante del curatore è quella di suggerire un filo d’Arianna che gli consente di cucire insieme questa rivisitazione di personalità e talenti molto diversi, spuntati in quella città in subbuglio di quarant’anni fa. E di pilotare i visitatori in questo labirinto di visioni personali e suggestioni ereditate più o meno consapevolmente dalla Roma che hanno abitato e in molti continuano ad abitare verso una via d’uscita comune credibile e feconda di riflessioni.
L’idea guida è che tutti in qualche modo abbiano rimodellato, anche senza accorgersene come un veleno a cui ci si è assuefatti, lo spirito e lo stordimento formale del mondo barocco in agguato in ogni angolo del centro storico. Un sapore riconoscibile – spiega nel suo saggio introduttivo – «nella dimensione fluida degli spazi, nella misura della fuga, della vertigine, della seduzione, del dinamismo o anche in una certa plasticità che privilegia la forma aperta…, il curvilineo… il policentrico e l’illusionistico… la soglia della meraviglia».
Una chiave di dichiarata teatralità che è facile riconoscere lungo il percorso in due espliciti omaggi a due grandi maestri di quella scuola di alta cucina seicentesca. Ecco la rigorosa fantasia di un capolavoro di Borromini, Sant’Ivo alla Sapienza, restituita da due gigantesche fotografie a colori di Marina Paris, che inquadrano la fuga di colonne del cortile. In più, a mitigare la freddezza dell’inquadratura, l’autrice ha aggiunto il piccolo tocco d’un ironico sberleffo: due piccole targhe col numero civico appese all’immagine a ricordare che quella Roma perduta è stata ribattezzata al presente.
Ecco, ancora più spettacolare, l’abbraccio della piazza San Pietro del Bernini ricostruito con un gigantesco modellino di carte che occupa un’intera sala da Adrian Tranquilli, consacrato re-inventore dell’effigie di Batman, il supereroe più sfaccettato e inquietante, e dell’universo in nero del fumetto. Occhio però a quella superficie di plastica colorata che ruba il posto al travertino e alle pietre: su ogni carta è impressa la faccia rotonda e ghignante di un jolly. Sì, il Joker, l’eterno maligno nemico che popola le avventure della Marvel e un intero interminabile, gettonatissimo ciclo di puntate sul grande e piccolo schermo. Il tempio della Cristianità trasformato in un diabolico scrigno. Il Paradiso che odora d’Inferno. La perfezione e l’ansia di eternità del barocco che precipita nella disillusione usa e getta del barocco postmoderno.
Anche la trascendenza, il rimando all’altrove, ingredienti chiave delle messe in scena barocche, hanno oggi altri appigli, inseguono gli universi invisibili dischiusi dalla scienza più che gli spiragli d’eternità della metafisica.
Ecco le gigantesche cosmogonie che caratterizzano, come un marchio di fabbrica, la produzione pittorica di Alberto Di Fabio e hanno sigillato la sua scalata verso il successo, dall’Attico dietro campo dei Fiori di un mitico gallerista romano, Fabio Sargentini, alla scuderia di star da mondo globale di Gagosian. Sì, in quella volta stellata e in quel titolo Pulverem reveteris che dominano la sala più grande della mostra, riverberano molti echi dei preziosi cieli di santi, angeli e nuvole di palazzo Barberini o della Chiesa del Gesù. Ma l’approccio di Di Fabio a quel panorama così carico di dettagli, un’invasione a volo radente nell’infinitamente piccolo o nell’infinitamente grande, non predica nessuna verità, ma solo l’incanto di perdersi nel relativo senza tregua dell’indagine scientifica, di un’ipotesi da sottoporre a calcolo. L’arte per questi talentuosi frequentatori del decennio di smarrimento del pensiero debole non ha fede che in se stessa.
A volte fin troppa, specie se la rotta che segue è fin troppo ancorata all’adozione della ragione come unico filo connettivo per costruire racconti, distillarla dalla balbettante forza espressiva delle cose trasformate in attrezzi di scena. Ecco così Gea Casolaro, tra le poche donne operanti nella capitale che quella sua generazione riusciva a schierare in campo, costruire il suo teatrino morale, con due oggetti che ci piazza davanti a sipario aperto: un telescopio che ricorda più il cannone di Pino Pascali che lo strumento di Galileo, e un planisfero della Terra come quelli appesi nelle aule di liceo. Dovrebbero dirci quel che l’autrice ha enunciato nel titolo: Il cielo stellato e la legge morale, una citazione di Kant che ha scelto per invitarci a riflettere sull’infinito e sulla nostra avidità rapace che lo mette a rischio. Più che giusto il messaggio. Supponente e lacunosa la regia, che sembra essersi dimenticata di far provare ai suoi personaggi, il cannocchiale e la mappa, le battute che dovrebbero pronunciare. Chissà, forse si sarebbe accorta che sarebbe almeno servito un microfono, o un riflettore acceso ad inquadrarli.
Nel costruire le loro macchine teatrali Bernini e compagni non avrebbero avuto di questi problemi. Non soffrivano di malinconia e di impotenza come questi tardi compagni romani di vocazione barocca di tre secoli dopo, precipitati in un caos di ideali in frantumi, storia buttata al macero e cancellata dalla spietata inflazione di immagini e ambizioni governata dai social.
L’artista che forse più di tutti i quattordici di questa sfilata alla Galleria nazionale, a me sembra essersi resoconto di questo gap d’epoca di rimontare, è Andrea Aquilanti. Da anni, con rigorosa coerenza, si è immerso nella crisi del tempo che vive e che stenta ad apprezzare, fermandosi sulla soglia tra il dentro e il fuori, tra il passato e il presente. Del mondo che vede impallidirglisi attorno cattura le ombre, le rifrazioni. Mescolando l’uso delle proiezioni preso in prestito dal cinema, a quello della pittura e del segno con cui prosegue a bassa voce lo sviluppo della narrazione.
Lo ha fatto anche qui, per rendere omaggio ad uno dei capolavori di questo museo che lo accoglie: un busto di Medardo Rosso, un grande scultore di spettri emanati dall”energia compressa nei corpi che Aquilani ammira e da cui prende esempio.
Ha rubato l’immagine della testa con una telecamera e l’ha proiettata al muro. Ridisegnando a carboncino i tratti e i contorni. Poi per incorniciare questa sua ibrida ma fedele resurrezione le ha piazzato davanti un volume rettangolare di plexiglass, che investito da una luce ne proietta i contorni sul muro, recintando e inquadrando con fascinose geometrie di riverberi il disegno.
Forse è l’unica via di fuga che sento di condividere in questa cupezza barocca che Antonello Tolve ha messo a nudo con la sua rivisitazione. Perché non imbocca scorciatoie, tentazione a cui spesso gli artisti di oggi si abbandonano.
E non alza bandiere di resa. Come sembra fare Paolo Canevari con quella sua sconsolata parata di quadri. Cornici vistose da salotto benestante o museo che incastonano tre pagine di storia cancellate da manate di bitume. Nient’altro che un nero sporco. A coprire completamente l’immagine che sta sotto. Due, spiegano i titoli, rimandano indietro di un paio di secoli alla Torino dei Savoia e alla Madrid dei Borboni. La prima ad uno ieri più ravvicinato e più nostro, comunque uno la pensi: una pagina dell’Unità il giorno dei funerali di Togliatti.
È vero, la Storia ci offre oggi uno spettacolo di perenne agonia. Ma, rimossa la morte, che vita e che arte dobbiamo aspettarci?
Accanto al titolo: Paolo Canevari, “Colonna barocca”, 1989