Il romanzo di Luigi Contu
Abitare i libri
Una storia personale, culturale e letteraria. La ricostruzione di un percorso. Il desiderio di tramandare gli insegnamenti. È tutte queste cose “I libri si sentono soli” del giornalista-scrittore, narrate attraverso i quindicimila volumi della biblioteca di famiglia custoditi da tre generazioni
«La tua casa, essendo il luogo in cui tu leggi, può dirci qual è il posto che i libri hanno nella tua vita, se sono una difesa che tu metti avanti per tener lontano il mondo di fuori, un sogno in cui sprofondi come in una droga, oppure se sono dei ponti che getti verso il fuori, verso il mondo che t’interessa tanto da volerne moltiplicare e dilatare le dimensioni attraverso i libri». La terza, tra le ipotesi calviniane, è quella che più si attaglia a I libri si sentono soli (La Nave di Teseo), il romanzo di Luigi Contu – razionale fantasticheria o bizzarria creativa o entrambe, sarà il lettore a valutare – nel quale la grande biblioteca di famiglia, che tre generazioni hanno custodito e arricchito, viene raccontata e ricostruita sullo sfondo di un’Italia viva e partecipe, che emerge nitida dalle pagine di quindicimila volumi stretti negli scaffali, disposti “gota contro gota”, quasi a volersi baciare teneramente.
Sono libri, questi dei Contu, fatti di carne e ossa: sentono, vivono, partecipano, avvertono la solitudine e il disincanto, l’amore e il temuto disamore. Soprattutto non sono oggetti, seppure preziosi, frequentabili con gli occhi e attraversabili con la mente curiosa, ma soggetti e campi magnetici di una storia che diviene racconto, dando vita a un altro libro – appunto il nostro – che, in qualche modo, li contiene tutti, illustrando il senso di quella sterminata raccolta, il principio e lo snodarsi della sua storia lunga, giunta “per li rami” fino all’autore. Non si tratta, dunque, di un richiamo alla labirintica e infinita Biblioteca di Babele di Borges, ma di un percorso ereditario, quindi discendente, che la ricostruzione fa risalire fino alle origini remote, attivando una dialettica uomo-libro nella quale il moto dinamico tra generazioni e culture, controculture ed epoche, depositari e fruitori dei testi, apre alle storie familiari dei Contu e alla Storia civile e politica della nazione. Sullo sfondo si dipana la visione di un’Italia che da post-risorgimentale diventa patria, per poi aprire lo sguardo, dopo le guerre e la dittatura, alla nascente libertà e all’alba della democrazia, fino a liquefarsi nelle pagine più inquiete e sospese della nostra repubblica.
Il libro rende e sostiene l’immagine di un mondo che trasforma la sua staticità in movimento, di una biblioteca che diventa lunga teoria di volti, legami, rapporti con la quotidianità, pensieri stampati che emergono dagli sguardi di famiglia e annusano gli umori collettivi, rinverdiscono tradizioni, respirano certezze che divampano nel rogo dei dubbi assorbiti dal piano inclinato di una letteratura prodiga di intelligenze e stupori, orizzonti e lame di luce. C’è un dipinto di Giacomo Balla in copertina dall’iconico titolo Gli stati d’animo dei libri: vi compaiono elementi pittorici che si ricompongono in un insieme febbrile che si sbroglia sotto il primo sguardo del lettore. Balla, esponente del futurismo, ispirato dalla cronofotografia e dalle tecniche cinematografiche, tendeva a evitare la staticità, a “fotogrammare” i quadranti delle sue gigantesche opere, snodandoli in sequenze poi montate in “insieme”, sottraendole così, anche nel caso dei libri, alla immota rigidità di uno stato fisso, fosse anche quello dello scaffale. E la rigidità era la condizione avversata anche dal giornalista Ignazio Contu, il padre dell’autore che, presagendo l’imminente fine prima di un delicato e fatale intervento chirurgico, consegna in ospedale al figlio Luigi “la mappa” della biblioteca. Gli chiede di custodire quel bene prezioso, indicandogli gli spazi abitati dai volumi (la letteratura da una parte, la storia della Sardegna altrove…) e l’armadio con le carte di suo padre Rafaele (rigorosamente una sola “f”).
Spazi in cui erano impresse le orme del nonno e del bisnonno di Luigi, Ignazio anche lui: due pionieri della cultura del tempo, capaci si svolgere, oltre le loro prestigiose attività giornalistiche, un ruolo decisivo nel collegamento culturale e nell’aggregazione dei maggiori letterati e intellettuali del tempo. Rafaele, curatore dell’opera omnia di D’Annunzio, amico ed editore di Saba, Montale, Cardarelli, Valéry, aveva tradotto con finalità coraggiosamente divulgative la Teoria della relatività di Einstein. Nel giacimento librario di famiglia c’era poi da riscoprire il suo rapporto di facili armonie con Giuseppe Ungaretti, con il quale aveva fondato e diretto la collana di letteratura “Quaderni di Novissima”, per poi editare in cinquanta copie L’inno, una poesia dell’autore de Il Porto Sepolto, che Luigi Contu ha cercato con cura tra le opere del grande poeta, ma senza esito.
Nella produzione ufficiale di Ungaretti, sono state ritrovate solo alcune strofe, confluite nella lirica L’angelo del povero, inclusa nella raccolta Il dolore (sezione “I ricordi”). Ulteriori e impegnative investigazioni nella mappa della biblioteca hanno poi portato al rinvenimento più sorprendente: l’Ulisse di Joyce. Nonno Rafaele l’aveva acquistato nel 1929 a Parigi, in un’edizione della Shakespeare and Company, la libreria e casa editrice fondata dieci anni prima dall’intellettuale americana Sylvia Beach. Il romanzo aveva sfidato gli estenuanti agguati della censura che, anche negli Usa, erano sfociati nella interruzione della sua pubblicazione a puntate sulla rivista “The Little Review”. In Italia, refrattaria alle poetiche del modernismo europeo, l’Ulisse sarebbe invece stato diffuso soltanto nel 1960. Quel libro, che è una delle espressioni più alte della contemporaneità, era venuto fuori da una cassapanca antica, nella quale si disponevano, con ordine e infinita cura domestica, i corredi delle donne di casa. Una scoperta sorprendente e decisiva per riportare alla luce un’opera che, letta a distanza di anni, cambia come la luce del giorno.
I libri non vogliono restare soli. Non basta acquistarli e leggerli, devono essere presi tra le mani, sfogliati, rimessi al loro posto, amati come persone. Temono la solitudine, aveva detto papà Ignazio qualche giorno prima di morire. E il rischio si presenta presto, quando la biblioteca, per una nuova organizzazione familiare, deve essere trasferita altrove. I libri, ammassati in tanti scatoloni, viaggiano verso una nuova meta. Ed è qui, nel progetto della risistemazione, che comincia di fatto il libro di Luigi Contu. Scoperte, esplorazioni, aggregazioni per materia consentono all’autore, con una insospettabile originalità, di riscoprire la vita della sua antica e colta famiglia, protagonista ed erede di una cultura impregnata di radici – ginepro, mirto e folate di maestrale – e di ricchi confronti con il mondo letterario. Attraverso i libri, al contempo, Luigi Contu rilegge pagine della sua vita giovanile e professionale: dall’amicizia con Maria e Marco Berlinguer – malgrado la cultura profondamente liberale del padre e la sua vicinanza ad Amintore Fanfani – alla professione svolta con rigore e attenzione, ai ricordi che lo rivelano padre amorevole e custode convinto di memorie.
I libri si sentono soli non è dunque il testo di un bibliofilo o di un bibliomane, non nasce da un generico amore per i libri né dalla condizione di chi ne è posseduto. È piuttosto il romanzo di un uomo che intende ancora abitarli, i libri di famiglia, come rifugi densi di valori umani, richiamando il lettore a una moralità universale. Forse per questa lucida intenzione di volerne tramandare gli insegnamenti, Luigi Contu affronta con naturalezza e convincente risultato il salto, sempre rischioso, dalla scrittura giornalistica a quella letteraria. Enrico Falqui era scettico sulle aspirazioni dei “giornalisti rilegati”. Perciò i meriti di Luigi Contu raddoppiano.
Nell’immagine vicino al titolo: Giacomo Balla, Gli stati d’animo dei libri