Un saggio sull'identità brasiliana
Pelè, il sacerdote
Il grande sociologo brasiliano Roberto Motta parla del campione appena scomparso. È stato un mito molto più importante della sua semplice funzione sportiva: ha unito il calcio e l'ibridazione tra bianchi e neri, una "religione" e una condizione sociologica tipiche dell'identità del nostro Paese
Le riflessioni che seguono il mio dolore non si limitano alla persona di Pelé. Penso al grande atleta nel contesto di una realtà inevitabile, che è quella del carattere multirazziale della società brasiliana. Senza dubbio Pelé rappresenta il Brasile. Era ed è ancora idolatrato dalla massa dei brasiliani. Si coprì di gloria e la sua gloria si diffuse su tutta la nazione. Egli è sentito dai brasiliani di ogni razza e colore come uno dei grandi eroi del paese, ma sempre nella consapevolezza che egli è meticcio, nero e bianco.
Che ci piaccia o no, la preminenza e l’eroismo di Pelé sollevano esplicitamente o implicitamente questioni sociologiche e antropologiche che riguardano le relazioni razziali e l’incrocio di razze in Brasile. Questi due argomenti, che con facilità vanno a confondersi, costituiscono un problema che è spesso considerato come il più importante all’interno della cosiddetta disciplina del “pensiero sociale brasiliano”. Si tratta, infatti, di un insieme di discipline, tra cui l’antropologia, la sociologia e la storia, spesso praticate dai medesimi autori. Molte opere sono state dedicate a questi soggetti e ai loro rappresentanti, “os ensaístas”, i saggisti per eccellenza, considerati gli eroi, se non a volte gli antieroi, del pensiero brasiliano.
Essenzialmente questa disciplina concerne ciò che chiamerei la “specificità brasiliana”, la qual cosa è fondamentale per lo sviluppo della coscienza e della stima che i brasiliani hanno di loro stessi. In altre parole, ci si chiede perché il Brasile non si sia sviluppato culturalmente ed economicamente secondo i criteri che hanno prevalso nel Nord Europa e, soprattutto, nel Nord America. “Perché non siamo come gli Stati Uniti?” è la domanda che, apertamente o meno, si pongono i brasiliani.
Da qui è stato fatale che si arrivassero ad affrontare le differenze tra i due paesi in materia di incroci. Perché, per parlare solo dei neri e dei bianchi, o di quelli che si chiamano così, c’è stata molta ibridazione nei due paesi. Certo, tutto fa pensare che l’incrocio tra bianchi e neri sia stato molto più intenso in Brasile che negli Stati Uniti. Sembra, tuttavia, che la maggioranza, se non la quasi totalità, della popolazione “afroamericana” del Nord America abbia anche una percentuale non trascurabile di ascendenza europea. Comunque sia, se vogliamo stabilire una differenza tra l’ibridazione in Brasile e negli Stati Uniti, questa non avrà, in sostanza, un carattere biologico o genetico, ma sociologico o antropologico.
Simone de Beauvoir attribuisce a Frantz Fanon l’affermazione che, per quanto riguarda il pregiudizio e la discriminazione, “in conclusione, hai un orrore fisiologico dei neri”. Questo orrore, che Fanon, secondo Beauvoir, attribuisce ai bianchi in generale, sembra essere vicino all’orrore di ciò che si prova davanti alla minaccia dell’inquinamento.
È l’orrore che individui o gruppi provano di fronte al pericolo suscitato da ciò che è loro vicino, persino intimo, ma allo stesso tempo diverso, lontano, essendo percepito, in modo quasi contraddittorio, come tutti uguali e tutti diversi. È come se non sapessimo dove collocare persone che sembrerebbero “inclassificabili” e che minaccerebbero la purezza dell’identità. Dovrebbero quindi essere tenuti separati? È proprio qui che sembra risiedere la fonte della segregazione e del pregiudizio. Questo orrore della differenza, questo orrore del colore scuro, non è inesistente in Brasile ma è molto meno forte che in Nord America.
Nonostante Fanon, si potrebbe sostenere che non si tratti di un orrore fisiologico ma di un orrore magico, quasi sacro. È la paura che i bianchi provano dinanzi a una perdita, a una negazione, a una distorsione quasi ontologica della loro identità. Come dire che il pregiudizio razziale sarebbe un fenomeno di carattere “mistico”. Il pregiudizio razza/colore ha indubbiamente avuto conseguenze economiche, come molti hanno sottolineato, ma non può essere ridotto a un mero epifenomeno della struttura socioeconomica.
Negli Stati Uniti i contrasti razziali e gli incroci possiedono un carattere “metaforico”. Si manifestano attraverso opposizioni binarie, o bianco o nero. Il Nero è visto lì, dal Bianco, come portatore di un’immagine distorta della sua umanità e anche il meticcio subisce tale distorsione. Anche lui è dunque colpito dal rigore del binomio “purezza e pericolo”. Questo binomio rimanda al titolo di un libro dell’antropologa inglese Mary Douglas Sebbene l’incrocio di razze o le relazioni razziali non siano l’argomento esplicito del suo libro, ciò che lei dice sull’inclassificabile in termini di religione, cibo e altro, può ben applicarsi alle relazioni razziali.
In Brasile, invece, si riconosce la prevalenza di una relazione metonimica tra “razze” o “colori”. Non troviamo più principalmente opposizioni binarie, ma piuttosto continuità, gradazioni e compenetrazioni che si susseguono da un estremo all’altro della gamma dei colori. Si tratta, secondo l’interpretazione che io sostengo, dell’incrocio metonimico che prevale in Brasile.
Ci si può chiedere per quali motivi i bianchi degli Stati Uniti avrebbero sviluppato un pregiudizio di carattere metaforico, mentre quelli del Brasile avrebbero adottato la metonimia. Si potrebbe rispondere che la storia, o le scienze storiche, comprese l’antropologia e la sociologia, si occupano di fatti contingenti, di ciò che esiste ma che non potrebbe esistere senza implicare, nell’uno e nell’altro caso, delle contraddizioni ontologiche. Non siamo quindi sulla buona strada per trovare, sull’argomento, spiegazioni more geometrico. In ogni caso ciò non fa della storia il puro dominio di un caso che non può spiegare nulla.
L’ibridazione è la grande questione della scienza sociale brasiliana. Ed è in gran parte attraverso il suo contrasto con gli incroci nordamericani che cerchiamo di comprenderla. Sarà quindi necessario cercare spiegazioni su questa contrapposizione. I tentativi, in questo senso abbondano e si mescolano. Non potremmo seguirli tutti nei limiti di questo articolo. Sono dell’idea che il pregiudizio contro l’incrocio di razze sia fondamentalmente legato a ciò che viene percepito, ovvero come il rifiuto di una differenza.
L’identità è la chiave di volta di queste considerazioni. C’è un pregiudizio di colore e/o razza dove ci sono identità contrastanti. O, per dirla in altro modo, il pregiudizio e la discriminazione razziale sono direttamente proporzionali al divario di identità che può esserci tra gruppi e persone per quanto riguarda, in particolare, il colore e la razza. Se questi due aspetti vengono sussunti in un’identità più ampia, il pregiudizio e la discriminazione si indeboliranno inversamente alla forza di questa identità più ampia, che chiamerei sovra-identità.
L’uso di questo termine nel campo delle relazioni razziali è, a quanto pare, nuovo. Non lo ricordo da altri autori. Ma il concetto rappresentato da questa parola è già antico. Era certamente presente in quello che verrà definito il “paradigma di Franz Boas (1858-1942) e di Gilberto Freyre (1900-1987)”. Boss scrive: “Lo specialista delle relazioni razziali deve rispondere alla domanda riguardante lo sviluppo di una chiara e distinta coscienza della specificità razziale nelle società in cui si trovano diversi tipi razziali. Non si può rispondere categoricamente alla domanda ma la situazione interrazziale del Brasile e l’indifferenza (disprezzo) nei confronti della razza nei rapporti tra musulmani e infedeli mostrano che la coscienza razziale può svolgere un ruolo insignificante in queste società.” Ciò che fa Freyre è adattare o applicare al Brasile le tesi di Boas sulle super-identità che deriverebbero dall’appartenenza alla comunità religiosa e alla famiglia patriarcale e poligama, che questa sia o meno approvata senza restrizioni dalla religione ufficiale. Freyre dovette modificare alcuni aspetti della teoria boasiana per adattarla al Brasile colonizzato dai portoghesi. Tra l’altro, ha dovuto sostituire l’Islam (che Boas vedeva con evidente simpatia nell’area dei rapporti razziali) con il cattolicesimo, poiché i portoghesi erano fermamente cattolici. Freyre, tuttavia, credeva di scoprire nel cattolicesimo portoghese trasportato in Brasile, delle attenuazioni alla sua ortodossia, con ciò rilevando di una profonda fraternizzazione di valori e sentimenti tra le due pratiche religiose. La religione era il punto d’incontro tra le due civiltà, quella del padrone e quella del nero; mai una barriera dura e invalicabile.
E qui torniamo esplicitamente a Pelé. Il calcio, in Brasile, crea comunione; l’inquietudine, il sentimento, l’emozione, la passione di una comunità che a suo modo è l’equivalente, nonché il sostituto secolarizzato, della religione tradizionale. Pelé ha dunque interpretato il ruolo di sacerdote di questa nuova religione, di una sovra-identità che saldava, almeno per il tempo del rito sportivo, il ricordo dell’emozione, o l’attesa dell’emozione, da parte dei brasiliani di ogni razza e colore. Il grande campione diventò il sacramento dell’unione comunitaria.
Infine mi sono reso conto, senza aspettarmelo, che a stimolarmi non erano tanto le riflessioni che andavo elaborando su Pelé e sugli incroci. Esse erano valide ma allo stesso tempo avevano mascherato i miei sentimenti più profondi. Il mio argomentare, ho compreso in seguito, stava in ciò che oserei chiamare proustiano, ossia un tentativo di recuperare il passato.
Ma il tempo passa davvero?
A differenza dei filosofi eleatici, io penso che nulla passi ma che tutto rimanga o tutto ritorni, per evocazione, per memoria volontaria o involontaria. Così ho rivisto i miei compagni dei Mondiali del 1958, 1962 e 1970, le coppe di cui Pelé era stato il grande eroe: Gláucio, Gilson, Antônio, Saulo, Monteirinho, Luís (con la sua bella faccia italiana), Carlinhos. “Ma dov’è il valoroso Carlo Magno?” C’era mia sorella che cantava “Didi, Pelé, Vavá: hanno brillato in Europa e la coppa è arrivata a noi!” E abbiamo cambiato quartiere, ci siamo dispersi, non ci siamo più, non c’è più Pelè, non ci sarà più nessuno. E ho anche capito più di recente che per noi settantenni, per noi ottantenni (tra cui due single), quando ci riuniamo durante i mondiali, quello è lo spazio di una serata per ridare forza, ancora una volta, a una comunità e ai suoi antichi riti.
Ah, che gioia per me aver vissuto fino al termine della nostra festa!
Figlio di Mauro Mota, scrittore rinomato nonché Immortale della Academia Brasileira de Letras, Roberto Motta ottiene nel 1970 una borsa di studio dalla commissione Fulbright per svolgere gli studi di dottorato negli Stati Uniti, grazie alla segnalazione del celeberrimo antropologo brasiliano Gilberto Freyre. Terminati gli studicon un saggio su Food for Thought: The Xangô Religion of Recife, in cui aveva indagato sulla dimensione sacrificale dello Xangô recifense, Roberto Motta si misura nel campo delle scienze sociali della religione. I suoi contributi abbracciano anche l’area del pensiero sociale, con particolare attenzione alle teorie di Max Weber e di Gilberto Freyre. Entrambe le sue interpretazioni del pensiero di Weber e di Freyre non risultano ortodosse per la tradizione accademica, sviluppando nuove chiavi di comprensione dei due autori, chiaramente difformi dal pensiero egemonico nelle scienze sociali brasiliane. Esemplare il suo scritto Reação a Max Weber no Pensamento Brasileiro: O Caso de Gilberto Freyre. Professore di Scienze Sociali all’Università di Pernambuco, Motta è stato Visiting Professor presso le università di Paris V, Lyon, Nice, Roma II, Caen, California – Los Angeles, del “Center for the Study of World Religions” di Harvard, della “Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales” di Paris. Roberto Motta ha guidato un’intera generazione di sociologi e antropologi della religione, soprattutto del Nord e del Nordest brasiliani, molti dei quali sono diventati docenti nei dipartimenti di Scienze Sociali di altre università. In oltre 50 anni di insegnamento e di ricerca, egli ha lasciato il segno nel campo delle scienze sociali, oltre che per la sua vasta produzione intellettuale, anche per la gentilezza d’animo, l’umorismo sui generis e la sua personalità carismatica.