Michela Di Renzo
Una storia senese

Paolo e il Palio

«Paolo si concentrò sui movimenti dei due sbandieratori: i ragazzi erano bravi, soprattutto quello con il pizzetto; quando arrivò il momento del salto del fiocco, una delle figure più difficili, in cui l’alfiere passa sopra la bandiera del compagno inginocchiato, il ragazzo lo fece in maniera perfetta»

Il bambino si avvicinò lentamente al televisore, succhiandosi il pollice della mano destra: i suoi occhi allungati e scuri come il carbone fissavano lo schermo, dove degli uomini con indosso dei vestiti sgargianti sfilavano a passo lento, alcuni di loro suonando il tamburo, altri facendo roteare le bandiere colorate sullo sfondo ocra della Piazza, disegnando in aria delle grandi farfalle.

“Matteo, non starci così vicino”.

Paolo si alzò dal divano e allontanò bruscamente dal televisore il bambino che lo guardò con fare interrogativo.

“Ti fa male starci appiccicato” si giustificò tornando a sedere. Poi sospirò, sforzandosi di nascondere la rabbia che provava in quel momento. Rabbia verso se stesso.

“Ci vuole tempo” gli aveva spiegato la psicologa dell’Associazione mentre Marta, sua moglie, gli stringeva dolcemente la mano “un figlio cambia le dinamiche all’interno della coppia”. Intanto però era già passato un mese da quando Matteo era arrivato in Italia e lui, per quanto si sforzasse, non riusciva a essere affettuoso con il bambino. “Non ti angosciare, imparerai, a me è venuto spontaneo perché per una donna è più… naturale, anche quando non è il tuo figlio biologico” aveva detto sua moglie. “A volte dipende anche dal rapporto che abbiamo avuto da piccoli con i nostri genitori” aveva suggerito la psicologa. “Può darsi” aveva risposto Paolo, arrossendo e cambiando subito argomento: di sicuro lui non ricordava di essere mai stato abbracciato da suo padre, l’avvocato Sprugnoli, né da bambino né tantomeno da grande.

Matteo si appoggiò al tavolino del soggiorno, girando la testa, ora verso lo schermo dove le bandiere continuavano a sventolare, ora verso il divano: si vedeva lontano un miglio che non sapeva bene cosa fare, dalla paura di sbagliare qualcosa.

Appena cercò di mettersi seduto sul piano di cristallo, Paolo intervenne. “Quello si rompe se ti ci metti sopra, vieni seduto qui, accanto a me” disse indicando il cuscino alla sua destra ma appena Matteo lo fece, lui istintivamente si allontanò verso il bracciolo. “E se a me non venisse mai naturale essere affettuoso con lui?”

Si appoggiò allo schienale e scacciò l’ipotesi che lo impensieriva parecchio prendendo in mano il telecomando: mancava ancora un’ora alla corsa, troppo per continuare a sorbirsi la Passeggiata Storica, ma appena Matteo se ne accorse scattò in piedi e si mise tra lui e lo schermo, come faceva quando qualcuno cambiava canale mentre davano i cartoni animati.

“Va bene, si continua a guardare questo. Ma quando torna la mamma?”. Paolo guardò l’orologio: erano le sette passate e Marta non si era ancora fatta viva. “Ci mancava solo che mia suocera cascasse per le scale proprio il giorno del Palio. Prima non vuole restare in Calabria, poi viene a trovarci proprio in questa settimana, Anziché dormire qui va all’albergo per non disturbare, e alla fine ha dato noia lo stesso”. Non bastava Matteo a monopolizzare l’attenzione di sua moglie. Ora ci si era messa anche la suocera.

“Vado a vedere come sta” aveva detto Marta appena saputa la notizia di sua madre. “Voi due intanto fate qualcosa, che ne so, riguardate insieme il Re Leone. Torno appena possibile”. Ma quando Paolo aveva acceso la televisione, sulla rete principale davano il Palio e Matteo era rimasto colpito da quello che vedeva sullo schermo. Forse perché la sera prima la mamma lo aveva portato in centro e aveva visto sfilare le contrade dietro ai rispettivi cavalli.

Il bambino tornò seduto dov’era prima, gli occhi a mandorla fissi sulle figure colorate che riempivano la Piazza.

“Ecco la Lupa” fece Paolo. Dal Casato era entrata la comparsa bianca, nera e arancione e lui aveva sentito, suo malgrado, una stretta alla bocca dello stomaco.

“Le altre passioni svaniscono, ma quella per la contrada resta sempre nel cuore”. Era una delle frasi che diceva spesso lo Sprugnoli, quando era in buona, con la voce roca per le troppe sigarette: Paolo se lo rivide per un secondo davanti, mentre si accarezzava il mento sporgente che ne accentuava il profilo da satiro, e quello sguardo vivace negli occhi verdi, incastonati sotto le sopracciglia spesse che si univano alla radice del naso, le stesse che aveva ereditato Pietro, il figlio più grande. Di passioni pronte a svanire l’avvocato ne aveva avute parecchie, dal tango alle automobili, fino alla moglie, che dopo aver corteggiato sin da quando era sui banchi del liceo, ora trattava con palese indifferenza; l’amore per la contrada invece aveva resistito, con i suoi alti e i suoi bassi, perché quando c’era il cavallo buono e non si vinceva alle assemblee volavano le sedie, oltre agli insulti contro il Capitano; lui però se li lasciava scivolare sulle spalle, e si consolava con una partita a poker o una puntata in sala corse, perché il gioco era l’altro grande amore che aveva resistito al passare del tempo.

Paolo si concentrò sui movimenti dei due sbandieratori: i ragazzi erano bravi, soprattutto quello con il pizzetto; quando arrivò il momento del salto del fiocco, una delle figure più difficili, in cui l’alfiere passa sopra la bandiera del compagno inginocchiato, il ragazzo lo fece in maniera perfetta, perché aveva le gambe lunghe come un airone; lui invece, ai suoi tempi, non era mai riuscito a impararla bene quella figura, nonostante le ore passate ad allenarsi accanto alla Fonte, perché aveva il fisico tarchiato, con le gambe corte. Eppure sul muretto lì accanto c’era sempre qualche ragazzina ad ammirarlo, perché dalla mamma, oltre alla statura modesta, aveva ereditato anche il viso dai lineamenti minuti, il nasino diritto, la bocca a cuore, nonché una gran massa di capelli lisci: e poi era il figlio del Capitano Sprugnoli, quello che dopo dieci anni di digiuno, aveva riportato il Palio nella Lupa.

Era per questo che Paolo in contrada veniva accolto a braccia aperte, soprattutto dai più vecchi, mentre qualcuno della sua età, invidioso, aveva da ridire. E lui aveva finito per andarci tutti i pomeriggi, scappando da casa dove, tra l’Avvocato allo studio, suo fratello di dieci anni più grande che faceva la sua vita e sua madre che appena uscita dall’ufficio si fermava in qualche negozio a chiacchierare, lui era sempre solo.

Ogni tanto, mentre Paolo si allenava a sbandierare, passava da Pian d’Ovile suo padre, che andava a qualche riunione in contrada. “Avvocato, ha visto il su’ figliolo quanto è migliorato?” faceva tutte le volte Carlino, storico alfiere di Piazza. “Davvero”, borbottava lo Sprugnoli gettando un rapido sguardo, giusto di cortesia. Nonostante ciò, Paolo stringeva più forte l’asta della bandiera e si concentrava sui movimenti del braccio. “Lo so bene di non essere un simpaticone come lui, -perché suo padre era affabile con tutti- però col tempo potrei cambiare. Non lo dice sempre anche lui che la contrada ti forgia il carattere?”

Quando lo fecero entrare in piazza per la Passeggiata Storica, però, Paolo sbagliò anche le figure che aveva imparato meglio. Dopo la corsa, mentre sgattaiolava verso casa a capo basso, si sentì tirare per una spalla. “Ma che ti è successo stasera?”. Era Carlino, con la sua faccia da pinocchio invecchiato, ancora più appuntita del solito.

“Non lo so nemmeno io” aveva borbottato tirando a dritto.

Da allora in contrada non ci aveva più messo piede. Nonostante Carlino, che si era affezionato a quel ragazzo di poche parole, gli avesse telefonato diverse volte per convincerlo a tornare; una sera era persino andato a trovarlo a casa. “La prima volta può capitare, con tutta quella gente sui palchi che ti guarda, la giuria con gli occhi puntati su di te, uno si emoziona, ma poi ti ci abitui.” Paolo aveva sollevato la testa dal codice di Diritto Privato che faceva finta di studiare, con la testa rivolta altrove. “Io con la Lupa ho chiuso” aveva detto ritornando a guardare il libro.

In quel momento era rientrata in casa sua madre, elegante come al solito, con un cappotto arancione di casentino e il collo di visone; persino Carlino l’aveva guardata con ammirazione. Ma si sapeva che la signora Sprugnoli ci teneva parecchio al vestire. Nonostante detestasse il Palio perché tra lo studio da mandare avanti, la contrada e le serate passate a giocate a Poker l’avvocato in casa non c’era mai, alla cena della vittoria si era presentata con un abito bellissimo, con i colori della Lupa; “è antipatica come il puzzo dei piedi, ma quanto a classe non la batte nessuno” avevano commentato le donne di contrada, perché la moglie dell’Avvocato non dava confidenza a nessuno e passava da boriosa, mentre in realtà era una donna timida e riservata.

“Signora glielo dica anche lei a suo figlio di non fare una tragedia per via della Passeggiata Storica, è andata come è andata”, aveva detto Carlino.

“Magari col tempo cambia idea” aveva minimizzato sua madre, accompagnandolo alla porta.

Dopo che Carlino era uscito di casa con la coda tra le gambe, era tornata da Paolo ma aveva trovato la porta della camera chiusa a chiave. “Va tutto bene?” aveva chiesto bussando alla porta. “Mi sto cambiando, vado a fare due passi” era stata la risposta da dentro. Anche quella sera, come tante altre, Paolo sarebbe tornato tardi per cena, con gli occhi arrossati dal fumo e quell’odore acre addosso che finora in famiglia nessuno aveva notato. O forse avevano semplicemente fatto finta di niente.

Il bambino si alzò all’improvviso dalla sedia e uscì dal soggiorno. Quando tornò aveva in mano il fazzoletto della Lupa, quello che era stato di Paolo e che Marta aveva ritrovato nell’ultimo cassetto dell’armadio: il quadrato di seta dimostrava tutti i suoi anni, smangiucchiato com’era lungo i bordi e con uno strappo là dove si annodava intorno al collo; il bianco e nero però erano rimasti brillanti, come la striscia arancione che correva intorno allo stemma centrale, quello con la lupa e i due gemelli.

“Ringraziate me se non vi chiamate Romolo e Remo: quando eravamo fidanzati il vostro babbo mi aveva fatto giurare che se avessimo avuto due maschi li avremmo chiamati così” diceva ogni tanto la signora Sprugnoli. “Era difficile farci passare per gemelli con dieci anni di differenza” rispondeva uno dei figli, “Pietro e Paolo tornano meglio dal punto di vista temporale”.

Paolo fissò il fazzoletto e avvertì di nuovo la stretta alla bocca dello stomaco. “Questo era mio quando avevo la tua età. Lo sai?”. Matteo annuì. In quel momento suonò il cellulare.

“La mamma ha preso solo una storta alla caviglia, non vuole nemmeno andare all’ospedale” Era Marta.

“Se non è niente di grave evitiamo. Oggi soprattutto”. Gli mancava solo di restare tutta la sera solo con suo figlio, mentre Marta stava dietro a sua madre.

“Voi due che state facendo?”

“Stiamo guardando la Passeggiata Storica. Sembra che gli piaccia”

“Allora se stasera la Lupa vince il Palio lo portiamo in contrada”

“Il problema non si pone: il cavallo è una brenna e il fantino è la prima volta che corre. Comunque…vediamo, io non ci vado da una vita, lo sai”

“Io penso che Matteo ci si divertirebbe. E poi chissà come sarebbe stato contento tuo padre con l’unico nipote maschio nella Lupa. Passamelo un attimo”

Mentre mamma e figlio parlavano al telefono, o meglio Marta faceva delle domande e il bambino diceva sì e no, Paolo sospirò: l’anno prima l’avvocato Sprugnoli era andato come al solito allo studio alle otto del mattino. La segretaria che arrivava alle nove l’aveva trovato con la testa calva riversa sulla scrivania e le mani aggrappate al tavolo, morto da almeno mezz’ora. “C’era da aspettarselo” aveva commentato la signora Sprugnoli, “si è trascurato per tutta la vita”.

Il giorno del Funerale, nella chiesa della Lupa, c’era il pienone, incluso Carlino, rinsecchito dal passare degli anni ma ancora dritto come un fuso. “Quanta gente” aveva commentato Marta tenendo per mano Paolo, visibilmente a disagio. “La contrada funziona così” aveva borbottato lui che non vedeva l’ora che fosse tutto finito. Per non parlare di quando la bara era stata sollevata dalla Costarella perché l’Avvocato vedesse per l’ultima volta la Piazza, un rito riservato ai veri contradaioli. “Che usanza bellissima” aveva commentato sua moglie con gli occhi umidi. Doveva essere stato allora che le era venuta l’idea di portare suo figlio, che a quei tempi era solo uno dei tanti bambini abbandonati in Cambogia, in contrada.

“Comunque se ci tieni andiamo nella Lupa” disse Paolo quando il bambino gli passò di nuovo il telefono. Voleva così bene a sua moglie da assecondarla in tutto. Era stata quella ragazza alta quanto un soldo di cacio e con la faccia allungata come le Madonne del Trecento, a cambiare certe sue abitudini, con un attaccamento profondo verso di lui. La seconda volta che avevano fatto l’amore, Marta gli aveva sfilato di mano con dolcezza la canna che si stava rollando. “Perché non proviamo a farlo senza?”. Da allora lui il fumo non lo aveva più toccato.

E le doveva anche la laurea in Giurisprudenza, anche se poi dello studio di suo padre non ne aveva voluto sapere, ma era entrato in banca, come il fratello più grande. Persino sua madre, sempre parca di parole, il giorno della discussione della tesi, aveva commentato: “Prima di conoscerti Paolo frequentava delle pessime compagnie. Per fortuna sei arrivata te dalla Calabria”.

Certo quando c’era stato da adottare il bambino, Paolo aveva tentennato parecchio. Stavano così bene loro due insieme, da soli. Ma quando aveva visto sua moglie parecchio depressa dopo la diagnosi dei medici che escludevano ogni possibilità di gravidanza, aveva ceduto. Ed era arrivato Matteo, quel musetto scuro, con gli zigomi larghi e il naso schiacciato.

Quando il drappellone entrò dal Casato, la piazza si riempì di mille colori: i contradaioli iniziarono a sventolare i fazzoletti in direzione del Palio. Il bambino, imitandoli, si mise ad agitare anche lui il suo, in direzione dello schermo. “Fanno così nella speranza di portare il Palio in contrada”, spiegò Paolo. “E dicono Daccelo, daccelo”. Matteo guardò attentamente le labbra del padre e poi cercò di articolare la parola. “Dalo, dalo” fece.  

“Daccelo” lo corresse suo padre ribadendo le sillabe.

“Dacelo” tentò Matteo. Non era perfetto ma era abbastanza, considerato che fino ad allora aveva imparato si e no una decina di parole.

“Bravo”.

Quando uscirono i cavalli dall’entrone Paolo si ritrovò a condividere le dinamiche della corsa con suo figlio. “La Lupa è troppo alta alla mossa e parte svantaggiata; ora hanno buttato giù il canape perché l’ordine non era valido”. Matteo teneva gli occhi fissi ora sullo schermo ora sul padre che guardava come se fosse un oracolo. Quando dopo un minuto di cadute a San Martino, nerbate tra fantini e cavalli scossi attraverso alla pista, la Lupa tagliò per prima il bandierino, Paolo si ritrovò a esultare come quando era ragazzo. Nell’impeto buttò le braccia al collo al bambino che ricambiò l’abbraccio.

Marta, che stava entrando in casa, li trovò così, Matteo con il fazzoletto della Lupa in mano avvinghiato a suo padre in ginocchio davanti al televisore.

“È Lupa” fece Paolo staccandosi dal bambino e buttando le braccia al collo della moglie.

Marta si avvicinò subito al bambino e lo baciò sulla guancia. “Matteo, hai visto? La tua contrada ha vinto il Palio. Sei contento?”. Il bambino sorrise e riprese a sventolare il fazzoletto.

In quel momento suonò il telefono di Paolo. “Che vorrà ora Pietro?”. Tra fratelli i rapporti non erano particolarmente cordiali, anche se Marta faceva di tutto per ricucirli. Soprattutto dopo che il cognato le aveva segnalato per primo l’associazione di Milano che si occupava di adottare i bambini in Cambogia.

“Vorrà parlare del Palio. Rispondi”.

“Uffa”.

“Rispondi”.

“Che corsa accidenti. E chi lo avrebbe detto? Con quel cavallo che non andava nemmeno a pintarlo e il fantino esordiente” disse Pietro entusiasta. “Il Palio è imprevedibile” proseguì. A differenza di Paolo che parlava con la voce nasale di un ragazzino delle medie, Pietro aveva la stessa voce roca e maschia del padre, tanto che quando stavano in casa insieme e rispondeva al telefono spesso li scambiavano. A Paolo quella frase, che diceva spesso lo Sprugnoli, fece uno strano effetto: per un attimo ebbe l’impressione che ci fosse suo padre all’altro capo del telefono, e non suo fratello.

“Comunque è Matteo che ha portato fortuna alla Lupa” proseguì Pietro.

“Lo stavo per dire io” intervenne Marta a sostegno del cognato mentre suo marito restava ancora zitto.

“Ora che fate? Andate in contrada?” Pietro aveva abbassato il tono della voce e aveva parlato più lentamente, come se stesse camminando sulle uova. In tanti anni non aveva mai chiesto a Paolo come mai avesse smesso all’improvviso di andare nella Lupa. E nemmeno lui aveva mai indagato sul perché Pietro l’avesse frequentata così poco.

“Non lo so, Marta vorrebbe andare” fece Paolo titubante.

“E anche Matteo vuole andare”. Il bambino era tornato davanti allo schermo dove trasmettevano la replica della corsa, con lo sguardo incantato.

 “Mi pare una buona idea” disse Pietro.

“Senti chi parla, quello che vive da anni al Nord”. Il figlio primogenito dello Sprugnoli era stato trasferito a Milano subito dopo essere entrato in banca, si era sposato lì e non era più tornato a Siena.

“Lo sai che mia moglie e mia figlia non ci vengono volentieri in codesta città di provincia.” Non ci veniva tanto volentieri nemmeno lui ma non aveva il coraggio di dirlo.

“Comunque noi stasera andiamo in contrada con Matteo. Potresti venire per la cena della vittoria, no?” La voce di Marta era accattivante.

Paolo avvertì una fitta al cuore: le malelingue di una certa età avrebbero avuto di che sparlare vedendo i figli dell’avvocato Sprugnoli uno accanto all’altro.

Il suono della campanina che festeggiava la vittoria del Palio si sentiva da cima a Vallerozzi, quella discesa stretta e ripida di case popolari medioevali addossate le une alle altre, che ora era piena di gente e di colori, tra le bandiere alle finestre e i fazzoletti al collo. Poche centinaia di metri più là, in una strada più larga ma anonima, abitava la vedova Sprugnoli, nell’appartamento dove aveva vissuto con i figli e il marito, quello che per fortuna le aveva comprato il padre quando si era sposata, altrimenti ora sarebbe stata in mezzo a una strada: lo Sprugnoli aveva lasciato tanti di quei debiti al momento della morte che i figli avevano dovuto rinunciare all’eredità.

Paolo percorse la discesa lentamente, accanto a Marta che teneva per mano il bambino. Matteo portava al collo il fazzoletto di suo padre, troppo grande per le sue spalle ossute: il bianco della seta metteva in risalto la sua pelle olivastra e i capelli neri come la pece. Suo padre notò che lo guardavano in tanti, sia quelli che salutavano Paolo, sia quelli che non lo conoscevano.

“Stanotte la tua mamma non dormirà” fece Marta indicando la casa dove viveva la suocera.

“Non solo stanotte, sarà così per tutta l’estate. Magari arriviamo un secondo da lei, può darsi che voglia mettere la bandiera alla finestra.”

La signora Sprugnoli stava leggendo un libro nel soggiorno quando suo figlio suonò il campanello, ma era curata come se fosse dovuta andare ad un ricevimento, con i capelli bianchi tagliati a caschetto, ben aggiustati, un trucco leggero ma sapiente sul volto ancora grazioso, nonostante l’età, e un vestito a fiori.

“Avete portato Matteo nella Lupa. E ti hanno messo anche il fazzoletto!” disse vedendo il nipotino. “Vieni con me che ti faccio vedere la contrada tutta illuminata”. L’appartamento dell’avvocato Sprugnoli aveva un terrazzo da dove si vedeva tutta Pian d’Ovile dall’alto. Il bambino andò dietro alla nonna ma si girò un paio di volte a guardare se i genitori lo seguivano.

“Tua madre sta proprio bene, sembra una ragazzina. Se anche te invecchi come lei…” fece Marta accarezzando il marito su una guancia. Paolo sospirò.

“Mamma che vuoi fare? Vuoi mettere anche te la bandiera alla finestra?”

“Forse è il caso di farlo. Il portabandiere c’è sempre come vedi”

“Allora vado in società a farmene dare una”

“E io porto Matteo a vedere il cavallo” disse subito Marta che non provava simpatia per quella suocera di poche parole, che, quando lei e Paolo era andati ad annunciarle che volevano adottare un bambino dall’altra parte del mondo, si era permessa di sentenziare: “Pensateci bene, perché potreste pentirvene”: Marta l’aveva odiata dal profondo del cuore, mentre aveva apprezzato il suocero che era rimasto in silenzio. “Secondo me non ti ha nemmeno ascoltata, a differenza della mia mamma” aveva commentato Paolo.

“Torniamo tra poco allora” disse Paolo dirigendosi verso la porta.

Marta e Matteo scesero rapidamente le scale, mentre lui rimase indietro.

“Hai fatto pace con la contrada” disse la signora Sprugnoli sul pianerottolo.

“Mah”.

“Sarebbe l’ora”

“Ma se l’hai sempre detestata”

“Vieni un attimo dentro”

“Marta, avviatevi, vi raggiungo tra un attimo” urlò Paolo nella tromba delle scale.

Sua madre rientrò in casa e chiuse la porta.

“Credi che non sappia perché hai smesso di andarci?”

Paolo restò zitto sentendo una fitta al cuore.

“Carlino mi raccontò che il giorno della Passeggiata Storica, quella in cui facesti una pessima figura, aveva visto un ragazzo della Lupa borbottarti qualcosa prima che tu entrassi in Piazza”

Era un Alfiere, un suo coetaneo, che sperava di sbandierare nella Passeggiata Storica e che invece era stato scartato. 

“Lo conosco l’ambiente terra terra della contrada. Immagino quello che ti ha detto”.

Prima che la comparsa varcasse l’ingresso del Casato, il ragazzo si era avvicinato a Paolo e gli aveva mormorato: “Ti fanno sbandierare solo perché sei il figlio del Capitano. Che poi lo sa tutta Siena che non sei manco figlio suo, ma di quel tarpone del Bormida”.

Il Bormida era il Direttore dell’ufficio dove lavorava sua madre, un uomo di una certa età che aveva la moglie tanto malata. Ogni tanto Paolo aveva visto per strada quell’uomo tracagnotto e panciuto, soprattutto quando tornava dalla scuola elementare per mano a sua madre, che lo salutava sempre sorridendo.

“Nella Lupa lo sapevano tutti tranne il sottoscritto”. Le parole gli uscirono di bocca taglienti come la lama di un bisturi.

Sua madre abbassò gli occhi e arrossì. “Non giudicarmi, ora che anche te hai un figlio” disse. “Sapessi quello che ho passato accanto a tuo padre, lui e il suo maledetto vizio del gioco. Ma non te lo ricordi quando spariva all’improvviso per un paio di giorni per andare al casinò a Venezia? O a Sanremo? Per fortuna ho avuto accanto il Bormida, sennò penso che in certi momenti mi sarei ammazzata”.

Paolo allungò una mano verso sua madre e le sfiorò il polso. Poi la retrasse.

“Sola come un cane e tuo fratello, Pietro, che era solo un bambino”

“Lo vedi ancora?”

“Chi? Il Bormida? Ma che ti viene in mente? Quando lui è andato in pensione è tornato a Bergamo, da dove veniva. Non so nemmeno se è morto. Se è sempre vivo avrà novant’anni”. Lo sguardo di sua madre divenne sognante, immaginandosi come poteva essere da vecchio quello che non era stato solo il suo Direttore.

Paolo sentì una stretta al cuore al pensiero che sua madre ne era stata davvero innamorata e fece per aprire la porta. Tanto sarebbe tornato con la bandiera e avrebbero potuto affrontato di nuovo l’argomento.

“E non ne voglio più parlare” fece la signora Sprugnoli leggendogli nel pensiero. “Però prima che tu esca voglio dirti un’altra cosa. Tuo padre era quello che era, e sapeva quello che c’era tra me e il Bormida. Ma quando gli dissi che ero incinta non ebbe dubbi su cosa fare. Per me sarà figlio come l’altro, disse. E così è stato”.

“Ma se ha sempre avuto una predilezione per Pietro”

“Ma che dici? Lui ha sempre pensato solo al gioco. E alla Lupa, come se non bastasse quello che spendeva altrove. Sei te che hai sempre visto differenze che non c’erano. E anche quello, sapessi quanto mi ha fatto soffrire”

Paolo guardò meglio il viso di sua madre: nella penombra del soggiorno Marta non l’aveva giudicata bene dicendo che era ancora una ragazzina, perché non aveva notato le guance cascanti come quelle di un bulldog e la bocca grinzosa che aveva perso la sua forma aggraziata. Anche i capelli erano gonfi di parrucchiere, ma tra una ciocca e l’altra si vedeva il grigio del cuoio capelluto. Paolo sentì l’impulso di abbracciarla. “Non deve essere stato facile nemmeno per te” fece. “A dopo”. E uscì di casa.

“Ce ne hai messo di tempo” commentò Marta appena scese per strada. Poi notando che suo marito aveva la faccia stravolta e lo sguardo assente, gli chiese: “Ma che è successo? Hai discusso con tua madre?”

“Tutto a posto”

 Sua moglie continuava a guardarlo con insistenza e Paolo fu costretto a mentire: “Non era tanto convinta di esporre la bandiera.” Forse ne avrebbero parlato più tardi, o forse no. Marta lasciò cadere l’argomento, tanto più che Matteo stava allungando le mani per essere preso in collo. “Non ce la faccio, sono stanca” disse rivolta al bambino e prendendolo per mano si avviò verso Vallerozzi, dove in quel momento stava passando il Palio: i contradaioli lo stavano portando a giro per le strade della città, con un corteo che seguiva un ordine ben preciso, prima gli uomini, poi le donne, infine le famiglie con i bambini.

“Che giornata che è stata” pensò Paolo “La Lupa che ha vinto il Palio, il colloquio con la mamma, Marta che invita Pietro a Siena per la cena della vittoria…”.

Fu allora che vide Carlino, che risaliva la strada con una bandiera in mano. Sul volto del contradaiolo ci fu un attimo di incertezza prima di fermarsi a salutarlo.

“Paolo, che bello rivederti da queste parti”. Si sentiva che era sincero.

“Mi ha convinto mia moglie”

“E ha fatto bene. E questo chi è?”.

“Questo è mio figlio” disse Paolo indicando Matteo che gli stava aggrappato alla tasca dei pantaloni. Carlino fissò il bambino dalla pelle scura e i lineamenti orientali, con quel fazzoletto della Lupa troppo grande per lui. Poi il suo volto appuntito si distese in un sorriso. “Perché non ti fai portare dai tuoi genitori dietro al corteo? A proposito come ti chiami?”.

“Matteo”.

Carlino si rimise dritto. “Paolo, mi ha fatto piacere rivederti.” Poi proseguì fissandolo dritto negli occhi: “La contrada è come una famiglia, lo sai, nel bene e nel male. Vieni a festeggiare con noi nei prossimi giorni”.

Paolo annuì mentre il suo vecchio maestro di bandiera proseguiva per la sua strada.

Poi guardò suo figlio che ancora attaccato alla tasca dei suoi pantaloni, con la sua manina olivastra, gli occhi scuri a guardare il padre. “Non sarà facile nemmeno per lui” si disse.

“Vieni qua” gli disse prendendolo in collo. Il bambino era leggero da portare, magro a quel modo, e il suo braccio destro aggrappato alle spalle trasmetteva una piacevole sensazione di calore.  Si girò verso Marta: “Che si fa?”. “Andiamo” rispose lei entusiasta. Matteo borbottò: “Dalo”. Allungarono il passo per raggiungere la coda del corteo e vi entrarono.

Dopo poco, una contradaiola si avvicinò a quella famiglia che non aveva mai visto prima, con la scusa di aggiustare il fazzoletto intorno alle spalle del bambino.

“E questo chi è?” chiese curiosa.

Paolo ci pensò un secondo prima di rispondere: “E’ uno Sprugnolino”.  


Le fotografie sono di Roberto Cavallini

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