Un saggio tra pensiero e arte
Filosofia dei Tarocchi
Marina Bornoroni dedica un denso e prezioso saggio ai "Tarocchi di Mantegna", un ciclo di opere sospese tra mistero e filosofia che inducono più alla riflessione su di sé che alla speculazione trascendente
Anzitutto una considerazione preliminare, che sono tenuto a fare. I Tarocchi del Mantegna di Marina Bornoroni (Aseq Edizioni, 201 pagine, 22 Euro) riassumono – nelle pagine iniziali – una intera tradizione mistico-teologico-filosofico-esoterica (a partire da Pitagora fino all’affermarsi del neoplatonismo alla fine del ‘300, e poi attraverso umanesimo e Rinascimento), della quale personalmente confesso di sapere pochissimo (se non alcune ricadute su Dante). Mi limito a indicare almeno due nomi decisivi: Proclo e Cusano. Però ho una assoluta certezza: questo libro di Marina Bornoroni, che riproduce i 50 tarocchi impropriamente attribuiti a Mantegna descrivendoli e commentandoli, appartiene alla letteratura.
Dovete pensare che la letteratura non è solo “raccontare storie”. Nella sua Crestomazia della prosa (1827), una antologia della letteratura italiana da Petrarca fino all’’800, Leopardi infatti include sì “Narrazioni”, ma poi “Descrizioni e immagini”, “Apologhi”, “Allegorie”, “Definizioni e distinzioni”, “Lettere”, “Discorsi dimostrativi”, etc. Leopardi scrivendo all’editore precisa che condizione essenziale della sua scelta antologica sarebbe “che questi pezzi fossero tutti in lingua purissima”: Ecco, il libro di Marina Bornoroni è scritto in una lingua purissima, elegante e sobria, precisa ed evocativa. Ogni capitolo è una accurata, essenziale descrizione dell’immagine riprodotta. I 50 Tarocchi non sono stati dipinti dal Mantegna, anche se del grande artista veneto conservano la finissima tecnica incisoria e la prossimità ai canoni estetici della classicità. Assai diversi dai mazzi dei Trionfi rinascimentali, furono raccolti nell’’800 da un collezionista e critico d’arte. Del loro vero autore e del committente non sappiamo nulla. Le incisioni, originariamente legate insieme come fogli di uno stesso codice (dunque non utilizzabili come carte da gioco: fin dall’inizio furono concepite diversamente), si articolano su una sequenza di cinque decadi e definiscono un percorso iniziatico, offrendo tutte insieme la “percezione intuitiva di Dio”. Fondamentale per la loro comprensione, come ho già accennato, il pensiero metafisico di Proclo, “ultimo straordinario interprete della tradizione filosofica greco-ellenistica e in particolare neoplatonica”: entro una cosmologia apparentemente aristotelico-tolemaica qui l’essere si irradia dall’Uno (Bene Assoluto) per emanazione – come la luce – via via disperdendosi e degradandosi. Ma – attenzione – senza perdere del tutto una infinitesima traccia, una qualche memoria dell’Uno: il male entro questo pensiero è solo una limitazione di intensità del Bene e può divenire perfino un mezzo di perfezionamento individuale e collettivo. Ora, l’allontanamento dall’Uno-Tutto, dunque la fatale diminuzione di calore, fatalmente ci immalinconisce. Però la buona notizia è che l’anima di ognuno di noi può sempre volgersi al richiamo del Bene, poiché sa di essere congiunta all’Uno. Viatico per la lettura è questo lucente aforisma: “L’anima non è nel corpo ma il corpo è nell’anima”. Ogni lettore è chiamato a una seconda nascita e a riscoprire la propria natura divina, inalterabile ed eterna.
Onestamente, solo accennare a questi temi fa tremar le vene e i polsi: come sappiamo, incombe su di noi tutto il Kitsch pseudospirituale della New Age, l’ossessione del pensare positivo, l’eccitazione chic delle uscite dal mondo, il self-help dell’estasi. Ma qui a salvarci è proprio la scrittura, lo stile dell’autrice: limpidamente geometrico e poeticamente allusivo. Alla fine qualcosa dei Tarocchi del Mantegna resta per noi inafferrabile, un po’ velato, come pure deve essere.
Senza seguire l’intero percorso “ermetico” mi limito qui, per ragioni di spazio, ad alcuni singoli prelievi, spero non del tutto arbitrari, e a parlare delle figure che più mi hanno colpito. Comincio dal “Cavaliere”: non è affatto impaziente di combattere, soltanto è leale, disponibile, pronto a guardare in faccia le cose, fedele e distaccato. Bellissima suggestione – un poco mi ricorda la Bhavagad gita induista (il personaggio di Arjuna ispirato da Krishna) –, da rivolgere contro certa sottocultura para-nietzscheana, che tutto risolve nella forza e nell’impeto militaresco. Poi, l’”Imperator”, intensamente assorto, il cui ruolo attivo non è nell’intervenire o nell’incidere sulla realtà, nell’imprimere la propria forma al mondo, ma “nello sguardo globale che rivolge al mondo”. Penso alla Gerusalemme liberata, quando Solimano in una pausa dei combattimenti, e prima di tornare a combattere, sale su un balcone in cima a una torre per contemplare lo spettacolo del campo di battaglia: “mirò, quasi in teatro o in agone / l’aspra tragedia de lo stato umano: / i vari assalti e ‘l fero odor di morte, / e i gran giochi del caso e della sorte”(canto XX).
Proseguendo nel libro, e dopo aver superato le nove muse, ognuna intenta a suonare uno strumento – poiché è la musica che risveglia l’anima alla sua vera natura, la ricongiunge all’Uno-Tutto e purifica dal peso ambiguo della materia – salto alla “Loica”, la Logica, l’Arte della Dialettica, che cerca di smascherare la falsa verità incarnata in un serpentello-drago che si aggancia alla sua mano. Il serpentello sembra quasi nasce da lei! Il più subdolo nemico della logica è la logica stessa (i pazzi, secondo Chesterton, hanno perso tutto tranne la logica!). La razionalità del discorso che scade a sofisma, la ricerca della verità degradata in sillogismi artificiosi. Qui si sottolinea come “non è la via della Logica quella che conduce l’anima all’Assoluto”. Più in là si ribadisce che la “vera via” non riguarda la “Philosophia”, e infatti “non risponde alla ragione ma ad un’esperienza diretta che riguarda esclusivamente la libertà interiore dell’anima”.
Due secoli dopo i Tarocchi del Mantegna, nel XVII secolo, Spinoza, ebreo “empio” e scomunicato, il più grande filosofo della modernità, dirà che la salvezza viene dalla conoscenza – conoscenza delle cause, della necessità che muove il tutto, della nostra armonia con le leggi della natura – , ma questa conoscenza non è riservata ai sapienti o ai professori universitari (lui rifiutò l’insegnamento ad Heidelberg preferendo continuare a molare lenti in un paesino olandese), ma a chiunque riesca ad avere l’ intuizione di quell’accordo e a sperimentare una illuminazione interiore. Nella voce seguente, sulla “Astrologia”, una donna di delicata bellezza che guarda al “cielo stellato”, leggiamo che si tratta dell’ultima metafisica, fondata sulla “armonia di corrispondenze numerico-geometriche dell’universo che rimandano a un superiore ordine divino”. In fondo questa armonia, questa analogia tra tutte le cose è la stessa della poesia (qui un’altra icona), “scienza” anomala delle corrispondenze segrete. In una poesia di Leopardi, che pure era ateo e con una sensibilità gnostico-manichea (ossia: l’esistenza come male), si può percepire la misteriosa connessione del tutto, dunque la tensione verso il cielo stellato, la certezza dell’“intimo sposalizio tra Terra e Cielo”. Come si dice nel commento al “Genio cosmico” in ogni angolo dell’universo si riconosce la presenza creativa del divino, tanto che “all’anima basta specchiarsi nello spazio sconfinato del cosmo per intravedere oltre i pesanti limiti della materia sensibile l’infinita leggerezza immateriale del vero essere”. Ma soprattutto si ripete qui una verità cara a Cristina Campo: “il mondo materiale e il mondo immateriale sono la stessa cosa, la stessa manifestazione dell’unica vera realtà”. Potremmo dire: il mondo immateriale è il mondo materiale stesso, però rivelato. Tutto sta saper ascoltare il silenzio dell’anima, per decifrarne i segnali. Qui è la virtù: non tanto un agire quanto un ascoltare, con pazienza e attenzione.
Infine, nella incisione della “Charita” la carità non è precetto morali o sentimento filantropico o codice estraneo all’esistenza ma “ardore irradiante dell’Amore assoluto di Dio verso se stesso”. L’amore, il dono di sé ha che fare, spinozianamente, con la potenza vitale. Ci si espande amando il prossimo, non odiandolo o cercando di dominarlo.
Mentre la verità più intima speranza, la più indifendibile delle tre virtù teologali perché tende ad alienarci nel futuro (la mia generazione ha spostato il cielo nel futuro!), è chiarita dalla icona ad essa corrispondente: una donna in estatica preghiera, che non attende qualche benefico aiuto da lei supplicato ma solo esprime una fondamentale gratitudine. Dunque la speranza “non è l’attesa di un bene futuro, ma l’abbandono fiducioso nel Presente”, nella sospensione del tempo in cui l’anima intuisce la presenza divina in sé e i tutto il vivente.
Come nella Commedia dantesca si conclude qui, nell’ultima icona, con il vertice-abisso dell’Assoluto, con la “Prima Causa” (da cui si irradiano i centri concentrici che poi circonderanno la Terra), con quell’Amore estraneo a ogni dualità che coincide con una beatitudine perfetta.
A ben vedere niente di “trascendente”: la Commedia non è propriamente un poema religioso (di Dio vi si parla con discrezione) e così i Tarocchi del Mantegna ci evocano una esperienza interiore tangibile, una pratica meditativa aperta a tutti, sempre se siamo disposti a purificarci, ad abbandonarci fiduciosi alla loro bellezza e al loro messaggio sapienziale.