“Solo la Maglia”, nei Musei di Palazzo dei Pio
L’occhio di Scianna per i tessuti di Carpi
Dolce, Gabbana e il grande fotografo. Una campagna pubblicitaria del 1987, in mostra nel luogo d’eccellenza della tradizione tessile made in Italy. Lontana da ogni principio di genere, documenta la produzione di quel jersey di lana utilizzato dai due stilisti per quella collezione in bianco e nero
«Le persone che vi sono ritratte sono stati i nostri papà, le nostre mamme, i nostri zii. Era gente che aveva patito una miseria abissale. Gente che aveva patito la guerra da bambini e con essa la fame e il freddo. Gente che se pensava al futuro aveva davanti poco più di quello che avevano vissuto i loro genitori, già vecchi a cinquanta, sessant’anni». Così Davide, caro amico degli anni dell’università e carpigiano doc, commenta l’ultima sezione della mostra Solo la Maglia allestita nelle sale dei Musei di Palazzo dei Pio a Carpi e visitabile fino al 30 gennaio 2023. La tradizione tessile, eccellenza di quella parte del territorio emiliano che la mostra vuole celebrare, cresce a Carpi nel secondo dopoguerra del secolo scorso, soppiantando la lavorazione del truciolo diventata, nel tempo, una vera e propria arte, della quale si hanno notizie certe fin dagli inizi del 1500. Dai tronchi di salice e di pioppo, piante caratteristiche del territorio coltivate in modo da ottenerne la massima resa, si ricavavano lunghe, sottili e uniformi paglie, i trucioli, che intrecciate formavano le trecce, fettucce che nelle abili mani delle cappellaie si trasformavano in cappelli di varia foggia.
Si trattava, però, di una attività prevalentemente stagionale e, sebbene già dagli inizi del XIX secolo furono messe a punto macchine per la trattura delle paglie e agli inizi del XX per il confezionamento dei cappelli, anche molto faticosa e molto poco redditizia per i contadini-operai che la praticavano, concentrando di contro le ricchezze del commercio di trecce e cappelli nelle mani di poche famiglie. Agli inizi degli anni 60 del secolo scorso, le nuove generazioni si orientarono, quindi, verso il settore tessile dell’abbigliamento che offriva un lavoro più stabile, continuativo e meglio remunerato, lasciando l’industria del truciolo sempre più a corto di nuove risorse e condannandolo irrimediabilmente a estinguersi nel giro di poco più di un decennio. L’attività tessile si diffuse dapprima a domicilio, sulle ceneri dell’arte del truciolo, presto in fabbriche via via più organizzate e dai prodotti sempre più ricercati fino a entrare, agli inizi degli anni 80, nel mondo dell’alta moda che proprio in quegli anni viveva il trionfo del made in Italy, l’ascesa e l’affermazione di stilisti che hanno impresso i loro nomi, e con essi quello dell’Italia, nell’Olimpo della moda. Sono gli anni delle grandi firme, gli anni di Valentino e di Armani, di Moschino e di Trussardi, di Prada e di Dolce & Gabbana.
Era il 1987 quando proprio Domenico Dolce e Stefano Gabbana, agli esordi nel mondo della moda, contattarono Ferdinando Scianna per realizzare la loro campagna pubblicitaria. Scianna era già un fotoreporter e giornalista affermato, con alle spalle importanti collaborazioni con le più prestigiose testate del momento, diverse pubblicazioni, e vantava amicizie del calibro di Leonardo Sciascia, curatore dei suoi libri, e Henri Cartier-Bresson. L’esordio di Scianna nel mondo della moda, così come lui stesso racconta, ebbe un sapore surreale: un budget bassissimo e uno staff formato dai due stilisti, dal fotografo e dalla modella, la già famosa Marpessa Hennink, che, per l’occasione, si truccava e si pettinava da sola. Nonostante gli scarsi mezzi, l’intuizione geniale di far posare Marpessa per un ragazzino che gli stava facendo il verso, e da lì di inserire la modella nel contesto non solo paesaggistico, ma umano della Sicilia sua e di Domenico Dolce, portò il fotografo a realizzare quella campagna così lontana da qualsiasi principio di genere, fatta di scatti dallo strano sapore di reportage condito di street dal vago retrogusto artificioso, che annoverò Scianna tra i grandi fotografi di moda e legò i quattro inscindibilmente nell’immaginario collettivo, contribuendo, inoltre, a creare un iconico personaggio inesistente: una Marpessa siciliana reale solo nelle immagini e nell’immaginario del fotografo. I capi di Dolce e Gabbana però, a dispetto del ridotto budget della campagna promozionale, si distinguevano per qualità e originalità, anche grazie all’utilizzo del jersey di lana realizzato proprio da alcune industrie tessili del carpigiano e che per prima volta calcava il catwalk dell’alta moda.
Attraversata la porta di ingresso alla mostra, il visitatore viene accolto, e messo non poco in soggezione, da una gigantesca Marpessa che, avvolta in un morbido semplice e raffinato abito di jersey nero, attraversa con disinvolta noncuranza, il vano di un vecchio portone in legno, lasciandosi alle spalle l’assolato paese siciliano e gli sguardi interessati degli uomini del posto (nella foto vicino al titolo). È questa una delle immagini più famose di quella campagna e compendio dello stile di un fotografo che, legato da un viscerale amore e odio alla sua terra e fedele al suo sguardo di fotoreporter, ha sempre rifuggito gli eccessi e i vistosi artifizi di certa fotografia sensazionalistica, puntando l’attenzione sulle persone artefici e attori delle tradizioni e della quotidianità. Fu proprio la semplice spontaneità di quegli scatti a determinare il successo di quella campagna, ripresa per le strade o in piccoli locali e interamente in bianco e nero, in contro tendenza ai dettami del momento.
Superata la gigantografia di Marpessa, le 26 fotografie scelte per il book raccontano di tradizioni antiche e radicate, di forti contrasti, di quel modo particolare di vedere e concepire la luce e di costruire le proprie immagini partendo dalle ombre, proprio di Scianna e del suo essere, ovunque e comunque, siciliano. Raccontano delle persone e di una dimensione temporale sospesa nella quale i capi della linea stilistica scelta da Dolce e Gabbana, rigorosamente in tessuti bianchi o neri, risaltano armonici e raffinati, ponendosi come trait d’union tra quel mondo dal sapore antico e il mondo vorticoso dell’alta moda cui erano destinati. Una decina di questi capi originali Dolce & Gabbana, che le ragazze degli anni 80 sicuramente ricordano e magari hanno anche vestito nelle versioni prêt-à-porter, indossati da altrettanti futuristici manichini, si susseguono conducendo nell’ultima sala che ci racconta i luoghi e le persone che hanno realizzato quel jersey di lana che tanto successo diede ai due stilisti. Sono 14 fotografie facenti parte di un più ampio reportage che l’associazione Magliacalze commissionò a Ferdinando Scianna nel 1989 per documentare i processi di produzione e di commercializzazione della maglia, scattate dal fotografo siciliano nelle fabbriche di Carpi e del carpigiano, raccolte nel quasi ormai introvabile testo Maglia pubblicato da Franco Sciardelli editore nello stesso anno. Gli operai e i loro volti attenti al lavoro, le mani che muovono i fili e le macchine con precisione, che maneggiano i capi con cura, sono particolari che con intensità e decisione ci restituiscono la serietà e la dedizione che hanno determinato la rinascita e la crescita di un territorio che, fino a un paio di decenni prima, era terra povera e di emigrazione.
«Lavorarono a tutto spiano – conclude Davide – fino all’esaurimento. Ogni giorno fu un miglioramento tangibile. La città si popolò raddoppiando e triplicando, vennero demolite le vecchie fabbriche a ridosso del centro per far posto a palazzi, attività commerciali, negozi e scuole. Tante scuole. (…) Queste persone che vedete così intente al lavoro e forse un po’ a disagio per essere ritratte sul posto di lavoro, vissero e stanno vivendo un’epoca che dal dormire in una soffitta con la neve che entrava tra i coppi, li ha portati al cellulare usato per chiamare i nipoti all’estero con il progetto Erasmus, mentre, al calduccio sul divano, guardano Chi l’ha visto? su una smart tv».
Ringrazio l’amico Davide per gli spunti di approfondimento e per la preziosa testimonianza.
Foto © Maria Luisa Paolillo