“Le stanze” di Guido Monti
La letteratura applicata alla vita
È questa la scia luminosa che orienta la poesia dell’autore marchigiano. Versi aperti al confronto e all’incontro, con lo sguardo rivolto al vissuto, ai luoghi e ai maestri. Di cui si evocano gli insegnamenti, senza abbandonare il proprio originale percorso
Nel suo recente libro di poesie, Le stanze (peQuod), Guido Monti annota in varie pagine la propria ammirazione verso vari scrittori (Borges, Montale, Auden, Keats, Herbert, ecc.), lo fa con citazioni e dediche, a loro si rivolge in segno di riconoscenza e attenzione, perché essi hanno tracciato una via, favorito una fedeltà alla pagina letta e scritta, e sono da considerare quindi gli «amori di vita e letterari, e di loro risuonano le mie parole», come afferma in un appunto finale. Certamente non si possono abbandonare i propri Maestri, ne va della nostra esistenza, ma bisogna vivere con loro, per quanto, vi è da aggiungere, la voce di Monti si allontana dai propri riferimenti poetici e si proietta in strade originali. La raccolta ne evidenzia i tratti, visto anche il misurato e raffinato intarsio linguistico che “muove” queste poesie. Guido Monti, poeta cinquantenne, sviluppa una scrittura che nelle sue dense linee prosastiche raggiunge una decisa intensità, esibendo un’ampia gamma di panorami versificatori, sempre comunque alla ricerca della misura giusta, come afferma in una poesia, interloquendo con un poeta amico: «Ed io, come ogni scrittore deve vi ho spogliate di ogni strato,/ riducendovi a cose inermi, svolazzanti come code di fiocchi/ vele, così leggere siete apparse sotto la tolda dell’universo/ non più meccanismi di apparati, avete detto ciò che degno/ deve rimanere e che solo la poesia può riportare».
Le poesie di Monti attraversano vari momenti della sua vita. Vi sono i luoghi, vi sono le persone frequentate con i loro insegnamenti, a cui esprimere devozione e vicinanza. Sono versi in cui è evidente la spinta a elaborare un diario intimo, a tracciare un percorso a tappe negli anni: dalle vicende giovanili, alla stagione universitaria bolognese, dalle relazioni amicali agli affetti familiari. Memoria che incide e si fa immagine e passaggio tra varie stanze della propria storia, con le parole della poesia che innervano lo sguardo. Del resto, la versificazione di Monti sembra interagire con il lettore, al quale si offre un discorso, ma al contempo quasi si chiede una risposta, instaurando così un ideale dialogo, dove i volti si incontrano e si guardano. Resta comunque forte l’impressione che le mille sollecitazioni ricevute dai libri letti e dalle lezioni universitarie bolognesi (nella poesia, «caro professore le scrivo», dedicata ad Alberto B.: «ti dico grazie, se loro le parole son tornate, lo so fugaci, lo so/ per poco, ma vive certo a dire e mostrare l’attimo di tutti noi/ intenti dentro a costruirvi se possibile virtude e conoscenza»), oltre che dalle recensioni elaborate (come critico di varie testate, tra cui Il Manifesto), possano far pensare che per Monti valga ciò che affermò Proust: «La vita vera, la vita finalmente scoperta e tratta alla luce, la sola vita quindi realmente vissuta è la letteratura», affermazione poi ripresa e “sistemata” teoricamente da Carlo Bo.
Estraneo a un certo andamento della poesia contemporanea (con la metafora che è il principio di tanta scrittura ancorata a una tradizione lirica), Monti si tiene in uno spazio linguistico che volge, attraverso una ricca struttura, all’essenza dei sentimenti e del dettato, come ben si avverte in questa poesia dedicata a San Benedetto del Tronto, dove il poeta è nato e dove è rimasto fino agli studi universitari bolognesi, in una descrizione allo stesso tempo rude e fiabesca: «Ecco, da questa terra d’impasti violenti sabini/ e romani mediati dalle eterne soglie pontificie/ provengo e come con Itaca talvolta nel sogno ritorno/…/ ora che seggo su questa sediola davanti all’Adriatico piatto e che vedo a due a due/ filare le onde, come a far d’armonica a questa mia voce/ si le onde che a due a due, vanno e vengono, vengono/ e vanno, le onde».
Delle figure incontrate nel suo percorso di formazione c’è uno struggente ricordo di un finissimo intellettuale, docente all’Università di Bologna: Gianni Scalia, che costruì quella straordinaria rivista chiamata In forma di parole, che fece scoprire la poesia straniera più distante da noi; la bella poesia a lui dedicata è un atto d’amore e di riconoscenza, ma pure una pagina emozionante relativa alla stessa vita del poeta: «Mi chiedo senza la tua mano, cosa sarei stato/…/ senza la tua parola che al mondo dava costruzione, / che sarei divenuto? Forse un ripetitore seriale / dei pomeriggi alcolici o uno scarruffato ragazzo/ tutto astrazione o violento ideologico./ E invece altro io fui dietro i tuoi occhi che parlavano/ di letteratura applicata alla vita, tanto che tu ultimo/ gli avventori che giungevano alla tua bottega/ avidi di ragione li cacciavi sofisticamente/ altro io divenni quel novembre di fin di secolo/ quando la tua voce si ruppe leggendo come un breviario/ la pagina del viaggio al termine della notte, altro a sentirla/ quella voce spezzata in frammenti, parole, tempi». Versi “accoglienti” come si vede, perché mossi al confronto e all’incontro, nell’umile accettazione di una condivisione umana da vivere con profondità, l’unica che forma e alimenta, come si avverte anche in questa dolce poesia (dal lucente titolo Questa pagina che a sfogliarla profuma di gioco) dedicata a Francesca, ricordando una storia d’amore che vive non solo nel passato: «E se l’avessi perduto quel treno che a Bologna/…/ e non avessi varcato la porta del diritto al 39/ di via Zamboni/…/ e se tu ti fossi appesa per un attimo in più sul rosso/ del cielo che lesto si ritirava dalle finestre alte/ e non mi avessi sorriso di rimando, forse ora/ non sarei qui a distillare parole che aprono mondi,/ nel mondo annerito di oggi, ecco perché mia donna/ di cuori, ti dico grazie».