Raoul Precht
Periscopio (globale)

Il caso Juan Benet

A trent'anni dalla scomparsa ancora di discute dell'eredità letteraria dello scrittore spagnolo Juan Benet. Un autore criptico ai limiti della incomprensibilità oppure il (complesso) iniziatore della nuova narrativa della Spagna post-franchista?

Sono trenta, ormai, gli anni che ci separano dalla scomparsa di Juan Benet, e nella letteratura spagnola la rilevanza della sua opera non è ancora del tutto chiara né riconosciuta in modo unanime. Curiosamente, se ne parla quasi sempre sotto due angolazioni: da un lato, attribuendogli il merito di aver operato, alla fine degli anni Sessanta, una rottura nei confronti del romanzo tradizionale spagnolo (mettendo sotto questo profilo quasi a pari merito il suo Volverás a Región, uscito nel 1968 ma scritto tra il 1962 e il 1964, con Tiempo de silencio di Luis Martín Santos, del 1962); dall’altro riconoscendolo quale precursore di alcuni scrittori successivi, i cosiddetti benetianos, primo fra tutti il recentemente scomparso Javier Marías, che non ha peraltro mai negato di esserne stato influenzato e che certamente ne ha appreso (e per certi versi superato) la lezione.

Che tipo di scrittore è stato dunque Juan Benet, e quali limitazioni ha dovuto subire e subisce ancora oggi la sua valutazione perfino da parte dei maggiori ammiratori? Quesito non facile, che richiede un’esposizione articolata. Cominciamo appunto dal romanzo d’esordio, quel Volverás a Región (Tornerai a Región, uscito in Italia per i tipi dell’editore Amos) che ne ha fissato da subito, ad appena quarant’anni, e forse fin troppo, l’identità, rivelandosi in seguito quasi una camicia di Nesso. Un romanzo a mio avviso non pienamente riuscito, in cui l’affanno di creare tutto un universo fittizio (secondo il modello faulkneriano, e di Faulkner sarà infatti un valente traduttore) finisce per appesantire e anzi annullare la vicenda narrata, annegandola in un andamento sintattico fin troppo complesso, sebbene di rara eleganza. Un libro che si legge dunque per la bellezza delle frasi (del fraseggio) e delle descrizioni più che per l’interesse che destano i personaggi, le cui relazioni, quasi sempre degradate, non sono affatto chiare; ed è una lettura resa ancora più ardua dall’imprecisa scansione temporale e dalla confusione che ne deriva e che Benet introduce volutamente nella tessitura del libro. Come ha scritto non un suo detrattore, ma un suo estimatore, dopo aver letto più di metà del libro (e se non si ricorre, per chiarirsi le idee, a fonti esterne) uno continua a chiedersi di cosa Benet stia mai parlando e dove voglia andare a parare. Opera criptica, quindi, come poche altre, basata più su sensazioni che su eventi, questo primo romanzo suscitò tuttavia un certo succès à scandale semplicemente perché rappresentò una cesura netta nei confronti del romanzo tradizionale spagnolo, ispirato a un realismo per molti versi ancora di stampo ottocentesco quando non piattamente costumbrista.

Allontanandosi con piglio sicuro da strade fin troppo battute, Benet parla della Spagna contemporanea e degli anni della guerra civile e del franchismo creando con inesauribile meticolosità un suo mondo proprio, la zona denominata Región, descrivendone minuziosamente – da ingegnere qual era nella vita professionale – due città rivali, Macerta e la stessa Región, nonché villaggi, fiumi, boschi e foreste, come l’inaccessibile zona denominata Mantua e presidiata dal violento, crudele e forse addirittura cannibale Numa, e ancora montagne, collegamenti ferroviari e stradali, labirinti e vie senz’uscita, trasformando questo suo territorio immaginario in un vero e proprio organismo pulsante e discorrendo poi di peripezie belliche riconducibili a una guerra fratricida fra repubblicani e ribelli a cui la realtà di quegli anni sembra quasi fare eco (anche se sarebbe più logico che avvenisse il contrario, e che fosse cioè il libro l’eco della realtà). In un insieme di libri successivi, rimasti incompiuti, che vanno sotto il nome di Herrumbrosas lanzas, Benet metterà addirittura a disposizione del lettore, da cartografo provetto, una dettagliatissima mappa di Región in scala 1: 150.000, corredata da alcune cartine militari ancora più particolareggiate per illustrare le battaglie descritte.

Fra i suoi personaggi, i quali, evocati, abbandonati, ripresi, analizzati solo in parte, finiscono per lasciare al lettore un’immagine confusa, primeggia il dottor Daniel Sebastián, che a me ricorda molto, nel suo senso di fallimento e di ispanico desengaño, il Console protagonista di Sotto il vulcano di Malcolm Lowry, così come a mio parere riporta a Lowry anche l’inizio del libro, con quell’indicazione di “vietato l’ingresso” che richiama irresistibilmente alla memoria il famoso cartello “¿Le gusta este jardín?” con cui si apre l’epopea del Console in Messico. (Così come, se cerchiamo fonti e similitudini, a me – ma pare che io sia l’unico a rilevarlo – nel suo insieme questo libro, soprattutto questo libro, sembra anche molto in sintonia con la poetica che andava sviluppando più o meno in parallelo dall’altra parte dei Pirenei Julien Gracq, a partire dal Rivage des Syrtes.)

Juan Benet

Pregnanti e intimamente lacerati anche i personaggi femminili, come Marré Gamallo, la figlia del comandante franchista vincitore finita ostaggio dei repubblicani, che di uno di essi si innamora per sempre, o María Timoner, amante di Gamallo, il quale la perde durante una partita a carte a beneficio di un anonimo e misterioso Jugador. Ma María è poi anche la donna di cui il dottor Sebastián s’innamora, al punto di allevarne, nella sua casa-clinica, il figlio (demente) della colpa. Quello di Benet è peraltro un universo femminile sofferente: nella sua opera le donne sono quasi sempre sottoposte a violenze morali e fisiche, maltrattate e denigrate; è su di esse che gli uomini sfogano immancabilmente le loro amarezze e frustrazioni. Sebbene Benet non sia prigioniero di ideologie né scada mai nel discorso sociologico, che considera semplificatorio e fuorviante, è fuor di dubbio che della condizione femminile coglie con sensibilità tutte le limitazioni e tutte le debolezze, la vera e propria prigionia entro determinati codici di comportamento dettati dai canoni patriarcali della società.

Non ho qui lo spazio per un’analisi dettagliata del libro, di cui sarebbe interessante poter mettere in luce anche le ricchissime risorse stilistico-retoriche e gli elementi mitici, ma quello che mi preme sottolineare è che considerare Volverás a Región l’opera principale e centrale di Benet rischia di rappresentare una sottovalutazione di quanto ha scritto in seguito, che suscita un interesse forse meno tecnico ma più letterario.

Benet era pienamente consapevole della difficile leggibilità di alcuni suoi libri, tanto che egli stesso li definiva “un latazo” (un mattone), ma si convince sempre più dell’esigenza di esplorare nuove strade epistemologiche e creative, rendendosi conto che il fatto stesso di narrare un fatto distrugge il fatto in sé, e che quindi non possiamo più illuderci sull’esistenza di una narrazione pienamente neutrale, che non modifichi cioè l’evento osservato. Teorizza già prestissimo (nel saggio La inspiración y el estilo, che è del 1966) una narrazione complessa, in cui la realtà risulti frammentaria e inconoscibile, e dove non ci sia più nulla di certo, nemmeno la sintassi – tanto che nelle sue proposizioni principali aprirà una serie di frasi parentetiche che solo in qualche caso si chiudono riportando il lettore alla base, e in altri invece lo lasciano appeso sopra una specie di abisso del ragionamento. Della realtà, inconoscibile e incomprensibile – lo dimostra l’insensatezza insita nella guerra civile, foriera di soprusi e violenze d’ogni genere – non c’è da fidarsi. Così come c’è da fidarsi poco della memoria, che Benet considerava essere “la venganza de lo que no fue” [la vendetta di quel che non è stato] e che peraltro in Spagna era monopolizzata dalla narrazione ufficiale del franchismo, contrapposta alle frante, incomplete ricostruzioni degli oppositori, molti dei quali in esilio e pressoché ammutoliti, quanto meno nel dibattito pubblico.

Lo stesso principio di scetticismo e sfiducia nella parola sembra ispirare una delle sue rare incursioni nel genere poliziesco, l’unica, in ogni caso, che abbia assunto le sembianze e le dimensioni di un romanzo. Nel 1980, per una scommessa con degli amici letterati convinti della sua incapacità di scrivere qualcosa di “leggibile” e adatto al grande pubblico, in appena due mesi Benet scrive El aire de un crimen (L’aria di un crimine, uscito in Italia per Einaudi), presentandolo con un certo gusto della provocazione al premio Planeta (che ovviamente non vincerà). Già il titolo dovrebbe mettere il lettore sull’avviso; e infatti il libro ha tutta l’aria di un giallo, ma è qualcosa di completamente diverso, anche se prende le mosse dal canonico ritrovamento di un cadavere sulla piazza principale di un paesino, Bocentellas. Ritorna qui, senza primeggiare, il dottor Sebastián, che per il poco che dice e fa meriterebbe tuttavia l’Oscar per l’attore non protagonista, ma la vicenda ruota stavolta intorno a una pluralità di personaggi, dall’integro e indeciso inquirente, il capitano Medina, che in definitiva non indaga su nulla, alla giovane, incauta e sventurata Chiqui, la prostituta-esca di cui Medina si innamora cadendo nel tranello che gli è stato ordito intorno; dall’esperto e acuto giornalista Fayón appena rientrato dall’esilio (esilio di cui come sempre in Benet ci sfuggono le ragioni cogenti, ma che tanto rimanda al franchismo e alle conseguenze della guerra civile) alla intrigante Tacón, la quale dal suo bar sovrintende a tutti i traffici della regione e i cui rapporti con i gangster locali sono tanto certi quanto fragili.

Anche qui, sebbene un po’ meno rispetto al romanzo d’esordio, i personaggi e la vicenda narrata hanno un’importanza relativa, e quanto al piacere di mettere il lettore in difficoltà, confondendo i piani temporali, saltando di palo in frasca, annullando i nessi logici e cronologici, seminando indizi senza che nessuno li sfrutti, Benet se ne fa quasi un punto d’onore. Causalità e teleologia erano due concetti che dovevano fargli orrore; all’esposizione di verità assolute preferiva di gran lunga la divagazione, l’indeterminatezza, lo sguardo obliquo. Benet coglie l’occasione di ribadirlo anche qui, in quello che, insieme all’ultima opera, El caballero de Sajonia, è probabilmente il libro più accessibile e godibile della sua produzione. Eppure, come disse in un’intervista, anche nei limiti imposti dal poliziesco quello che deve interessare allo scrittore è sempre e solo l’eccezione, lo scarto nei confronti della norma: “¿Qué puede ser la literatura de misterio sino pasar a la palabra lo que no es verosímil para la percepción?” [In cosa può mai consistere la letteratura del mistero se non nella traduzione in parole di quanto non è verosimile per la percezione?]

L’ultimo romanzo di Benet, El caballero de Sajonia, uscito nel 1991 e purtroppo mai tradotto in italiano, è anche l’unico a non rientrare nell’ambientazione usuale e a valersi di un’inaudita (per Benet) leggibilità. Si tratta, seppure sui generis, di un romanzo storico, assai ben documentato e dedicato a un periodo specifico della vita di Lutero, in cui Benet inserisce un episodio molto probabilmente fittizio, ovvero il presunto incontro a Pottmes con l’imperatore Carlo V per cercare di negoziare una tregua religiosa che consentisse di contenere la guerra civile nei soli territori tedeschi, senza che si producesse quindi una escalation in tutta Europa. Un incontro fra i due del resto ci fu davvero, ma a Worms, dove Lutero, che rifiuta di abiurare, sarà semplicemente (e senza troppi complimenti) dichiarato eretico. Benet immagina qui quattro diverse stazioni del cammino di Lutero, durante una delle quali gli farà visita anche il diavolo, con echi evidenti dal Dottor Faustus di Thomas Mann.

Come dicevamo all’inizio, Benet è morto nella sua città, Madrid, trent’anni fa, il 5 gennaio 1993, all’età di sessantacinque anni, per un tumore al cervello, lasciando una produzione piuttosto ampia e articolata: una decina di romanzi, quasi altrettante raccolte di racconti – in Italia sono stati tradotti da Marcos y Marcos le Trece fábulas y media (Tredici favole e mezza) –, una quindicina di saggi, una manciata di opere teatrali. Per uno che di professione faceva l’ingegnere, e lo faceva sul serio, arrivando a definire se stesso uno “scrittore della domenica”, non c’è male. Del resto, nei confronti della carriera artistica aveva sempre esercitato una sana e salutare diffidenza: “probablemente hay más individuos doloridos por la insuficiencia de su creación artística”, diceva, “que satisfechos de su arte y doloridos por su vida” [è probabile che ci siano più persone che soffrono per l’insufficienza delle loro creazioni artistiche che non persone soddisfatte della loro arte e sofferenti per la loro vita]. Il che ci porta a considerare – o così almeno la pensava Benet – che per uno scrittore la salvezza stia forse proprio nell’avere un altro lavoro, un lavoro vero, e nel non prendersi mai troppo sul serio quando, non avendo niente di meglio o di più urgente da fare, indulge alle sue creazioni fittizie.

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