Giuliano Capecelatro
A due anni dalla scomparsa

L’arte della scienza

Ricordo di Pietro Greco, uno scienziato prestato al giornalismo. Che conosceva l'arte della divulgazione e quella che, mescolando i generi e le regole del mondo, ha sempre guidato il pensiero dell'uomo nel rapporto con la natura

C’è Dante Alighieri, il ghibellin fuggiasco, un monumento della letteratura non solo italiana. E c’è Galileo Galilei, un monumento del pensiero scientifico per un pelo scampato agli oscurantisti roghi ecclesiastici. Tre secoli li separano. Difficile immaginare punti di contatto, una qualche contiguità intellettuale. Poesia e astronomia si sfiorano, quando nei versi brillano le stelle; la matematica ha rapporti clandestini, anche se determinanti, con le rime. Punto. Eppure il legame c’è, non è affatto casuale, episodico; va oltre le loro persone. Un legame che tiene insieme arte e scienza, letteratura e filosofia, pietre miliari nell’accidentato, tortuoso cammino dell’essere umano verso la conoscenza. Ma qui è necessaria una premessa.

Questo scritto nasce dal desiderio di ricordare un collega e carissimo amico, Pietro Greco, scomparso prematuramente due anni fa, il 18 dicembre 2020. Giornalista de l’Unità, Pietro, una formazione da scienziato, si occupava appunto della pagina della scienza, uno dei fiori all’occhiello del quotidiano.

Cólto, cordiale, mite, ma fermo nelle sue convinzioni e nei suoi princìpi: non si fece intimorire da un direttore digiuno di scienza che, certo di aver fiutato un argomento sensazionale, insisteva con piglio autoritario perché ne scrivesse. Pietro ribatté che si trattava di un’emerita sciocchezza, che non si sarebbe prestato a diffonderla. E la spuntò.

Per lui il giornalismo non poteva ridursi a trasmettere nude e crude alcune informazioni, ma doveva assolvere anche a un compito di formazione, stimolare, scriveva, «la capacità di connettere tra loro vari campi del sapere, trovare intrecci di significati e il senso comune di linguaggi sempre più specialistici e sempre più incomunicanti».

Una missione civile in cui si affiancò ad altri colleghi, tra cui Franco Prattico (cresciuto nella redazione napoletana de l’Unità, quella del Mistero napoletano di Ermanno Rea), mentore di quella pattuglia, che dalle colonne di Repubblica operava per rifondare le modalità della comunicazione scientifica e che fu tra i fondatori del Master di comunicazione della scienza, che oggi porta il suo nome, della Sissa (Scuola internazionale superiore di studi avanzati) di Trieste, dove lo stesso Pietro andò a insegnare.

Numerosi i libri, in cui, con una scrittura sempre chiarissima, efficace, Pietro ha trasfuso la sua indomabile passione per la conoscenza, l’imperativo morale di aiutare i lettori ad afferrare concetti complessi, impervi, acquisire nozioni fondamentali.  Uno dei suoi ultimissimi lavori si intitola Homo. Arte e scienza (Di Renzo editore, 2020, pagg. 408, euro 18). 

Arte e scienza, come dire il diavolo e l’acqua santa. Regno del libero gioco della fantasia il primo; campo della più rigorosa logica il secondo. Luogo comune da sfatare. Ma il rischio di una crescente divaricazione tra umanisti e scienziati, favorita dalla corsa a un’esasperata specializzazione, esiste. Già nella seconda metà del secolo scorso lanciava l’allarme un fisico inglese, Charles Percy Snow, con il pamphlet Le due culture.

Con la tenacia del ricercatore, Pietro affronta il problema alla radice, risalendo il corso dei secoli e delle ere. Per soffermarsi sulle prime testimonianze di arte conservate in sperdute caverne, rinvenute per caso.

Altamira, in Spagna, Lescaux, in Francia, Bombos, in Sud Africa; diciassettemila, quarantamila anni fa. Creazioni ingenue? Sarà, ma Pablo Picasso nel visitare Lescaux esclamò: «Noi non abbiamo inventato niente». Soprattutto, quelle figure stilizzate testimoniano di «un pensiero simbolico capace di astrazione». Astrazione, simbolismo: attrezzi indispensabili del pensiero, della ricerca scientifica. E dell’arte.

L’excursus si avventura nella selva delle epoche. Da Pitagora, che fissa il rapporto tra numero e armonia, tra matematica e musica, raggiunge Leon Battista Alberti, che nel trattato De pictura (del 1435) illustra la stretta relazione tra pittura e matematica. E Piero della Francesca, pittore, ma anche «il più profondo e creativo studioso di geometria del Quattrocento», che nel De prospectiva pingendi elabora una teoria matematica della pittura. E tutti, da Paolo Uccello a Masaccio, «studiano la matematica e i principi della prospettiva realistica».

Rispuntano i due monumenti, Dante e Galileo. Il pisano delle sensate esperienze e delle necessarie dimostrazioni, i principi basilari della scienza sperimentale di cui è il capofila, non si limita a puntare il cannocchiale verso il cielo e a trascrivere le osservazioni in formule matematiche, da scienziato moderno. Conosce la musica, è poeta, ritrae in maniera non banale la superficie lunare e allega alcuni di questi disegni al Sidereus nuncius, conciso testo rivoluzionario che lo proietta su un orizzonte più ampio. Non solo scienziato, ma scrittore di qualità.

Anzi, «il più grande scrittore della letteratura italiana di ogni secolo». Lo afferma senza mezzi termini lo scrittore Italo Calvino, pensando al Sidereus, rimbeccato da un altro scrittore, indispettito, Carlo Cassola, convinto che «la palma di massimo scrittore spettasse a Dante». Al che Calvino precisa che intendeva «scrittore di prosa».

Il fiorentino Dante, intellettuale grandissimo, nella Commedia trascrive in poema teologico-filosofico la concezione aristotelica, filtrata da san Tommaso. Ma è piuttosto al Convivio che guarda Pietro Greco, a quel lauto banchetto del conoscere che il poeta imbandisce, aristotelicamente convinto che «tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere», e che «la scienza è ultima perfezione de la nostra anima».

Si procede sul dorso dei secoli. Nel 1905 Albert Einstein, dopo aver a lungo rimuginato sul concetto di simultaneità, elabora la teoria della relatività ristretta e sconquassa la percezione comune di spazio e tempo e l’illusione della simultaneità. Nel 1906 Pablo Picasso lavora a un dipinto, che completerà nel 1907, Les demoiselles d’Avignon: cinque figure femminili fortemente geometrizzate che fanno gridare allo scandalo, del tutto estranee ai dettami del senso comune. Sulla tela anche il pittore stravolge la concezione dominante di spazio e tempo.

Picasso e Einstein non si sono mai visti né conosciuti, e Picasso nulla sa della nuova teoria fisica. Però, nella cerchia delle conoscenze, sente parlare di Henri Poincaré e della sua strenua riflessione sulla simultaneità, che per un soffio non anticipa le conclusioni di Einstein.      

Cosa ne esce fuori? Ancora una volta è Calvino, molto attento agli sviluppi della scienza, a spiegarcelo con chiarezza esemplare: «La scienza si trova di fronte a problemi non dissimili da quelli della letteratura: costruisce modelli del mondo continuamente messi in crisi, alterna metodo induttivo e deduttivo e deve sempre stare attenta a non scambiare per leggi obiettive le proprie convinzioni linguistiche».

Scienza che non è un meccanico esercizio di logica pilotata da freddi assiomi. Nelle loro indagini, gli scienziati sono mossi da un qualcosa di più indefinito, ma anche più umano. Werner Heisenberg, cui l’umanità deve la teoria dei quanti con l’inquietante principio di indeterminazione che scombussola perfino Einstein, sottolinea il ruolo decisivo dell’immaginazione.

Paul Dirac, fisico inglese premio Nobel, si attiene a un criterio estetico, ricerca la bellezza e nell’equazione di Einstein individua appunto una bellezza logica. Un altro Nobel, Wolfgang Pauli, argomenta in toni lirici: «Non si può comprendere il mondo senza suonare il piano». Einstein, infine, trova che l’artista, come il pittore e il poeta, «fa di questo suo universo personale il centro della vita emozionale». Il dato emotivo li unisce in maniera indissolubile. Il neuroscienziato Antonio Damasio ha dimostrato che «la ragione da sola non produce comportamenti razionali, se non ci sono le emozioni a costruire un senso». 

Emozione più logica, binari di un unico tragitto per l’homo sapiens. Ed è come se tutti, indistintamente, procedessero con un identico intento, verso un’identica meta. Come se su tutti agisse quella che Gerald Holton, storico della fisica ripreso da Pietro, chiama, con riferimento ai primi pensatori greci, la “seduzione ionica”. Come se tutti, ancora e sempre, anelassero ad agguantare infine la sostanziale unità, l’occulta simmetria, l’impalpabile ordine dell’universo. Il fantasma probabilmente inafferrabile del κóσμος.

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