Su “La fine del mondo: una vita in serie”
Finzione & morale
Il celebre storico del teatro Paolo Puppa raccoglie una serie di frammenti per la scena nei quali la finzione dialoga con la morale. Perché l'aggressione seriale delle immagini imposte dai telefonini si combatte solo con il teatro
Storico del teatro tra i più prestigiosi in Italia, Paolo Puppa da tempo è anche – come dire? – un performer che mette in scena la sua perizia critica. Si può sostenere a buona ragione, anzi, che abbia inventato un nuovo genere di derivazione saggistica, ma di fatto pienamente teatrale, poiché Puppa i suoi “testi” (fiction scenica con un solido aggancio alla critica delle idee) li mette in scena in prima persona, esponendosi come attore. O performer, appunto, come è meglio affermare.
La casa editrice Cue press, ora, raccoglie una serie di questi testi che sono «monologhi, dialoghi interrotti, frammenti “apocalittici”», sotto il titolo La fine del mondo: una vita in serie (86 pagine, 19.99 Euro). E si tratta di testi sostanzialmente di due tipi.
Da un lato, ci sono fantasie rabbiose nelle quali l’io narrante sottolinea i caratteri di una società che ha smarrito senso (compreso quello della misura). Come in Tatuaggi, per esempio, dove la voce immagina di attrarre giovani provinanti non per abusare di loro ma per distruggere i loro telefonini, cancellandone – per qualche tempo almeno – la loro dipendenza dal dio selfie. E, del resto, è pur vero che proprio questo pervasività dello schermo, della dimensione virtuale, è ciò che ci ha condotto “alla fine del mondo” impedendoci di riconoscere l’unicità delle nostre esperienze: tutto affoga in una serialità coatta priva di qualsivoglia accensione.
Ed ecco, allora, che nel “diario” che, chiudendolo, dà titolo al volume, Paolo Puppa accatasta esperienze autentiche ancorché minimali (una passeggiata al mercato, la visione di uno spettacolo, una serata davanti alla tv, ecc.) per cercare lì dentro lo scampo al vuoto nel quale tutti quanti siamo precipitati. Confondendo il vero dal contraffatto, e per ciò stesso incapaci di cogliere il senso della metafora: tutto è squadernato su una galleria di schermi dove le immagini rimandano solo a se stesse. E invece l’io narrante de La fine del mondo: una vita in serie vorrebbe distinguere, vorrebbe non perdersi, vorrebbe annotare quel che c’era e non c’è più. Perché solo nel dar vita alla finzione (vissuta come tale, il teatro, insomma) c’è spazio per la realtà, in questo nostro mondo.
Dall’altro lato, invece, ci sono testi peculiari di una mente critica: creatività di “secondo livello”, applicata, come si dice in gergo. Nel senso che Puppa immagina sequel o spin off di grandi classici, da un Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello rivisto con gli occhi del Ragazzo a un delizioso apologo sul Mercante di Venezia di Shakespeare nel quale Lorenzo, giovane sposo di Jessica, la figlia di Shylock, rivela i difetti della ragazza che, invece, da fidanzata «sembrava innamorata come una fanciulla, pura, una bambina, quasi. Una ragazzina inesperta di tutto». Si tratta di giochi interni ai classici, illazioni tramite le quali lo studioso duetta ora con Pirandello ora con Shakespeare, trasformando una sua intuizione critica in un gioco scenico. E portando il lettore – anche quello digiuno di Jessica o dei Sei personaggi – in una dimensione fantastica dove tutto pare noto, riconoscibile.
E, in verità, il senso di questa raccolta è proprio nella contrapposizione tra i due “generi” che la compongono: non avrebbe senso lo svago moralista (nel senso alfieriano del termine) che cerca la realtà oltre la serialità, se di fronte, contrapposto, non ci fosse il gioco di chi l’unica realtà possibile la trova nella finzione.