A proposito di "Stato di insolvenza"
Parole del distacco
Il nuovo libro di Paolo Del Colle è un poemetto molto rigoroso che affronta il tema dell'impossibilità di pagare i propri debiti con la vita, con il passato e con il futuro, ambientato in una casa carica di memorie, di ombre, di presenze effimere, ingannevoli
Prima dei contenuti, credo che sia significativo lo stile di questo poemetto, Stato di insolvenza di Paolo Del Colle (Amos edizioni, collana diretta da Arnaldo Colasanti): soprattutto salta agli occhi l’assenza (quasi) totale di punteggiatura (una virgola o un punto e virgola ogni tanto), le parole tutte minuscole, nude, spogliate di qualunque enfatizzazione, gerarchizzazione, allo stato grezzo, minimale, come in un flusso di coscienza quotidiano, dimesso, interrotto dai cambi pagina, da pochi disegni stilizzati a carboncino, in bianco e nero, di Giuseppe Salvatori – una mosca, delle foglie su un ramo… – un monologo interiore in versi brevi, liberi, sciolti, ma disciplinati da una metrica serrata, per il gioco degli a capo, delle assonanze, (come qui: “nel frattempo/di quel che ancora penso/privo di intenzione”).
Ma sentiamo come comincia, in un tono dimesso, dicevo, quasi a bassa voce, come se entrassimo non visti in una casa che non conosciamo, e sentissimo bisbigliare nell’ombra, “cos’hai stasera/mia passata ombra/inquieta e deforme/sei capace d’ogni viltà che già fu mia/lo so vorresti morire/è quel che penso ancora…” – prelevo dalla prima sezione del poemetto, intitolata significativamente AL TERMINE, e ci parla subito del sentimento della fine, che la impregna; “per sfuggire alla tua anima/ che non ti abbandona/non avrai altra tregua/che questo buio ora/che spengo tutte le luci/camera dopo camera.”
Non abbiamo la forma mista del prosimetro – alternarsi di prose e poesie – che avevamo invece nel gemello Nuda proprietà (2018, vincitore del Premio Nazionale Frascati Poesia), il cui titolo rimandava, anch’esso, a una (macabra) definizione notarile, che sancisce la possibilità di vendere la propria casa a qualcuno che ne diventerà proprietario solo dopo la morte dell’inquilino che la abita. Lo “stato di insolvenza” è invece, l’incapacità, passata ma anche futura, di pagare i propri debiti. Quindi due condizioni di difetto, di inadempienza, verso la società, verso gli altri, appunto, che nei versi di Del Colle si allarga a una condizione umana esistenziale di esclusione, di paura (“paura della paura”), di colpa.
Ma chi è Paolo Del Colle? Gettiamo uno sguardo alla sua storia letteraria. Del Colle – classe ‘56 – è uno scrittore-poeta appartato e poco noto al grande pubblico, ma ha una schiera di critici-scrittori di valore che lo seguono in ogni sua prova e ragionano sulla sua poetica insieme alta, altissimae quotidiana, sulla sua arte letteraria, da diversi anni. Ne abbiamo trovate interessanti tracce sul web, in studi critici, recensioni e interviste. Qualche nome: Fabrizio Coscia, Daniela Matronola, Andrea Caterini, Giuseppe Lupo, Domenico Calcaterra, Giuseppe Munforte, Marco Lodoli ecc. Del Colle esordisce sul finire degli anni ‘80 con Gemme apicali (1988), – versi nati nell’orbita di alcune riviste romane – Prato pagano, Braci, – insieme a Beppe Salvia, Claudio Damiani, Valerio Magrelli, Gabriella Sica, Silvia Bre, lo stesso Arnaldo Colasanti, in veste di critico, altri della scuola romana ecc. – si muove subito in una zona di confine fra poesia e prosa; Matronola parla di “dualità compositiva” nella scrittura di Del Colle.
E poi scrive due importanti romanzi autobiografici, memoriali: La ragazza dell’Eur (2001), e più di dieci anni dopo, Spregamore (2014) due romanzi che raccontano con verità anche disturbante, anche scandalosa, in fondo lo stesso personaggio, Paolo, in momenti diversi della vita e anche con uno stile diverso: narrativamente più “aperto” e disteso, Le ragazza dell’Eur, narra di un quarantenne professore di Italiano e Storia in un istituto tecnico di Mostacciano, sofferente di forti malditesta, che vive con la vecchia madre, in una casa piena zeppa di libri, di dischi, frequentatore assiduo e ossessivo di puttane di diverse razze, che battono la notte sulla Cristoforo Colombo:
“Come impedire al corpo di correre lì, dove l’anima vorrebbe uscire per giudicare i gesti e le parole, costringendola invece a evaporare, a farsi piccola e liquida, un rigagnolo di pianto, una perdita di sangue, un muco appiccicoso, insomma un’incontinenza fastidiosa, che accelera la perdita di funzionalità delle vene, dei polmoni, dei reni?”
Spregamore (che è un quartiere vicino all’Eur, dove, in una casa sfitta che era di suo padre, Paolo ci porta oggi la puttana trans Clelia a passarci la notte con lui), è un lungo racconto in prima persona, claustrofobico, dolente, “ipnotico”, con pochissimo dialogo, pochissima azione, che procede per immagini, per “visioni”, che spesso riguardano la morte e il dolore (umano e animale): per esempio la struggente morte dell’amato cane; oppure quell’occhio aperto, sgranato, di suo padre, nella rianimazione di un ospedale…
“Quando in sala rianimazione mio padre ha riaperto solo un occhio ho capito che non era l’anima che stava morendo: o non era mai esistita o si era già separata dal corpo e questo dava a quello sguardo cattivo e immobile un’espressione di feroce e disperata voglia di vivere, come si fosse tolto un peso o un’inutile menzogna. La pupilla era pesante, dilatata, un proiettile inceppato che non poteva partire e gonfiava la palpebra come covasse un ascesso, sviluppasse una rabbia impotente e infetta.”
Il protagonista narrante è ancora Paolo, cinquantenne romano che ha mollato il lavoro per i suoi malditesta invalidanti e accudisce la madre morente, e insieme un gatto molto malato, in un appartamento malandato, tetro, maleodorante, registrando i progressi della malattia di entrambi, misurando la distanza dalla morte e osservando lo sfacelo che lo circonda con una certa distanza, come se si guardasse dal di fuori. Un uomo sofferente di violente emicranie, precedute dalla cosiddetta aura dell’emicrania, cioè una serie di sintomi che precedono gli attacchi, sonnolenza, difficoltà a parlare, lampi visivi ecc., e tale aura acquista nel libro un valore allegorico, che riguarda la creazione artistica, che Andrea Caterini spiega bene nella sua postfazione al volume, da lui stesso curato per Gaffi. “Si stringa l’attenzione su quell’«aura che anticipa il dolore» e che già era più volte nominata nelle Ragazze dell’Eur. Ora però, l’aura è diventata la chiave che Del Colle ci concede per entrare in questo suo nuovo romanzo – in questa totalità che continua a franare dentro un territorio tutto soggettivo. (…) quello spazio di vuoto in cui le visioni nascono donandoci uno sguardo che ce le possa restituire nell’espressione…”
Poi, due anni fa, esce Il cavallo di Aguirre (Castelvecchi, 2020) che raccontadi un incontro mai avvenuto con Werner Herzog, come recita il sottotitolo, – romanzo filosofico-lirico, di “andamento wagneriano” [Michele Lupo], costituito da una conversazione, al tavolino di un bar, con il grande e radicale cineasta tedesco, amato e perfino idolatrato da Del Colle, – ragionando a partire dalla sua «verità estatica», cioè quella verità che va oltre la verità semplice “perché trasformata dall’emergere delle componenti nascoste che le sono inerenti, la fantasia, la poesia, il mistero”. L’anello di congiunzione fra lo scrittore romano e il cinema di Herzog è rappresentato dagli animali, ampiamente presenti nella filmografia del cineasta-documentarista tedesco – mentre è nota la passione animalista di Del Colle (che si occupa attivamente di animali scomparsi per alcune associazioni di volontariato), gli capita anche di lanciare appelli accorati su Facebook. «La mia vita ha iniziato ad essere vera da una scena di un suo film: dallo sguardo del cavallo che si è allontanato dalla zattera di Aguirre – scrive l’autore mentre aspetta Herzog al bar –. Ho sempre sentito quello sguardo dietro di me, un commento muto dell’istante perfetto del fallimento». E ancora: «Gli animali in Herzog ci fanno capire quel che non siamo mai stati, cioè la nostra scomparsa (un anticipo o una attesa), un paradiso da sempre sulla terra che lo sguardo umano non può che distruggere».
Ricordo che Del Colle è tra gli autori inseriti in Braci, l’antologia di poeti contemporanei di Bompiani, e che ha pubblicato un libro di poesie a quattro mani con Edoardo Albinati, suo coetaneo e sodale, Mari e monti (1997).
Ma torniamo al poemetto Stato di insolvenza, la sua ultima fatica, da cui eravamo partiti, di cui vi propongo brevi stralci. L’ambientazione dominante è, si è detto, la casa (e per brevi momenti l’abitacolo dell’automobile e le sale d’attesa dell’ospedale), la casa di famiglia, carica di memorie, di ombre, di presenze effimere, ingannevoli, un guscio dove rintanarsi, dove misurare la propria “esclusione”, la paura, la distanza dalla fine, un guscio che racchiude le anime dei vivi che ancora la abitano e dei morti, dei morti che l’hanno abitata in altri tempi:
“conosci l’intento/che muove i sensi/verso una ragione/di perire/a lungo andare/la tua anima ha seguito/questa sorte /s’è fatta passione e poi/dolore, sgomento e infine pena di tirare avanti;/vuoi essere/ una stremata somiglianza e nient’altro? Ti basta questo/la scusa che in fondo/sei sempre lo stesso?”
La casa del poeta, quindi, dove il tempo, dopo la morte della madre da lui a lungo accudita, – un suo tema archetipico, in versi e in prosa, – il tempo dicevamo sembra essersi inceppato, “ è inutile dirti che non è cambiato nulla/nemmeno nell’armadio/o che era di nostra madre/la giacca celeste /che provi davanti allo specchio….”
Il poeta si rivolge all’amata sorella, Irene, che intitola la seconda sezione del poemetto, la sorella che è malata, molto malata, le tremano le mani che reggono la tazzina del caffè, viene dall’ospedale, dove ha ritirato delle analisi.
“e gli anni finiscono/perché sono sempre o troppi o pochi/al termine della solita visita/dipendono dal numero/degli asterischi delle analisi/dai valori fuori norma/per eccesso o per difetto/ti vedo uscire/forse ti hanno preso in tempo”
“se le ombre di chi ha vegliato accanto al letto/ti incutono paura e non amore… questa paura della paura/ che ti stringe sarà una fitta lancinante/di un dolore vano…”
Slittamenti, somiglianze, sdoppiamenti che ingannano, che confondono: “forse hai solo dimenticato il volto/ come cambia nel tempo/ e diventi un’altra persona/ abbiamo troppi corpi/ che ci lasciano o mutano…
“Sul battente della porta /che adesso mi accorgo/ si trova più in alto/ della tua testa /e m’illude tutto torni /a quel che siamo stati…
poco come il tempo / che non sai / quanto resti ancora /a tua disposizione/ non appoggiarti al muro /zoppica se vuoi /proseguire /ogni luce è incerta/”
Mi hanno colpito molto un paio di affermazioni di Paolo Del Colle in un’intervista assai bella di Vincenzo Mazzaccaro, che ho trovato sul web, che secondo me dicono tanto della sua poetica e della sua figura di scrittore ossessivo, rigoroso, solitario.
“Credo di essere un giudice abbastanza severo di me stesso.” Questa è la prima.
E ancora, sul senso di colpa di cui è satura tutta la sua opera: “Da sempre sento di non aver dato alla vita, alle persone, ai miei amati animali, quello che dovevo e non potrò mai più dare.”
“niente si giustifica /anche la notte ancora vicina/è una probabilità fra le altre /e non sembra più necessaria / di quanto si intravede/a un momento all’altro /e allora tanto vale /urlare che nulla è simile/a questo dolore nemmeno/ fosse tutto ciò che inizia/nuovamente ad agitare il mondo”
La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini