Loretto Rafanelli
“Le case dai tetti rossi” di Alessandro Moscè

Autobiografia tra i “matti” di Ancona

Un toccante romanzo intimo e di testimonianza in cui il poeta racconta momenti della sua infanzia trascorsa dai nonni, di fronte al manicomio del capoluogo marchigiano, prima che la legge Basaglia modificasse la condizione dei malati psichici

Alessandro Moscè nel romanzo, Le case dai tetti rossi, edito da Fandango, scrive di un luogo di grande sofferenza: il manicomio di Ancona, struttura che stava proprio dirimpetto alla abitazione degli amati nonni, da lui frequentata quando era piccolo nei periodi estivi. Il romanzo di Moscè ci riporta ad anni difficili che ancora turbano, perché fa ripensare ai momenti della reclusione dei malati psichici, che, come si sa, a volte malati non erano e alle “cure” che erano solo coercizioni e violenze. Sappiamo della vasta letteratura, della vasta saggistica sull’argomento, a iniziare dal libro di Foucault, con quel suo denunciare lo stato storico di segregazione di coloro che erano considerati folli, che era in definitiva pura disumanità, e ricordiamo la sua famosa frase che raccontava una atroce verità: «il folle non era alienato prima di essere rinchiuso, ma lo diventava dopo». Qualsiasi nuovo intervento su questo tema delicato e spinoso è quindi benvenuto, al fine di fare conoscere una realtà non molto lontana da noi. Ma Le case dai tetti rossi, ha qualcosa di particolare rispetto ad altri scritti, essendo la testimonianza di un adulto-bambino, nel senso che è la memoria di Moscè bambino di fronte a questo precipizio umano. Vi ritroviamo la pena di una visione amara, seppure allora appena intuita, e la freschezza unica dello sguardo fanciullesco, perché l’autore mantiene questo stato d’animo, pur essendo lontano da quegli anni. 

Siamo di fronte a un romanzo che emoziona, in cui sono evidenti l’appassionata partecipazione e l’amore che l’autore dedica a una comunità dolente ed emarginata, confinata nei passaggi oscuri di tanti giorni, di tanti anni in cui questi esseri prostrati e vinti, vivevano senza speranze e affetti. Ma il romanzo è anche la storia di una rinascita, di un riscatto umano e civile, perché quei luoghi infine divennero reali centri di recupero, prima che venissero definitivamente chiusi. La narrazione si snoda con grazia e suscita una forte condivisione emotiva. Moscè è poeta di valore e la sua scrittura non poteva che essere ricca e profonda, e benedetta da una delicata armonia. Ma anche misurata, vigilata, mai debordante in inutili ondulazioni liriche, come a volte capita nei romanzi dei poeti-narratori. L’autore peraltro ha approfondito il discorso sulla malattia mentale, evidenziando una sicura conoscenza della materia, compreso tutto ciò che la legge Basaglia ha introdotto, con la sua “rivoluzionaria” attenzione umana e sociale verso il malato di mente, o quello considerato tale. Moscè ci è così apparso un esperto di questa branca della medicina, e se non sapessimo dei suoi studi giuridici, potremmo pensare che abbia avuto a che fare, professionalmente, con la psichiatria e con i relativi trattamenti. Il romanzo è infatti anche uno sguardo niente affatto superficiale sull’atroce “cura” dei malati, prima del “metodo” Basaglia, che aveva un ‘avamposto’ ad Ancona. 

L’autore ci accompagna nella vita dei tanti malati che vivevano in quel manicomio (continuo a chiamarlo così, perché così veniva chiamato e perché con quel nome si confrontava l’immaginario collettivo), e pare essere l’occhio attento che attraversa la loro vita, le loro ansie, le loro ossessioni. Non a caso, a proposito di questo occhio umano e compassionevole, forse il vero protagonista (oltre allo stesso autore, che sorvola come l’angelo di Wenders, tra pietà e attesa di una stagione migliore), c’è la bellissima figura di Arduino, il giardiniere tutto fare che nel tempo accompagna la trasformazione della struttura chiusa e simil-carceraria, in struttura aperta dove vengono sviluppate varie iniziative, dalla cura delle piante, all’attività artistica. Questo giardiniere sarà colui che diventerà non solo collaboratore del professor Lazzari, l’illuminato direttore, ma una specie di meta-psichiatra, perché da semplice addetto al verde, saprà coinvolgere i malati e li aiuterà nel loro percorso di rinascita. Questa associazione mediata dal mondo dei fiori e degli alberi, appare senz’altro preziosa: si curano le piante e i fiori, perché possano sbocciare, crescere e dare i loro profumi, i loro frutti; così come si può fare con le persone che, finalmente trattate come esseri umani, potranno conoscere un nuovo senso del vivere. L’autore pone anche attenzione a quello stato di incertezza che i malati manifestano alla vigilia della chiusura dei manicomi, rappresentando quella struttura un sicuro rifugio per chi fuori non aveva nulla, né casa, né lavoro, né famiglia: il ‘dopo’ creava dubbi rispetto alle istanze innovative pensate dallo stesso Basaglia. 

Se la questione della malattia mentale, con la relativa storia del manicomio di Ancona, è il tema principale del libro, vorremmo tuttavia dire che il romanzo di Alessandro Moscè non è solo questo. Ci sono pagine molto belle che riguardano la giovane vita dell’autore, sulla sua storia di bambino che vive una fase formativa piena di curiosità e di scoperte, di ansie e di gioie, specie attraverso l’affetto dei nonni, Altera e Ernesto. E sono anche gli anni colmi di stupore per mille cose viste e assaporate in quegli spazi anconetani, siano essi le case dai tetti rossi, cioè il manicomio, ma pure i vicoli e le piazze e il mare di una città amata. Poi le prime conoscenze, le prime amicizie, e quello scoprire il senso della vita degli adulti, specie di quelli più sfortunati. E soprattutto c’è l’amicizia con il figlio di Arduino, Luca, compagno di scorribande segrete nel manicomio, di mille giochi, di contese calcistiche. Una amicizia che non può finire. Infatti in un colpo di scena finale che l’autore riserva, ecco l’incontro dopo tanti anni tra i due. Siamo nel manicomio dismesso, in quel luogo trasformato in altre cose, dove ormai si racconta quella storia solo attraverso i ricordi dell’autore o leggendo gli elenchi dei malati, scartoffie ancora disponibili e visibili riposte in qualche armadio, che rendono possibile una fedele ricostruzione e una sostanza alla narrazione. 

L’incontro tra i due è una epifania, è il ricongiungersi della storia dell’autore con la propria infanzia, è il battere della vita che riserva la gioia della memoria e la profondità di una amicizia. Alessandro e Luca, divenuto psichiatra, quasi in continuazione con la professione “segreta” del padre, in un atto liberatorio dopo un affettuoso abbraccio, giocano a pallone nel campetto della loro infanzia, una gioiosa riconquista degli spazi felici di tanti momenti lontani, mentre pare che i tanti personaggi narrati dall’autore (Adele, Carlo, Franca, Nazzareno, Marta, ecc.), siano lì a guardare, a tifare, a urlare, a cantare. Non segue la partita invece Arduino, continua a curare le sue piante, i suoi fiori. Ha molto da fare il giardiniere, non si perde con nulla, deve dare splendore al giardino, vuole che la serena luminosità che risplende nello spazio verde sia incisa negli occhi degli amati matti che lo circondano.

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