“Lee Miller-Man Ray” a Palazzo Franchetti
Profetica Lee Miller
Una mostra a Venezia racconta il rapporto tra il celebre artista e la sua musa. Icona del surrealismo, scelse l’indipendenza per intraprendere un percorso artistico che ha inciso nella storia della fotografia e continua a influenzare i contemporanei
Lee Miller sarebbe ancora oggi una donna fuori dal comune, inquieta e insofferente a qualsiasi forma di routine, convenzione e costrizione. Una donna che, per usare le sue stesse parole ha conosciuto «fin da bambina tutto il dolore del mondo» – l’abuso subìto a soli 7 anni, la drammatica esperienza della guerra come fotoreporter, il traumatico ingresso a Dachau con le truppe di liberazione, il peso della terribile responsabilità di essere testimone di quegli orrori per il mondo, «credetemi, è tutto vero!» – e che di questo dolore, di questa fragilità ha fatto la sua forza misteriosa, sentendosi veramente viva solo nel momento in cui raggiungeva il confine estremo nella sfida dei propri limiti. Lee Miller ha percorso la sua vita come si attraversa uno di quegli antichi palazzi le cui stanze si susseguono una di fila all’altra, e ogni nuova porta poteva essere aperta solo chiudendo la precedente in modo inesorabile e definitivo dietro di sé, portando di stanza in stanza solo, come una sorta di rassicurante eredità, pochi intimi amici e il padre Theodore.
Elisabeth Miller nasce il 23 aprile del 1907 a Poughkeepsie, cittadina nello stato di New York, da famiglia borghese dalla manifesta modernità. Il padre Theodore, ingegnere appassionato dalle nuove tecnologie amava sperimentare la nascente arte della fotografia ritraendo in modo quasi ossessivo la secondogenita Li-Li in tutte le fasi della sua vita, in pose insolite e poco tradizionali. Theodore non trascurò, però, di insegnare l’uso e la pratica della fotografia a tutti e tre i suoi figli, così Li-Li crebbe abituandosi a stare sia da una parte che dall’altra dell’obiettivo. L’accidentale incontro a Manhattan con Condé Nast, editore di Vanity Fair e di Vogue, le valse, a soli 19 anni, il primo contratto come fotomodella. Nel 1929 si trasferì a Parigi per incontrare l’allora già famoso artista e fotografo Man Ray e diventarne l’allieva. Man Ray la elesse sua modella e musa e Lee, ancora una volta, si ritrovò dall’una e l’altra parte dell’obiettivo. In qualità di allieva e sua collaboratrice, Lee Miller intraprese con Ray diversi progetti e infine anche un suo autonomo percorso come fotografa (proprio in questi giorni si è inaugurata a Venezia, a Palazzo Franchetti, la mostra Lee Miller-Man Ray. Fashion, Love, War, catalogo Skira, che resterà aperta fino al 10 aprile 2023). La relazione di musa amante e collaboratrice di Man Ray, uno dei maggiori esponenti delle allora nascenti avanguardie artistiche, le permise di entrare nel fantastico mondo dei surrealisti e godere delle amicizie di artisti quali il poeta regista e sceneggiatore Jean Cocteau, il pittore e scultore Max Ernst e Pablo Picasso con il quale ebbe una amicizia profonda, artistica e filiale fino alla di lui morte.
«Preferisco fare una fotografia, che essere una fotografia», così Lee Miller dopo tre anni di convivenza e di connubio artistico e creativo, si svincolò dalla stretta di Man Ray, uomo difficile e geloso che mal sopportava le donne indipendenti, e fu fotografa di moda per Vogue, moglie inquieta e trasgressiva del facoltoso uomo d’affari egiziano Aziz Eloui Bey, viaggiatrice un po’ bohémienne e un po’ hippy con la sua compagnia di artisti surrealisti, corrispondente di guerra per Vogue, moglie di Lord Roland Penrose, artista collezionista e promotore d’arte, madre anaffettiva di Antony Penrose, splendida cuoca e padrona di casa per i suoi amici nella tenuta di Farley Farm House nell’East Sussex, dove si ritirò con Roland Penrose due anni dopo la nascita del figlio, donna in lotta contro i fantasmi della guerra e della depressione.
Ma delle tante sue vite, voglio soffermarmi sugli effetti di quel suo primo periodo parigino, dal ’29 al ’32 anno in cui fece ritorno a New York, durante il quale Lee Miller delineò la sua personalità di fotografa indipendente, formatasi tra lo stringente legame con Ray e il fascino delle nuove ideologie artistiche e filosofiche che così bene vestivano il suo spirito libero e scalpitante. Lee seppe infatti interiorizzare e reinterpretare il Surrealismo in una lettura innovativa e inusuale di quella realtà che andava via via incontrando. Una interpretazione nella quale noi oggi, tempestati da miliardi di immagini e luoghi comuni, cresciuti con un carico di informazioni che diamo per scontate, delle quali non conosciamo la forma, la storia, l’origine, informazioni che a volte conserviamo e usiamo senza nemmeno esserne a conoscenza, non riconosciamo più lo spirito surrealista che la sottende.
Il manifesto del Surrealismo, avanguardia artistica e letteraria nata negli anni Venti del Novecento, recita: «Automatismo psichico puro, attraverso il quale ci si propone di esprimere, con le parole o la scrittura o in altro modo, il reale funzionamento del pensiero. Comando del pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica e morale» (André Breton, Manifesto del Surrealismo, 1924). Un processo automatico, quindi, in cui la parte di noi che emerge durante i sogni, ovvero l’inconscio, affiora anche quando siamo svegli, permettendoci di associare pensieri, parole e immagini senza freni inibitori e senza scopi predefiniti. Partendo da ciò e liberandoci dai preconcetti ai quali, nostro malgrado, siamo assoggettati per essere all’estremo opposto di una curva lunga un secolo di evoluzioni sociali filosofiche artistiche tecnologiche e politiche, le immagini di Lee Miller emergono in tutto il loro prepotente surrealismo, ossia una lettura della realtà fatta attraverso metafore ironie e paradossi visivi, ma alla ricerca di quella bellezza che, nascosta nel quotidiano logoro e talvolta degradato, sorprende inaspettata. Questo modo di osservare il mondo porta la visione onirica e disorientante del Surrealismo, cui è convenzionalmente abituato chi non si addentra in studi specifici e di settore, quella ad esempio di Dalì, di Man Ray o del nostro De Chirico, a vivere dentro le immagini della quotidianità.
Pensiamo a certi paradossi visivi elaborati da Lee Miller come lo scatto in cui un Max Ernst gigante minaccia con un pugno a braccio teso una piccola Dorothea Tanning che dal basso cerca di ripararsi con il braccio. Un ardito gioco di prospettiva che restituisce allo spettatore una situazione irreale e paradossale che oltre 70 anni di arte e fotografia surrealista ci hanno reso familiare. Così il ritratto di Charlie Chaplin che regge sulla fronte un pesante lampadario. La sorprendente grazia della silhouette della soprano Irmgard Seefried che canta la Madama Butterfly tra le rovine del bombardato Teatro dell’Opera di Vienna, immagine dalla potente forza simbolica di raffinata bellezza. E ancora il famoso Portrait of Space, la ricerca dello spazio attraverso una zanzariera squarciata nel centro, i lembi lacerati e cadenti si aprono verso l’oltre, il deserto che sembra un mare appena mosso, il cielo attraversato da una nube a forma d’uccello la cui testa è visibile attraverso la zanzariera. Sopra la cima dello squarcio una piccola cornice storta inquadra il cielo, delineando e limitando lo spazio uniforme del cielo e un lembo appena accennato della nuvola-uccello. Un’immagine in apparenza casuale ma che è stata in realtà cercata, costruita e voluta in ogni dettaglio, che ci riporta agli studi dei maestri concettualisti a noi più contemporanei. Un’immagine che negli anni a venire sarà declinata in molteplici forme in modo più o meno consapevole da centinaia di fotografi di ogni ordine e grado. Così come nulla è lasciato al caso nella celeberrima The Hitler Bath, istantanea effettuata da David Sherman, corrispondente di guerra di Life, suo amico collega e amante, di cui lei è non solo attrice ma anche sceneggiatrice e regista. Un bagno ordinario, un tappetino bianco sporcato dagli anfibi infangati, una anonima statuetta in stile neoclassico sulla destra dello spettatore, la fotografia del Führer, nemico delle avanguardie, sulla sinistra, appoggiata al muro sul bordo della vasca. E Lee nuda, immersa nell’acqua, si insapona volgendo lo sguardo verso il lato opposto: «dentro la sua vasca, ho lavato via lo sporco di Dachau», ironica, sfrontata, paradossale e amara come solo lei ha saputo essere.
Lee e la sua intelligenza arguta non potevano prevedere quanto realmente stessero incidendo nella storia della fotografia e dell’immagine, né la portata che sue scelte visive avrebbero avuto sulla produzione futura, al punto da potere affermare che gran parte della fotografia odierna e a noi contemporanea, dai grandi maestri della ricerca metafisica e concettuale ai piccoli fotografi ricercatori professionisti o dilettanti, fino all’ignaro e un po’ arrogante popolo di Instagram & Co, è debitrice a Lee Miller, al suo sguardo intelligente e ironico, sorprendente e anticonvenzionale sulla realtà.
L’immagine vicino al titolo è di George Hoyningen-Huene, “Lee Miller and Agneta Fisher”, Vogue
1932 © George Hoyningen-Huene Estate Archives