Al Museo Goethe di Roma
Viaggio in Italia
Una piccola mostra mette a confronto quattro artisti italiani e quattro tedeschi: Francesco Arena, Guido Casaretto, Johanna Diehl, Esra Ersen, Silvia Giambrone, Benedikt Hipp, Christian Jankowski, Alessandro Piangiamore. Un modo per rinnovare il mito del "Viaggio in Italia"
Quattro artisti italiani a confronto con quattro artisti tedeschi più o meno della stessa generazione. In nome del viaggio in Italia, che dovrebbe accomunarli, ma diventa solo un pretesto per affrontare il tema più generale del viaggio, come percorso spaesante verso le derive e gli approdi della creatività occidentale del XXI secolo. Non se la prendano a male gli inventori di questa mostra e di questo titolo che la racchiude. Il nuovo direttore del museo Goethe di Roma, Gregor H. Lersh, che la ospita fino al 9 aprile, nelle sale di via del Corso 18, come manifesto d’intenti della sua gestione. E il curatore scelto per l’occasione, Ludovico Pratesi, critico romano di lungo corso. Ma a me sembra che la confezione di questa rassegna sia un ponte di dialogo troppo fragile per reggere il peso delle ambizioni che vi si riversano e delle argomentazioni che la sostengono. Che i limiti dello spazio, il ristretto numero di partecipanti, e il copione, che comunque rimanda ad una sfida tra due paesi fraternamente e sportivamente rivali, dia più corpo all’idea di una partitella di calcio, di quelle che su un campetto inventato mettono di fronte due squadre a ranghi ridotti. E garantisce comunque spettacolo intrigante per le giocate dei singoli. Anche se poi a far risultato concorrerà il modo con cui le squadre sono state costruite.
Sicuramente più amalgamata la rappresentativa tedesca. Che il tema del viaggio in Italia lo ha sperimentato e metabolizzato davvero. Tutti e quattro gli autori in esposizione hanno soggiornato come borsisti a Roma e poi attraversato l’Italia ognuno con il proprio sguardo e il proprio bagaglio linguistico, cogliendo ed elaborando incontri, schegge di visioni, stimoli e spunti di ispirazione sui quali hanno impostato i propri lavori.
A partire dai due fotografi del cast. Esra Ersen, 52 anni, turca emigrata a Berlino, ha cercato di catturare il dramma dei migranti costretti ad arrangiarsi per sopravvivere nel nostro paese che a volte li rifiuta , sempre li ignora, identificandone e inquadrandone con sguardo minimalista le tracce in quei mucchietti di spazzatura che molti di loro rastrellavano sui marciapiedi nella Roma svuotata dal Covid arresa alla propria sporcizia, lasciando un piattino davanti al loro lavoro perché i passanti potessero lasciarci l’elemosina di una ricompensa. Ogni foto schiacciata sullo spettacolo di un mucchietto diverso, a frugare senso e racconto, commozione e domande, tra i rifiuti che gli abitanti di quel pezzo di città, ammalati di distrazione, menefreghismo, inefficienza, egocentrico benessere, si lasciavano alle spalle.
Difficile afferrare il filo del raffronto con il quale Ludovico Pratesi nella stessa sala, la prima, ha cucito queste scene di realtà senza sconti con la pretenziosa istallazione di Francesco Arena ,48 anni, brindisino, scultore eletto dalla critica trendy, come un caposcuola concettuale da esportazione. Una serie di mattoni sbilenchi fusi in un bronzo che simula la povertà dell’argilla, sui quali ha inciso in italiano ed inglese le brevi descrizioni di paesaggi che viaggiando si è trovato di fronte. Schegge di commenti qualunque che tentano di rubare autorevolezza di souvenir al linguaggio coinciso della poesia e impatto al loro aspetto di false pietre di inciampo. Non c’era davvero di meglio da schierare in campo?
Con Roma, l’Italia e i curiosi tragitti con cui la memoria scavalca le cadute e gli ammonimenti della Storia si misura invece la seconda fotografa Johanna Diehl, 45 anni, nata ad Amburgo e residente a Berlino. Firma un corposo siparietto di 18 immagini, svuotate di presenza umana, che mescolano il fascino metafisico delle architetture razionali e squadrate delle piazze e dei borghi costruiti nel ventennio fascista con i relitti retorici dell’arredo e della pittura di regime. La foto che più mi ha colpito? È un grottesco altarino scovato in un ufficio, escluso ai visitatori, della casa madre dei Mutilati a Roma: un affresco del Duce a cavallo, la testa amputata dall’inquadratura, che svetta a incastonare un luccicante vaso smaltato. A fargli da contrappunto nella stessa sala è un altro teatrino di parole allestito da Silvia Giambrone, 42 anni, agrigentina trapiantata a Roma, che indaga da anni il martirio del corpo femminile con stile conciso e intimista. È una sequenza di frasi, impaginate in altrettanti quadretti insieme a fustelli di medicinali, con cui evoca la voce e ripercorre la storia di una sua amica tossica e il suo tentativo di liberarsi dalla schiavitù della droga, culminato con la resa di un suicidio. L’apparenza è un po’ algida, richiede complicità, ma le parole trasmettono l’intensità del dolore e non simulano fughe poetiche. Nella metafora della partitella di calcio affiora il dubbio di una giocatrice dai piedi buoni, che però tiene troppo la palla. E non vede la porta come la sua antagonista tedesca.
Il punto debole della formazione del Goethe è nell’ultima sala. Un corto filmato da Christian Jankowsky, 54 anni, che sciupa con un eccesso di mossette e luoghi comuni di prevedibile ironia, una intrigante idea di partenza: un casting per un Cristo da cartolina affidato ad una giuria di autentici esperti della Curia vaticana che si sono prestati al gioco. Giusto dar posto in questa rilettura della Roma di oggi anche ai fantasmi del potere ecclesiastico che ancora governano la capitale, Ma scimmiottare Fellini non basta a fare arte, neppure per riderci su. Offrono più dribling di fantasia, estro e leggerezza i quadri di Alessandro Piangiamore, che gli fanno da controcanto sulla parete di fronte: il passaggio di uno stormo di uccelli suggerito da un volo di piume che galleggiano nell’aria contro uno sfondo scuro. Peccato quel sapore di già visto: un effetto che ci aveva incantato dieci anni fa in alcuni pannelli cellofanati di Alfredo Pirri.
Come tutte le piccole mostre, anche questa partitella del Goethe ci regala comunque due gioielli a sorpresa, raccolti nella sala di mezzo. I più intonati alla sfida proiettata nel Terzo Millennio che era alla base della rassegna. Il primo è lo splendido filmato di Guido Casaretto, un italiano quarantunenne nato e residente a Istambul, secolare terra d’incontro tra la cultura e la storia di Occidente e Oriente. Una lenta processione di personaggi che attraversa l’arido deserto di un lago salato prosciugato nel cuore dell’Anatolia. Indossano tutti delle maschere di rozza e stupefacente fattura. Maschere prese in prestito alla tradizione secolare dei Mamuthones sardi, che evocano i riti del Carnevale romano cui Goethe, nume tutelare di questo museo, ha dedicato le pagine più belle del suo diario di viaggiatore in Italia. Ma sotto quei camuffamenti arcaici lo zoom ci svela anche i volti. E il loro colore. Facce di viaggiatori venuti dall’Africa, come gli antenati che imposero migrando la supremazia dell’homo sapiens. E le espressioni. Di determinazione, incertezza, paura.
Di fronte, invece, un quadro di Benedikt Hipp (accanto al titolo) che cerca di spostare le frontiere di un nuovo modo di rileggere la figura umana. Ritrae l’allaccio frantumato di due corpi. La deformazione degli arti, che galleggiano in quell’abbraccio. Ma anche la incredibile trasparenza di riflessi di un ginocchio, a incarnare il mito di una bellezza estranea ma a fior di pelle che sembra non conoscere tramonto.
La partita decisa dal pareggio di due centravanti.