Periscopio (globale)
Manganelli in viaggio
Per il centenario della nascita di Giorgio Manganelli impazzano le consuete dispute fra tifosi: chi lo mitizza e chi lo detesta. Forse, più dei "romanzi" (le virgolette sono d'obbligo) vale la pena rileggere le sue cronache di viaggio
Qualche mese fa, uno dei nostri migliori critici-stroncatori, Matteo Marchesini, ha inaugurato a suo modo le paventate celebrazioni ufficiali del centenario della nascita di Giorgio Manganelli (15 novembre 1922, a Milano) prendendosela, non senza qualche buona ragione, con le “sette di goliardi” o idolatri del “Manga” e stigmatizzando anche en passant la stolidità dell’uso di questo diminutivo-vezzeggiativo che nulla vezzeggia né diminuisce. Non se ne può ovviamente essere sicuri, ma si ha il forte sospetto che, di fronte alle imbarazzanti e sperticate lodi che cominciano a essere esternate a scopi, appunto, celebrativi dagli adepti del culto manganelliano, lo stesso scrittore omaggiato sarebbe rimasto spiazzato o avrebbe reagito con una smorfia ironica; pur con tutti i limiti di quella che Marchesini chiama con un eccesso di severità “Menzogna Retorica pseudosecentesca” comprensiva di “artifici letterari (…) pedanteschi e stucchevoli”, il Nostro, che ricordava sempre di abitare all’interno 8 di via Chinotto 8, non difettava infatti di una sottile e fumigante ironia. E l’ironia, si sa, tende a farci dichiarare estranei a qualunque culto.
Può, Manganelli, piacere molto e non piacere affatto, entusiasmare e lasciare più che freddi, e non semplicemente per una questione di gusti, ma in base all’idea che ciascuno di noi ha o si è fatto dell’esercizio letterario; ma se c’è una cosa che davvero non merita è la mezza misura, l’indifferenza di un piatto consenso, il rilancio periodico delle quotazioni su aste culturali sempre meno trasparenti, la celebrazione acritica e un po’ ipocrita perché avviene quando lui stesso non se ne può più difendere. Il che, per uno che ha praticato a sua volta anche la sottile e talora satirica arte della recensione – e della stroncatura: si ricordi la famosa polemica con Guido Almansi in cui riesce a liquidare Moravia, che a priori non c’entrava nulla, con feroce eleganza –, è una specie d’insopportabile contrappasso.
A me, per esempio (e in questo concordo pienamente con Marchesini), piace molto di più il Manganelli giornalista, corsivista, corrispondente di viaggio malgré lui, costretto dunque a scrivere per un giornale con tutti i limiti impliciti ed espliciti che ne derivano, del Manganelli libero narratore (se davvero, in assenza di trama e sviluppo, personaggi e financo autore, alla narrativa i suoi libri possono essere ascritti). Mi sento insomma più distante dal Manganelli, per capirci, metafisico e barocco, autore, come la definiva lui stesso, di una pseudoteologia, di trattatelli ironico-angosciosi e paradossali dove pure (lo ammetto) non mancano momenti e spunti di gran pregio. È qui che si trovano, me ne rendo ben conto, una dovizia di invenzioni visionarie, definizioni icastiche e spumeggianti, giochi linguistici avanzatissimi e tesi a porre in luce l’aspetto demoniaco e sommerso del linguaggio, una swiftiana propensione all’iperbole e all’eccesso, giudizi taglienti e dalla misura perfetta, ispirati, come si è detto, a un allegro (e, aggiungerei, anarchico) vandalismo. Si prenda una definizione della letteratura come la seguente, tratta dal Discorso dell’ombra e dello stemma: “La letteratura è inutile. La letteratura è indispensabile. Si può vivere senza letteratura, purché si sia già morti.” O ancora, nello stesso libro, questo appunto di tecnica narrativa, a cui Manganelli si è peraltro attenuto sempre con grande coerenza: “Dunque: non raccontare una storia. Divagare. (…) Il problema del divagare è al fondo di tutti i tentativi di romanzare in modo non antropomorfico – sia Sterne che Joyce.” La sua è infatti una narrativa sempre periferica, menzognera, digressiva, ludica, la quale gira attorno a un centro che non c’è. E infatti, in una delle interviste impossibili raccolte in A e B, quella a Dickens, fa esclamare a quest’ultimo che “nulla è più sincero della falsità”. Eppure, per i miei gusti, nelle sue opere principali o presunte tali, da Hilarotragoedia a Nuovo commento, da Agli dèi ulteriori a Sconclusione, da Amore a Dall’inferno, c’è anche un qualcosa di troppo insistito, di volutamente ampolloso, di ossessivo, anche e soprattutto sul piano lessicale, che talora disturba e perfino annoia, che spinge il lettore al limite della sopportazione.
Mentre poi le medesime caratteristiche della sua scrittura le ritroviamo, ma in qualche modo sublimate e meno insistite, e quindi più divertenti e seduttive, in lavori che per me non sono affatto minori: come la riscrittura del Morgante o Pinocchio: un libro parallelo o ancora Laboriose inezie, per non parlare dei saggi de La letteratura come menzogna (primo fra tutti, e non è casuale, quello sulla letteratura fantastica) o delle micronarrazioni di Centuria, dove Manganelli riesce a non far debordare troppo il proprio insopprimibile manierismo. Si noti fra l’altro che Centuria è stato uno dei maggiori successi di uno scrittore che a stento arrivava a vendere tremila copie (i lettori forti italiani essendo negli anni sempre gli stessi, ahinoi). Sempre a proposito di questo libro, e tanto per rendere omaggio divagando al maestro delle digressioni – forse anzi di Manganelli si dovrebbe scrivere solo divagando, appunto, e perdendosi nell’intrico dei propri ragionamenti –, voglio divertirmi a ricordare che tra le brevi prose scartate da Manganelli al momento di costruire questo libro ce n’è una molto interessante, riportata ora in appendice al volume, che potrebbe fornire addirittura una prova originale dell’esistenza di Dio. Scrive Manganelli a proposito del suo momentaneo protagonista, come quasi sempre un anonimo individuo di mezz’età: “…in realtà egli è un patito delle tragedie e il fatto che nella sua vita non sia mai accaduto nulla, eccetto i soliti decessi, matrimoni o traslochi di amici, lo umilia profondamente. Secondo lui, Dio lo trascura, o lo sottovaluta, probabilmente solo perché non è bene informato, o magari perché non esiste, sebbene quest’ultima gli sembri una mediocre scusa, perché quando uno è Dio, potrebbe pure esistere.” Semplice, no? E molto più efficace di certe lambiccate evidenze teologiche. Non dimentichiamo inoltre, sempre divagando, che è proprio al momento di presentare le tenere e strazianti parabole di Centuria che Manganelli se n’è uscito in un’intervista con la sua prodigiosa definizione del romanzo: “Quaranta righe più due metri cubi di aria.”
E ci sono poi libri come (in ordine di pubblicazione) Cina e altri Orienti, Esperimento con l’India, L’infinita trama di Allah, La favola pitagorica, che è poi un viaggio in Italia, L’isola pianeta, dedicato invece all’Europa settentrionale, Viaggio in Africa e così via – non li elencherò tutti, per questo c’è Wikipedia, e la produzione del Nostro è stata davvero sterminata –, dove il Manganelli scrittore si fonde con un Manganelli viaggiatore dapprima incerto e riluttante, ma poi sempre più coinvolto da un’irrequietudine che lo affanna e lo esalta al tempo stesso. Colui che considerava poco meno che un’ordalia spostarsi con il 60 da Via Nomentana a Piazza S. Silvestro si lascia man mano convincere a visitare un po’ tutto il mondo, dando giustamente la priorità al viaggio in sé, ai suoi preparativi e alle aspettative che suscita, piuttosto che alla destinazione o ai capolavori architettonici che gli capiterà di visitare. Uno che era sfuggito a fatica – secondo le ben note vicissitudini biografiche – a una madre anaffettiva e detestata, a un matrimonio insoddisfacente, alle ansie della paternità, perfino ai tormenti dell’amore passionale, prende ora il largo, e non per dileguarsi, stavolta, ma forse per ritrovarsi, scoprendo che l’uomo è in fondo un “animale viaggiante” e che a questa sua vocazione non può proprio sottrarsi.
Manganelli è una specie di fotografo a occhi chiusi, un vero maestro nel veicolare al lettore un’immagine che si forma nella sua mente prima ancora di presentarglisi nella realtà. È in grado di comprendere e interpretare i luoghi per il tramite d’illuminazioni folgoranti, che non si spiegano unicamente con l’indubbia preparazione culturale o l’immaginifica abilità di costruire un discorso. Si muove per le strade del mondo con un’impagabile quanto recitata ingenuità e tende al mondo stesso dei trabocchetti che lo fanno cadere nella sua rete, permettendogli dei veri e propri anti-reportage, in cui i posti e coloro che li abitano si fondono in un’organica e indebita descrizione (o decifrazione?) di taglio più fantastico che documentaristico, eppure incredibilmente precisa e seducente. Si veda a mo’ d’esempio il descensus ad inferos che innerva tutto l’Esperimento con l’India, facendo scorrere in parallelo la scoperta di quel paese con la ricognizione delle proprie angosce; laddove sono forse proprio queste ultime a fornirgli gli strumenti ermeneutici adatti a impadronirsi delle suggestioni, letterarie (Siddharta, ma anche Isherwood o Huxley) e non, legate alla rivelazione di un locus così spiazzante. Sostenuti come sono dalla maestria linguistica, i suoi contributi vanno a costituire una letteratura odeporica di un livello stilistico pressoché inarrivabile, con un linguaggio ardimentoso che non scansa termini obsoleti e l’uso di figure retoriche (ossimori, litoti, anafore, omoteleuti ecc.), ma mantiene ugualmente un’ammirevole chiarezza e precisione di fondo, adeguandosi senza cedimenti alle esigenze del discorso giornalistico e anzi rivitalizzandolo.
Forse il suo concetto del viaggio e del viaggiare lo ritroviamo al meglio in una delle famose interviste impossibili raccolte in A e B, quella a Marco Polo: con un colpo d’ala Manganelli immagina che nell’intervista s’insinui a un certo punto Ulisse, al quale attribuisce questa dichiarazione: “Vede, la vita di uno che viaggia, sempre fisso l’occhio della mente al ricordo, è uno strano vivere, di gioia dilazionata e alla fine delusa: perché quando si ritorna, come che sia, la delusione è fatale: proprio nel senso che è voluta dal fato.” Delusione fatale che però non si prova al momento e lungo tutto il corso del viaggio mentale, quando l’io del viaggiatore “irrequieto, frastornato, tremulo e affannato” (com’è descritto in Cina e altri orienti) si smarrisce e si ricompone al contatto con ciò che lo perturba. In altre parole, con l’alterità.