Marco Vitale
“L’amore da vecchia” di Vivian Lamarque

Incontro alla luce

«Una grazia che non conosce incrinature mentre si confronta con i temi e i tempi della vita». Sembra custodire un segreto la poesia dell’autrice trentina, versi dal tratto autobiografico, semplici, eleganti, anche “feroci” nel ripercorrere le ferite, ma sempre ricercando motivi di consolazione

La grazia introuvable che fin dalla silloge di esordio (L’amore mio è buonissimo, Guanda 1978) ha caratterizzato il percorso di Vivian Lamarque è da sempre motivo di ammirazione e insieme di sottile allarme per i suoi lettori. «C’è da restare a bocca aperta – scriveva Giovanni Raboni – davanti alla misteriosa semplicità, all’eleganza impalpabile e tuttavia quasi feroce di queste poesie». Da allora ci si continua a chiedere quale segreto tale poesia custodisca, a dispetto di una materia autobiografica che ne è un robusto tratto distintivo e che ci viene incontro anche con l’ultimo libro, fin dal titolo (L’amore da vecchia, Lo Specchio Mondadori, Milano 2022, 148 pagine, 18 euro). Ma è un titolo, a ben vedere, dagli accorti echi antifrastici, proprio in virtù di quella grazia che non conosce incrinature mentre si confronta con i temi e i tempi della vita, con le sue gioie e le ferite.

C’è una bellissima prosa che introduce alla sezione Come nel film, in essa l’autrice ci porta in uno dei 133 (spariti) cinema della sua Milano e ne rivive la stupefazione, la parimenti perduta modalità dell’avvicinarsi a un grande schermo che si illumina nel buio, quando «si poteva entrare a film cominciato, [e] il fotogramma del ricongiungimento tra il già visto e il non ancora visto era incantato». Ecco, questo fotogramma che dura un battito di ciglia, che crea uno scarto emotivo in chi segue la visione e mentre ancora lo si coglie è già lontano e che – si vorrebbe aggiungere – accade e non è, potrebbe dirci molto di questa poesia, del suo equilibrio in rapporto al tempo, all’impalpabile densità del vivere. Come si può intuire il tema della soglia tende sempre più a diventare centrale e Lamarque lo accosta con la sua inconfondibile musica che impasta levità e ironia secondo una prosodia studiatissima, alimentata da un’alternanza di metri classici nel castone del parlato e da un variegato ingegnoso ricorso alla rima («Finito, già finito / l’incantato tempo / dei rami in fiore? / Come quando / sul più bello del ricamo / finisce il filo del ricamo?» laddove l’apparentemente “facile” uso della rima identica conferisce come un’improvvisa morsura al brevissimo componimento). Se questo è vero, se tale tema cioè si fa cospicuo, è altrettanto vero che viene tenuto in equilibrio costante da un afflato creaturale in relazione a piante e animali, interlocutori vibranti di una condivisione ineffabile che ha solo bisogno di essere portata sulla carta, di prender posto nel cantabile che le è dovuto («Ah dimenticavo: tenere sempre appuntita / la rima vita/matita».). 

È quanto occorre ad esempio per visitare insieme all’Autrice le “case degli uccelli”: «Ci si entra senza chiavi, muniti solo di ali / ci si posa, si chiudono piccoli occhi / si piegano ali che non pesano niente». Così come niente, in apparenza, pesa il tempo, ancora una volta spiato in sottile aporia, come nel delizioso couplet caproniano in dedica a Valerio Magrelli: «Se sul treno ti siedi / al contrario, con la testa / girata di là, vedi meno / la vita che viene, vedi meglio / la vita che va». Quanto di più esatto, si vorrebbe dire, se l’ala del nonsense, che fa pensare ai limerick di Toti Scialoja, non fosse come in agguato. Numerosi sono in questo libro gli echi della grande poesia nella rielaborazione e nell’amalgama della linea poetica dell’Autrice. Penso oltre a Caproni a Saba e a Penna, a Ungaretti – «(anzi, ben lo sappiamo cosa combina d’autunno / un albero alle foglie)» –, a Toulet, ad Ariosto ricondotto alla sua luna e naturalmente alla grande letteratura favolistica che di Vivian Lamarque nutre da sempre la fantasia e lo stile. Il suo stile dimesso, in apparenza, e insieme incantato, la sua “poesia onesta” in perenne corpo a corpo con quanto il giorno presenta e talora ingannevolmente occulta, che ripercorre le ferite ma sa andare, con invidiabile naturalezza, mirabilmente incontro alla luce. Come in un mattino di mare, in presenza degli amati nipoti: «Ti tuffi? Lei gli gridò / Sì, sì! / L’altra nipote leggeva china a riva / il sole le luccicava i lunghi capelli / il mare le spruzzava i bianchi fogli. / L’uno e l’altra – nuotando piano – / beata si guardava.”

Nell’immagine vicino al titolo, particolare di un’opera di William Turner

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