“L’isola della colpa” di Lagazzi e Tomerini
Discesa agli inferi in tre movimenti
Una suora e un uomo con antiche colpe da espiare e «un sapiente gioco di specchi deformanti». È la vicenda misteriosa con risvolti noir narrata con «alternanza di registri e con stile sorvegliato» dal critico letterario e dalla moglie pittrice
«Non salpano per quest’isola gli uomini saggi». Comincia con questa citazione in esergo tratta dal Filottete di Sofocle il romanzo L’isola della colpa (192 pagine, 19,50 euro) firmato per Passigli dalla coppia Lagazzi e Tomerini, i cui cognomi vengono riportati in copertina senza l’ausilio di alcun patronimico. Paolo Lagazzi è un insigne critico letterario che, oltre a occuparsi dell’opera di Bertolucci, Citati e la Spaziani, ha pubblicato parecchi saggi, misurandosi anche con il genere narrativo: ai racconti di Nessuna telefonata sfugge al cielo (Aragno, 2011) è seguito il romanzo Light stone (Passigli, 2014). La moglie Daniela Tomerini è pittrice con alle spalle alcune interessanti pubblicazioni di taglio poetico e narrativo. Il romanzo si presenta come un sapiente gioco di specchi deformanti ispirato a una reale conoscenza effettuata dalla coppia presso il convento ortodosso di un’isola delle Cicladi, come si evince dalla breve premessa degli autori: «La piccola suora che ci aprì non era certo la stessa persona che incontrerete nelle pagine seguenti, ma fu grazie a lei che cominciammo, quel giorno, a intravedere le linee della nostra storia».
Prende così l’abbrivio questa vicenda misteriosa, con risvolti da noir metafisico, suddivisa in tre capitoli articolati che, a loro volta, si modulano nell’arco di tre giorni, biforcandosi nella versione del protagonista e in quella della suora incontrata da quest’ultimo casualmente in un convento. Sappiamo che, in ambito narrativo, il personaggio della suora ha precedenti illustri: da Piovene ad Arpino, tanto per fare due nomi ingiustamente rimossi delle nostre patrie lettere. La scommessa di Lagazzi e Tomerini è quella di imbastire una storia credibile che non risenta di tali modelli, incidendosi nella memoria del lettore mediante un vissuto rielaborato in maniera fantasiosa che tuttavia affondi le radici nel sostrato storico e culturale odierno.
Come nel precedente romanzo Light stone di Paolo Lagazzi, il plot narrativo conosce una continua alternanza di registri, creando un climax che dalla calibrata compostezza iniziale vira verso una progressiva sprezzatura formale, mimetica alla catabasi che porta i personaggi a sondare situazioni estreme, borderline. Ma tale descensus ad inferos non esula da uno stile sempre elegante e sorvegliato, inviso all’anacoluto o a certe derive di taglio gergale. Sono presenti indubbie (e forse casuali) analogie con certi addentellati “eretici” di Testori, soprattutto nel contrasto presente tra aspetti sacrali ed esiti iconoclastici che rasentano una blasfemia derivante da una devozione di ascendenza carnale, paganeggiante. Si legga in tal senso la parte finale del flashback Un posto dove stare, in cui ai monologhi dei due protagonisti si interpone la voce di Corinna, la donna che intreccia i loro destini, con la drammatica descrizione dell’omicidio di Angelo alias Rita, un trans divenutole amico che, a tratti, ricorda l’androgino di alchemica memoria: «Lo giuro, Cristo, domani ti stano io! Lo so dove ti nascondi! Nelle fogne!».
Tutto il romanzo d’altronde è fortemente basato sul gioco dei contrasti, sulle ripercussioni che si vengono a creare tra situazioni e personaggi dominati da un retaggio psicologico che si ritaglia una parte rilevante nell’economia della narrazione: l’ascesi mistica coesiste con il più efferato delitto, la convivenza forzata con quella solitudine che Nabokov definì «il campo da gioco di Satana», come si legge in una delle epigrafi riportate in esergo ai capitoli. Sembra che i protagonisti – o gli antagonisti – scaturiscano da una condizione archetipica che, di volta in volta, tende a scagliarli come folgori nell’abisso o riscattarli attraverso una macerazione interiore che arriva a modellare i lineamenti stessi dei personaggi, come in questa suggestiva descrizione della suora: «La fronte era avvolta da una stoffa che lasciava libere le sopracciglia, folte e nere come ciuffi di erbe selvatiche. Gli occhi anche neri, due olive immerse nell’olio, sembrava non vedessero nulla, non guardassero nessuno, come per un difetto della vista».
Le vicende descritte conoscono la versione speculare del protagonista e della suora, quasi a rimarcare quella sorta di ordito contrappuntistico teso a mettere in rilievo il ruolo di Corinna che si manifesta sulla pagina con la rilevanza di una delle tante Madonne dimenticate nelle pievi di campagna che sembrano accogliere nel loro manto, nel dipanarsi delicato di forme e colori accarezzati dalla polvere, tutti gli incanti e i soprusi del mondo esterno. Corinna incarna in tal senso desideri e paure di entrambi i protagonisti ed è per questo che diventa il medesimo capro espiatorio sul quale disquisisce René Girard nei suoi saggi.
Se infatti è plausibile che il protagonista decida di rompere la sua relazione con Corinna, più sottili e sfumate, a tratti indecifrabili, appaiono le motivazioni che spingono la suora a nutrire nei confronti dell’amica un’avversione così intensa, che sfocerà nel drammatico e controverso finale. È come se amore e odio, attrazione e repulsione rappresentassero le facce antitetiche di una stessa medaglia, la cui duplice effigie non può che raffigurare quella salvifica e rivoltante di Corinna, incisa attraverso un profilo muliebre di delicata fattura che si contrappone alle vestigia di un tempio antico o alla sagoma stilizzata di un animale. Una simile ambivalenza è riconducibile al fascino esercitato in Lagazzi dalla figura mitologica di Hermes, dio dei commerci e dei confini, ma anche di viaggi e ladri. Le vicissitudini dei protagonisti non potrebbero snodarsi senza l’anomalo carosello di figure da cui sono attorniati, a cominciare da padre Andreas che condivide fino alla fine dei suoi giorni il destino dei paria, dei derelitti, al pappagallo Joseph che rappresenta per la suora, con il suo rutilante sfavillio di colori, un interlocutore privilegiato, come lei stessa sosterrà in un monologo sulla santità: «Chi sono i veri santi? Non credo siano molti: a parte Joseph e padre Andreas non mi pare di averne incontrati nella mia vita».
Ma L’isola della colpa costituisce soprattutto una dolente, mirabile riflessione sull’esistenza, con implicazioni religiose che permeano, à la manière deBernanos, la concatenazione stessa di avvenimenti strettamente funzionali a quel meccanismo virtuoso e, al contempo, perverso. Non è un caso che il libro si chiuda sul refrain – quasi una palilalia – con cui il pappagallo Joseph apostrofava la sua padrona, forse ispirato al ricorrente «nevermore» nel Raven di Poe o alla formula «Preferirei di no» nel Bartleby melvilliano: «Sono arrivato sotto l’albero, mi siedo. Non so da dove, ma mi pare che dal buio un’anima ignota mi sussurri: “Perché?”». Già, ce lo chiediamo ogni giorno senza ottenere risposta: «Perché?».
Nell’immagine vicino al titolo un’opera di Alexandre-Guillemin