Danilo Maestosi
All'Orto Botanico di Roma

Pittura in viaggio

Una mostra di opere recenti di Valeria Cademartori mette in relazione il bianco e nero della guerra in Siria ai colori dell'India. Due facce della stessa memoria e della stessa necessità di fare i conti con il dolore e con la vita insieme

A un maestro fotografo dell’era digitale trasformare un’immagine dalla resa del biancoenero a quella del colore e viceversa basta un gesto veloce. Premere il dito su un comando stampato sopra o sotto o di fianco persino su uno smartphone. E il travaso tra i due universi è fatto. Per un artista che usa lo strumento antico della pittura fissare su una tela o qualunque altro supporto la trasmutazione di quella stessa immagine impone invece un lungo viaggio nel tempo, che inizia dentro di sé per dar vita, forma e senso a quell’emozione, a quel bisogno, che trasmette alla sua tavolozza e al suo pennello e poi prosegue cercando di inseguirla lungo il percorso imprevedibile e capriccioso di un’opera in corso, che gli appartiene sempre più e sempre meno.

È la fascinosa dimostrazione che ci offre in presa diretta la mostra con cui Valeria Cademartori, una pittrice romana che ha oltrepassato la soglia dei cinquant’anni ma non ancora quella di una più che meritata consacrazione, si ripresenta e si rimette in gioco nella sua città, cogliendo al volo l’opportunità di una personale ospitata in un padiglione dell’Orto botanico a Trastevere, dove resterà in scena fino al 16 ottobre.

La seconda, singolare esperienza sta nel fatto che questa mostra, intitolata Contrappunto, di fatto ne racchiude e ne fonde ben due. Inglobando e mettendo a confronto i lavori di un’altra esposizione, già tenuta prima del Covid qualche anno fa in una galleria privata, con un inedito ciclo di opere di tema e scelte stilistiche apparentemente molto diverse. In una linea di continuità e discontinuità – a suo modo analoga al mosaico a frammenti del cinema grandifirme riadattato a puntate da Netflix, Sky e altre piattaforme – preziosa per inquadrare le svolte di ispirazione e narrazione, che segnano il percorso di ogni autore, ma in genere sono concesse e marcate solo dalle retrospettive museali di artisti scomparsi. Insomma un esempio che sarebbe stimolante imitare.

La prima mostra era un volo d’immaginario che prendeva spunto da una storia ripresa e dilatata dai social: quella di un giovane palestinese, Aeham Ahmad, che suonava e improvvisava composizioni sul pianoforte, trascinando quel pesante strumento tra le macerie della Siria, devastata da una guerra odiosa e senza fine. La tragedia del conflitto condensata in una melodia e in intervento di pura poesia. Che Valeria Cademartori ha tradotto in pittura con un duplice colpo d’ala. Azzerando la sua tavolozza in un mosaico di luci ed ombre, a simulare l’alternarsi di bianco e nero sulla tastiera di quel pianoforte. E trasferendo all’interno tra le quinte di quei palazzi in rovina, nell’oscurità cupa di stanze trasformate in traballanti e polverosi rifugi di geometrie improbabili, le ondate e i sussulti di un corpo femminile rannicchiato che prendeva e mutava forma in continuazione, trattenendo e generando vita nell’ambiguità dell’intravisto.

Ora un utero che accoglie e protegge un feto in gestazione, ora un volto da ciclope accecato, ora membra modellate da statua classica affiorata da un passato remoto, ora infine esibito e sdraiato su un piano inclinato da palcoscenico il canto di una sirena che agita una coda appena formata. Il dolore, l’inganno, la speranza, la paura e le ferite come un combattimento interiore al quale inseguendo la sua verità di artista e di donna Valeria Cademartori ha offerto come specchio e campo d’azione il suo stesso corpo. E come linguaggio quello di una pittura contratta e rarefatta in un alternarsi e accavallarsi di bagliori e penombre, astrazione e realtà.

Quattro anni dopo quelle stesse immagini aumentano d’intensità e di suggestione, poste all’inizio e alla fine di una mostra completamente diversa che esplode il colore in tutta la sua sfavillante vitalità, registrando stavolta le emozioni di un viaggio reale: quello in India del Sud, sulle spiagge

del Kerala, davanti il verde dell’Oceano increspato da spume e correnti e l’agitarsi di un popolo di pescatori che ripete sull’arenile un copione millenario di fatica e sopravvivenza. Il buio della morte, della perdita di senso e certezze che minacciano l’umanità indifesa – ora reso ancora più evidente dal contrasto stridente di visioni – è ancora lì a segnare i confini di un destino che solo la nostra disattenzione rende inesorabile , unico e sconcertante, come a molti appare la guerra in Ucraina, che non possiamo più ignorare e riconosciamo nostra perché è giunta sotto casa e ci sta cambiando la vita, anche se indossa le stesse maschere di profanazione violenta dello sterminio ancora in atto in Siria.

Una distanza di percezione e di immedesimazione che credo Valeria Cademartori abbia colto in se stessa quando, nel clima di sospensione, d’isolamento e di attesa della pandemia, ha sentito il bisogno di aggrapparsi ai ricordi di un viaggio precedente che le riaffioravano dentro come la indicarle una strada di liberazione. Una libertà che parlasse il linguaggio più immediato dei corpi e allo stesso tempo sciogliesse nel colore le inibizioni della sua pittura, che con quel salto in avanti e all’indietro del bianco e nero rischiava, forse, di precipitare, per le sue premesse e il suo impianto, in una prigione fondata sulla razionalità rapace del nostro Occidente sempre più incapace di cogliere la rivoluzione della differenza come misura d’umanità. Attivando in direzione contraria ma non rinnegando, con rispettabile concessione ai suoi impulsi emotivi, due bussole mentali che l’hanno sempre guidata: l’impegno a battersi come può per cambiare un mondo che non le piace e la convinzione di aver trovato nell’arte il modo migliore per farlo ed abitare il proprio tempo.

I quadri e gli schizzi dedicati a quella spiaggia del Kerala come contrappunto per riemergere da un universo tormentato e in penombra e ritrovare nella felice immediatezza dei colori il senso rigenerante di un’umanità senza voce con cui abbiamo perso contatto.

Una festa degli occhi con cui l’India, quello spicchio meridionale dell’India ti aggredisce – può testimoniarlo chiunque l’abbia attraversata senza prevenzioni e senza fretta – confessandosi nel vortice spudorato di tonalità cromatiche con cui avvolge, rivela e nasconde, la sua arcaica miseria, la sua empatia col creato, la sua devozione ai riti e agli dei, la sua speranza , la sua saggezza e la sua rassegnazione.

Un bagno sacro di spaesamento e speranza che Valeria Cademartori ci restituisce cercando di annullare la sua distanza di spettatrice nel gioco di forme e gesti accesi dalla luce prorompente delle vesti e dei corpi. Donne accovacciate nello splendore di gonne, veli, sciarpe, corsetti che le tele inquadrano come se l’artista che le ritrae fosse anche lei sdraiata lì in basso, aderisse alle curvature dei loro corpi, alla tensione di quelle braccia, di quei muscoli, di quella pelle scura. Così vicina che a volte i dettagli perdono contorni diventando superfici mobili, graffiate, quasi astratte. Perché le pennellate di Valeria Cademartori non catturano solo i volumi, ma anche il vento che ne sfibra, solleva, increspa i confini. A volte li scolpisce perché spesso le superfici sono quasi modellate in rilievo dal ricorso ad un impianto di sabbia. È un artificio che la accompagna da anni come un marchio d’autore in tutti i suoi lavori, anche quelli sulla Siria. Una prova di bravura che ha generato, genera anche qui le sue opere più coinvolgenti. Ma anche un rischio di sottolineare troppo l’effetto e appesantire l’incanto del volo.

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