Michela Leonardi
Il Nobel alla medicina

Nobel all’evoluzione

Il premio a Svante Pääbo, lo scienziato che ha aperto la strada alla paleogenetica, ha un valore rivoluzionario: indica che nel DNA dei nostro avi lontani ci sono le tracce delle nostre debolezze di oggi. O della nostra forza

Ha fatto scalpore nel mondo scientifico l’attribuzione del Premio Nobel per la Medicina e la Fisiologia a Svante Pääbo, uno dei fondatori della paleogenetica. La paleogenetica (o paleogenomica) è la scienza che studia il DNA antico, ovvero quello estratto da campioni biologici del passato, ad esempio provenienti da archivi, musei, o scavi archeologici. Può essere ottenuto da molti materiali più o meno inaspettati: ossa, denti, semi, legno, tessuti mummificati, peli/capelli, cuoio, pergamena, ma anche il tartaro, resti di gomme da masticare preistoriche e perfino i sedimenti.

Il DNA antico richiede tecniche di estrazione più complesse di quelle necessarie per l’attuale, perché l’azione del tempo, della temperatura, e delle reazioni chimiche nel materiale in cui è conservato lo degradano il DNA, che si «spezzetta» e diventa difficile da recuperare.

Pääbo, oggi direttore del Dipartimento di Genetica dell’Istituto Max Planck di Lipsia, è stato uno dei primi scienziati a riuscire ad estrarre e studiare molecole di DNA antico. Nel 1984 il suo lavoro sulle mummie egiziane aprì la strada allo studio del DNA degli esseri umani vissuti nel passato, più o meno lontano.

Nei primi anni Duemila ha guidato il gruppo che ha ricostruito il primo genoma (ovvero il DNA completo) di un uomo di Neanderthal. Nello stesso periodo condusse uno studio un piccolo frammento di falange di decine di migliaia di anni fa, trovato in una grotta siberiana. Insieme ai suoi collaboratori dimostrò che il DNA estratto da quell’osso apparteneva una specie umana fino ad allora sconosciuta, ribattezzata “Denisova” dal nome del sito archeologico da cui proveniva.

Gli studi di Pääbo e colleghi hanno anche permesso di dimostrare che nel corso di decine di millenni, i Neanderthal, i Denisova e l’Homo sapiens (la nostra specie) si sono incontrati, si sono incrociati (in gergo tecnico “ibridati”) e hanno avuto figli e figlie il cui DNA era un miscuglio di specie umane diverse. E, una piccola parte di questo DNA, condiviso con esseri umani ora estinti, rimane ancora oggi nelle nostre cellule.

Queste storie evocative e affascinanti ci riportano indietro nei millenni per ricostruire una parte del nostro passato che non avremmo potuto riscoprire senza l’aiuto della paleogenetica. Ma perché dovrebbero meritare il Premio Nobel per la Medicina?

Queste (e altre) tracce della storia della nostra specie contenute nel nostro DNA, non sono solo il lascito silente di un passato scomparso. Si tratta invece di varianti genetiche che possono avere effetti molto evidenti sulle nostre vite. Ad esempio, la capacità di digerire il latte da adulti (cioè, la tolleranza al lattosio), l’emicrania, la risposta immunitaria a diverse malattie (forse anche al covid) sono il risultato delle migrazioni dei nostri antenati remoti, dell’incontro con lontani parenti ormai estinti, e dell’adattamento a nuovi ambienti e nuove sfide evolutive.

E se la medicina trova il “come” una determinata variante genetica influisce sulle nostre vite, la biologia evolutiva può raccontarci il perché. In questo modo ci indica (ad esempio) quali persone o popolazioni rischiano di essere più suscettibili a una determinata malattia, quali meccanismi possono esserne alla base, e quali metodi possiamo usare per studiarla o affrontarla meglio.

Questo premio punta il dito sull’importanza di conoscere la nostra storia evolutiva per capire meglio, e quindi intervenire più adeguatamente sulla nostra salute e sulla medicina in generale. L’augurio è che il lascito dei nostri lontanissimi antenati possa guidarci verso un futuro migliore.


Accanto al titolo, il ritratto di Svante Pääbo realizzato da Niklas Elmehed e diffuso dalla Fondazione Nobel sul sito www.nobelprize.org

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