Giuseppe Grattacaso
Omaggio a un campione

Ribery, o pisciaiuolo

Storia di Franck Ribery, calciatore testardo e vincente. Dalla Francia alla Germania, fino alla rinascita con la Salernitana. Adesso abbandona il calcio giocato, ma resta un mito per uno sport dove la passione (come la sua) è sempre meno di casa...

È il 22 maggio 2022. L’incredibile campionato della Salernitana si sta concludendo allo stadio Arechi. Gli spalti sono stracolmi, il pubblico ammutolito. La gente è qui per festeggiare una salvezza che significherebbe la realizzazione di un’impresa leggendaria. Sarebbe sufficiente un pareggio e invece, del tutto inaspettatamente, l’Udinese, che da settimane non ha più nulla da chiedere al campionato, sta vincendo per quattro a zero. Quello che doveva essere un tripudio a pochi minuti dalla fine ha preso ormai le sembianze dell’incubo. Franck Ribery, icona indiscussa del calcio internazionale, dall’inizio dell’anno in forza alla Salernitana e fin da subito capitano, è entrato in campo al diciottesimo minuto della ripresa, a risultato acquisito. È sua l’ultima azione degna di nota in direzione della porta dove difende l’Udinese. Discesa sulla sinistra, dribbling tra due difensori che gli permette l’ingresso in area, finta che fa sedere per terra un avversario, tiro di destro. Dimostra di essere ancora Ribery anche quando, con aria preoccupata, manca ormai solo una manciata di secondi al novantesimo, si rivolge alla panchina e chiede «ancora zero a zero?». Il riferimento è alla partita che sta svolgendosi a Venezia: se il Cagliari non vince in laguna, la Salernitana è comunque salva. Lo sguardo verso i compagni seduti in panchina, l’occhiata veloce in direzione degli spalti gremiti, dicono tanto dell’uomo e del calciatore, del suo modo appassionato e intenso di vivere il calcio. Dicono la sua voglia di essere un punto di riferimento, la necessità di sentirsi insieme agli altri, ai compagni di squadra e alla gente, insieme per scrivere un racconto, perché il calcio per quelli come lui è ancora questo, raccontare e raccontarsi, costruire storie, anche ora, anche a Salerno, anche se l’obiettivo è solo la permanenza in massima serie.

Il racconto in questione è un po’ un thriller mozzafiato, per il testo ha i connotati della fiaba con annessa fata dotata di bacchetta magica. Il Cagliari non va oltre uno striminzito zero a zero contro il Venezia già retrocesso, l’Arechi esplode, Ribery è il capitano di un manipolo di eroi. Il giorno dopo, ancora sotto effetto dell’ubriacatura da “non può essere vero”, Franck inforca una bicicletta per bambini e festeggia a suo modo, sfrecciando per le strade della città e canticchiando. Nel successivo ritiro precampionato intona insieme agli altri reduci dell’impresa “ma che ci posso fare se puzzo di pesce?”, autoironico inno ad uso degli spalti granata in vena di festeggiamenti. Lui, il capitano Ribery, faccia e piglio da pirata, molto genio e parecchia sregolatezza, nove titoli tedeschi vinti nelle dodici stagioni disputate con il Bayern di Monaco, Uefa Best Player in Europe nel 2013 davanti a Messi e a Ronaldo, 81 presenze e 16 gol con la nazionale francese, guida il coro dimenandosi in piedi sulla sedia. E fa un po’ sorridere guardare l’impassibile (non in questo caso) serbo Radovanovic, il sempre teso slovacco Gyomber, il mite gigante argentino Fazio seguire il capitano a ritmo di “So’ nato pisciaiuolo”, versione pesce azzurro, anzi granata, del tormentone Freed from desire.

L’esibizione riporta alla memoria un video che risale al 2009. Ribery è protagonista di una delirante partita su un polveroso campetto di periferia, che accompagna le note di una canzone dell’algerino Khaled (leggendari i suoi concerti all’Olympia di Parigi alla fine del secolo scorso), interpretata con gli ivoriani e molto noti in Francia Magic System. Ce soir il faut danser, on va tout donner, canta Khaled. Danzare e dare tutto fino in fondo del resto sono tra i motivi ispiratori del calcio di Ribery, fatto sostanzialmente di imprevedibilità e fatica, di serpentine danzate e di attenzione alle geometrie del gioco di squadra, di genio appunto ma anche di tanta applicazione.

Il calciatore assomiglia molto all’uomo, o forse è l’uomo ad assomigliare al Ribery in pantaloncini corti sul rettangolo di gioco: un misto di sofferenza e voglia di spassarsela, di sentimento passionale e ricerca della ragione, di tenerezza e sfacciataggine, di sano egoismo e di ancor più sano altruismo, che si traduce spesso nell’assist illuminante e risolutivo, nel desiderio di vedere gli altri felici grazie alle sue giocate. 

Ribery ha deciso di lasciare il calcio giocato, troppo difficile continuare ad affrontare gli allenamenti con un ginocchio continuamente infiammato e la cartilagine ridotta a poca cosa. Non è facile per uno che ha confessato: «Quando la mattina mi sveglio, sono contento perché dovrò andare al campo ad allenarmi». Ma ha 39 anni, che se non pesano sulla testa («anche quando in allenamento giochiamo cinque contro cinque, io voglio vincere»), sicuramente premono sulle gambe e sulle ginocchia.

Salerno lo ama e vorrebbe continuare ad applaudirlo. «È un pisciaiuolo come noi», dicono. E così l’avventura granata potrebbe non essere conclusa. Il suo ultimo allenatore, Davide Nicola, quello della salvezza con intervento fatato, lo vorrebbe nello staff tecnico; il patron della Salernitana Danilo Iervolino gli offre un futuro da dirigente. Lui non nasconde il desiderio di rimanere nel mondo del calcio. «Mi piace aiutare i giovani – dice – se vedo in loro l’amore per questo gioco, se capiscono che nel calcio si riesce se non si vuole tutto subito, se non si ha paura della fatica, se si ha “fame”».

La “fame” è data anche dagli ostacoli che bisogna superare, dalle prove che la vita ti mette di fronte.  Ribery il destino lo ha dribblato già in tenera età, grazie a madre e padre adottivi, molto amati, che per lui, abbandonato in un convento, hanno rappresentato l’amore e la sicurezza della famiglia, la possibilità di vivere un’esistenza felice e di trascorrere un’infanzia protetta. Infanzia che però è stata subito nuovamente ricacciata nel dolore da un grave incidente stradale. Franck, appena due anni, è scaraventato fuori dall’autovettura dopo aver frantumato il cristallo anteriore. Il viso ha lesioni varie e profonde. Servono più di cento punti per rimarginare le ferite. Il volto del piccolo Franck è devastato dalle cicatrici.

«La cicatrice – ha raccontato poi in una toccante intervista televisiva – mi ha dato in effetti carattere e forza, perché quando sei un bambino e hai un segno così non è facile. La gente diceva “guardate la sua faccia, la sua testa, com’è brutto!”. Dovunque andavo la gente mi guardava, non perché fossi un bravo bambino, non perché ero Franck, o perché sapevo giocare bene al calcio, ma solo per la cicatrice. È stato difficile, non solo nel quartiere, ma anche a scuola. Tutti parlavano di me e ridevano. Più di tutti i genitori dei miei compagni di scuola. Erano crudeli, molto crudeli. Quando sei un ragazzo, soffri tanto per una cattiveria così, ma io non mi sono mai nascosto in un angolo a piangere. Mai.»

E così la cicatrice è diventato il segno del destino da non cancellare. Niente chirurgia estetica, il dolore bisogna ricordarlo, a se stessi e agli altri. Il bambino da deridere diventa, anche grazie alla forza di quella cicatrice, il fuoriclasse da amare, l’eroe di un calcio che sta scomparendo, fatto di fantasia e sudore, di abilità e non solo di muscoli. Il calcio insomma, quello vero dell’imprevedibilità e dei sogni, della felicità delle belle giocate e delle scintille della creatività, il calcio un po’ folle capace di scrivere storie incredibili di sofferenza e riscatto, ha trentanove anni, come Franck o pisciaiuolo nativo di Boulogne-sur-Mer, ha le ginocchia a pezzi e le cartilagini a brandelli, la testa che vorrebbe correre dietro un pallone e le gambe che ce la fanno sempre meno, la cicatrice come una carta d’identità. A Salerno finisce il romanzo del bambino preso in giro che non piangeva mai e che sapeva giocare bene al calcio, e a Salerno per Ribery comincia un nuovo racconto.

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