Saggio sulla televisione
La malattia della Rai
Pedagogica e consolatoria: in tempi di pandemia, la Rai ha radicalizzato il suo modello, da generalista a "familista". Con i soliti eroi al timone (dell'auditel): da Mara Venier a Antonella Clerici, da Milly Carlucci a Gianni Morandi
Inclusiva, rassicurante. E pedagogica: mai nel senso di una verticalizzazione cattedratica del messaggio positivo, bensì come orientamento valoriale che scaturisce dall’assorbimento di ogni forma nella quale si esprime, nella contemporaneità, lo spettacolo. È questa, fedele alla sua mission ed al suo ruolo, la Rai che negli anni della pandemia si è caratterizzata e proposta ai telespettatori. È stata la bolla che ha assorbito la realtà, rielaborandola e riproponendola, come collante di comunità.
Il “come” tutto questo si sia manifestato segue linee e sfumature che disegnano la complessità del moderno racconto televisivo. Vecchie virtù e vizi nuovi scandiscono il tempo che la Rai di questi ultimi anni ha attraversato provando a restituire al Paese, come in un gioco di specchi la sua immagine stabilizzante. Un’azione che ha trovato nella fascia dell’intrattenimento (e della variante dell’infotainment) lo spazio e la modalità più pervasiva ed incisiva. E che da quel momento in poi ha rafforzato modelli narrativi oggi strutturalmente forti.
La pandemia e le leadership tv dell’intrattenimento. Il lockdown imposto dalla pandemia che ci ha confinato nello spazio della casa, ha restituito alla televisione generalista la centralità di canale di informazione e intrattenimento per milioni di famiglie. È stata la grande occasione della Rai che nell’articolata narrazione intessuta ha esaltato la sua storica vocazione/linea editoriale protesa alla pedagogia sociale.
Tv di servizio, ha interpretato questa funzione orientando i telespettatori verso le buone pratiche e valori edificanti nella gestione quotidiana della protezione dal virus. La scelta, inevitabile, di una mono-tematizzazione (la pandemia) del racconto televisivo ha indotto alla analoga copertura degli spazi frammentati dei palinsesti, ma necessariamente non alieni da dinamiche di competizione per la conquista dell’audience.
Una tendenza, diluita nei palinsesti ma rintracciabile, ha evidenziato (e continua ad evidenziare), la costruzione di leadership mediatiche, centrate sulla personalizzazione dei messaggi mediati dagli stili dei conduttori tutti riconducibili alla dominanza del “politicamente corretto”.
La zia mediatica degli italiani. Leadership mediatica è certamente quella incarnata da Mara Venier. La signora della domenica di Raiuno, padrona di casa del salotto televisivo. Il proporsi come “la zia” è un modo accorto di personalizzazione attraverso una figura parentale che al tempo stesso è interna e laterale ai nuclei familiari che compongono la platea televisiva.
La zia non è né padre né madre; sfugge alla verticalità gerarchica del ruolo, non insidia la centralità delle figure-guida delle famiglie ma come figura parallela a quel fulcro, ne assume la funzione tutoria e protettiva. I modi di accoglienza degli ospiti, il taglio del racconto che tramite di loro la Venier istruisce, concorrono a replicare familiarità protetta dal suo salotto che si fa specchio, o forse prolungamento, dello spazio-casa.
La pedagogia sociale sgorga dai racconti degli ospiti. C’è la “storia umana” e la costruzione del “lato umano” del personaggio noto ospitato. Entrambi i profili conducono alla medesima matrice rassicuratoria del vecchio mantra anti epidemia dell’“andrà tutto bene”. Il sigillo di “verità” è però impresso dalla conduttrice. La leadership mediatica funziona a condizione che si autoalimenti. E che sempre di più si trasformi nel contenuto principe che ogni altro ha assorbito ed incorporato.
Un esempio assai significativo è rintracciabile nella puntata di “Domenica in” andata in onda il 18 ottobre del 2020.
Larga parte della trasmissione è stata dedicata ad una celebrazione della stessa Venier. La sua storia – arricchita da foto private, videomessaggi e immagini di repertorio della sua carriera – raccontata attraverso una lunga intervista a se stessa condotta da Carlo Conti. Interessante il cortocircuito rappresentato in quella trasmissione. Il medium (la Venier) del messaggio, è diventata il messaggio stesso, il suo contenuto unico e peculiare. Mara è la tv. E non per caso ad officiare il rito di substanziazione è stato – in un gioco di specchi che esalta ed assolutizza l’autoreferenzialità della tv – un “sacerdote” egli stesso leader mediatico come la Venier, appunto Carlo Conti.
L’aspetto non secondario della tv che elegge se stessa a contenuto del proprio messaggio è un elemento assai significativo della presa sulla realtà, del suo assorbimento totalizzante e talora sostitutivo della realtà stessa. Una direttrice che porterebbe dritto a parlare del modello imperante dei talk-show nei quali quel meccanismo di specchio auto-riflettente celebra un piccolo trionfo.
Dalla zia alle altre: i senior della Clerici. Se con la Venier la pedagogia sociale dell’intrattenimento Rai identifica medium e personaggio, implementando il potere di quest’ultimo, variante diversa ha caratterizzato la prima edizione (rafforzata nella seconda) di “The voice senior” condotto da Antonella Clerici.
La ricerca di uno spazio di audience, tra i troppi talent diffusi in tutte le latitudini delle reti televisive, e la risposta “morale” alla pandemia incalzante, hanno generato un programma premiato dal pubblico. Non è stata una rielaborazione in altra salsa dell’ora del dilettante perché ciascuno dei concorrenti, tutti anziani, aveva alle spalle carriere nel mondo della musica bruscamente interrotte o fallite per le più varie ragioni che sono emerse attraverso i racconti di retroscena o retropalco (altro elemento ormai dilagante della narrazione televisiva: come dire, copertura totale del visibile).
Il messaggio, anche qui in chiave ottimistico-consolatorio, faceva leva sulla “seconda possibilità” che a tutti è dato avere nella vita. Che fosse per una sera o per una decina di puntate, poco importa. Il quarto d’ora di celebrità che non si nega a nessuno, “The voice” ha provato a garantirlo pescando su un target amplificatore di audience sia per la gradevolezza in sé dello show e dei concorrenti, ma soprattutto per la fascia sociale scelta e munita di forte valore simbolico. Le prime vittime del Covid, gli anziani, erano in qualche modo riscattati da uno spettacolo che di queste persone ha inteso offrire una immagine né patetica né macchiettistica. La pedagogia sociale, nello stile Clerici, si è caricata della funzione di suturare legami sociali con la generazione dei deboli. Lo stile Clerici è antitetico a quello Venier.
Quando la prima è ai fornelli (in tv) ci sta con le improvvisazioni non ricercate che potrebbe avere quando prepara il pranzo per la sua famiglia. A “The Voice” ha tenuto il comportamento della “spalla”: per i concorrenti e per gli stessi giurati (big della canzone).
Le stelle al ballo. Nella linea di analisi seguita, più complessa appare la disamina di un altro campione di ascolti della Rai quale “Ballando con le stelle” condotto da Milly Carlucci. Show consolidato e per questa ragione più di altre trasmissioni esposto alla necessità di cambiamenti e di innovazioni. Nella penultima edizione è rilevabile un salto nell’intrattenimento Rai. Lo show ha tentato di proporsi, attraverso l’immaginario, come uno sorta di spazio d’ordine della democrazia, malmessa e stressata anche dall’effetto Covid nelle sue sedi e dinamiche istituzionali.
Lo spettacolo ha indotto un messaggio di compatibilità tra la dimensione dell’istituzionale con quella popolare del protagonismo virtuale veicolato dai social. Accanto alla giuria degli esperti (giudici del percorso dei concorrenti) ha fatto sentire la sua voce non solo il popolo degli internauti, convogliati nei canali social della trasmissione (Twitter, Facebook ed Instagram), ma anche con il raddoppio in studio offerto dalla triade dei Tribuni del popolo.
Sono stati questi ultimi (guidati dal tal Rossella Erra, che è stata confermata nelle successive edizioni dello show) gli “interpreti” ed i “delegati” dei compulsivi della tastiera. In scena è andato lo spettacolo del conflitto (addomesticato) tra l’istituzione formale (la giuria e le competenze) e l’emozione sociale espressa dai social e filtrata dai tribuni. Lo spettacolo della democrazia, mediato dall’intrattenimento di “Ballando”, ha veicolato la suggestione di una condivisione possibile e di un Paese che, riflesso nello specchio della tv Rai, è unito.
Meritevole di attenzione, nelle due ultime edizioni, è la “lettura” dei profili incarnati soprattutto dai Tribuni attraverso i quali – in un mix di primato della emotività come criterio di giudizio ed implicita legittimazione della qualità senza pretese di certificazione – si è delineata l’immagine della società dei “qualunque”. Spia interessante del messaggio sotto traccia dello show: l’esaltazione della generica inclusività senza scossoni, della pacificazione senza conflitti, senza crisi né strappi incomponibili che declina, in quest’ultima variante, la pedagogia sociale dell’intrattenimento Rai alle prese con la psicologia di massa delle crisi pandemica.
Un salto ha compiuto la penultima edizione dove le dinamiche social e dei talk basati sul conflitto sono sembrate più accentuate. Tanto da aver coinvolto contrasti tra taluni concorrenti e giudici (è il caso Morgan-Lucarelli) che, replicandosi nelle ore e nei giorni a venire nella fluida e inarrestabile azione dei social, ha dato l’impressione di incrinare l’impronta a dominanza istituzionale delle precedenti edizioni, con la “messa in stato d’accusa” (spettacolare, è ovvio) della intoccabilità della istituzione-giuria.
Cambiata, con l’ultima edizione, la rappresentanza dei tribuni, il mondo social ha trovato una sola voce (Rossella Erra) alla quale è stato affidato il monopolio emozionale del racconto spesso indulgendo sul registro della massaia adorante delle star in gara. L’istituzionale però alla fine ha salvato se stesso. Sia nella conduzione in stile di terzietà della Carlucci, sia nella tribunetta di opinionisti (fissi, Alberto Matano – rimasto unico nella edizione in corso – e Roberta Bruzzone: un caso di circolarità autoreferenziale della televisione essendo il giornalista, conduttore di “La vita in diretta” – esempio classico di rotocalco della cronaca nera – e la criminologa una presenza ormai traversale e onnipresente).
Sanremo, immancabile. E in ultimo arrivò Sanremo. L’edizione 2022 definita – con l’ottimismo retorico da Auditel – della liberazione dalle strette del lockdown. Sanremo ha costruito (e simulato) nella sua ultima edizione l’immagine perfetta, senza residui né increspature, del Paese della più ampia inclusione, della condivisione e del ricostruito rapporto intergenerazionale (i cantanti selezionati ne sono stati un campione).
Il clima di festa, la decisa torsione verso l’energia vitale sprigionata dalla musica sono state la nota dominante e forse il massimo comune denominare per una identificazione (Paese-Tv) che pure si è nutrita di contenuti importanti miscelati nel frullatore dello show. Temi come la diversità di genere, l’inclusione dei disabili, la legalità e la mafia si sono amalgamati in passaggi e scansioni che chiedevano all’attenzione dello spettatore solo soste temporanee.
La strage di Capaci vale “Apri tutte le porte” (inno alla fine di ogni lockdown) di Morandi.
Sanremo porta al trionfo la chiave stabilizzatrice ed istituzionale dell’intrattenimento televisivo targato Rai. Dà forma per via mediatica al “presidenzialismo di fatto” – che incrocia il sentimento di un popolo frastornato e in cerca di agganci solidi e credibili – nell’omaggio a Mattarella chiamato al suo bis al Quirinale. Amadeus tocca i sentimenti del presidente con la dedica (forse sin troppo ossequiosa) della canzone di Mina “Grande, grande grande”. Un ricordo dell’ultimo concerto della cantante alla “Bussola” al quale, tra il pubblico, avevano assistito Mattarella stesso, la moglie scomparsa e il fratello Piersanti, vittima di mafia. Sanremo genera la Repubblica delle emozioni. Che è anche Repubblica. Ricostruita come desiderio e aspettativa del popolo, nel perimetro dello show. Il picco di Auditel forse, in questo caso, non ha misurato solo il gradimento fuggevole di performance e canzoni.