Al Museo di Valle Giulia di Roma
Irregolare, Salce!
Nel centenario della nascita, la memoria torna a un artista campione di contraddizioni tra cultura alta e bassa: Luciano Salce. Ce ne parla Andrea Pergolari, curatore (con Emanuele Salce) di una grande mostra che si aprirà la prossima settimana
Non è facile parlare o scrivere su Luciano Salce, nemmeno oggi, a cent’anni dalla sua nascita e a più di trenta dalla sua morte. Non è facile perché, nello stesso tempo, è stato un caso esemplare e un’eccentricità tra gli uomini di spettacolo e di cultura del Novecento.
Un talento eclettico e una vita avventurosa, talvolta drammatica, si sono spesso riverberati l’uno nell’altra, alimentandosi a vicenda. È stato un regista di film di grande e talora enorme successo: ma ha realizzato quasi esclusivamente commedie, il genere meno autoriale possibile e quindi quello in cui il regista/autore è meno riconoscibile, quasi una contraddizione in termini. Eppure è stato per diversi anni un volto di grande successo in tv, immediatamente riconoscibile per la simpatia e l’irregolarità del volto malizioso e sornione. “Sardonico” è stato definito, ed egli stesso si considerava “sgradevole” e ricercava la “sgradevolezza” attraverso la sprezzatura dell’atteggiamento. Ma è stata una maschera indossata a coprire una timidezza, un’educazione, una gentilezza innati e perpetuamente menzionati da amici, colleghi e collaboratori.
È stato un provocatore e ha sempre cercato quegli elementi di contraddizione della realtà che la rendessero ridicola, ma lo ha fatto senza quel moralismo pesante che di solito accompagna questo tipo di atteggiamenti: ha fatto satira per il gusto di divertirsi e divertire.
È stato un uomo di contraddizioni. Un uomo colto, un intellettuale di formazione classica che conosceva profondamente la letteratura inglese, francese, russa, americana e tedesca, ma anche un goliarda autentico ai tempi dell’Accademia d’Arte Drammatica e della gloriosa associazione con gli amici Gassman, Squarzina, Mazzarella, Dal Fabbro e poi Panelli, Manfredi, Buazzelli, Caprioli, Bonucci, Valeri. Ha fatto molto teatro, come attore, come autore e come regista, si è spinto fino in Brasile per avere la libertà di praticarlo, ma ha messo in scena soprattutto testi divertenti, le amate commedie francesi, le pochade borghesi, fonti di equivoci ininterrotti. E ne ha fatto un punto di vista sull’esistenza: sulla sua e quella del mondo. Ha dato sempre l’idea di non prendersi sul serio, troppo intelligente per atteggiarsi a maestro di pensiero, per aderire senza condizioni a un’ideologia o appiattirsi sul pensiero dominante: spesso li ha scansati con una piroetta e uno sberleffo. E questo gli ha nuociuto: impossibile per la critica prendere sul serio chi è il primo a non farlo. Impossibile dare credito a chi, con un gioco di prestigio, racconta le sue insicurezze di uomo e di marito (Le ore dell’amore) e poi subito dopo spinge Gassman a debellare un complotto contro la politica mondiale (Slalom).
Ha fatto molta commedia, senza guardare al Neorealismo come la maggior parte dei colleghi, ma alla Nouvelle Vague francese e al Free Cinema inglese: è emerso quindi dal gruppo per modernità di temi e di linguaggio ma ben presto, anche per questo motivo, è stato accantonato: ha osato fare una satira politica diretta e poi l’ha messa in scena come un mockumentary ante-litteram, con le arie d’opera a mo’ di cori da tragedia greca: era inevitabile che il suo Colpo di stato rimanesse invisibile per più di trent’anni. Ha lavorato tanto senza fermarsi mai, anzi spesso sovrapponendosi, tra radio, cinema, teatro e tv, con il sospetto che lo facesse per non incorrere nella tentazione dell’intellettualismo. Ma anche per una voglia insopprimibile di vita, lui che negli anni dell’adolescenza e della prima giovinezza non conobbe che drammi e incidenti (la perdita della madre, la chiusura in collegio, l’incidente che gli sfigurò il volto, la prigionia in Germania): ma le sofferenze che gli furono inflitte dai tedeschi, invece di condurlo all’odio, lo portarono a ridicolizzarli, facendone macchiette.
Come tanti uomini di spettacolo e di cultura della sua generazione è stato un artista capace di legare diversi modi espressivi, di tenere insieme una varietà di ambienti e mondi ideologici: Flaiano e i liberali, Moravia e i comunisti, il teatro d’Accademia e il cabaret, Strehler e Lino Banfi, la commedia borghese e l’avanspettacolo, Dumas e la tv. Era capace di entrare nelle case degli italiani nei pomeriggi, attraverso gli altoparlanti della radio, come un vecchio zio dispettoso che commentava con sarcasmo i piccoli fatti quotidiani, e poi, come niente fosse, di creare quasi dal nulla quel grosso incubo iperrealista che circonda la sfigata vita impiegatizia di Fantozzi. Come tutti gli uomini molto intelligenti, sapeva cogliere la diversità all’interno della consuetudine e fu un regista che non seguì le mode ma trasformò le carriere artistiche di attori come Ugo Tognazzi, Monica Vitti e Paolo Villaggio e quindi, di conseguenza, le loro vite.
Era in grado di elaborare sequenze sofisticate di alto grado ironico-satirico, quando non grottesco ed era sicuramente anche un brillante costruttore di immagini, e molte sono rimaste nella memoria degli spettatori. Si possono ricordare, tra le tantissime: l’inquadratura in totale del campo minato nel Federale; la danza tribale sulla spiaggia dei ragazzi della Voglia matta, sulle note di Brigitte Bardot; la lotta col ragno dello scapolo Umberto D’Orsi nel seminterrato delle Ore dell’amore; il seminudo presidente degli Stati Uniti coperto dalla bandiera a stelle e strisce in Colpo di stato; l’assurdo coro melodico dei pazienti anziani nel finale di Basta guardarla; il gioco erotico con le monete tra Villaggio e la Giorgi in Alla mia cara mamma nel giorno del suo compleanno; la caduta di Fantozzi sul tetto dell’autobus nel Secondo tragico Fantozzi.
Sono immagini che possono dialogare ancora oggi con un pubblico più giovane e interessarlo, perché il tempo non ha attutito la loro forza satirica: è stato un creatore, un umorista autentico e anche per questo, quando abbiamo voglia di rivedere un film o rileggere qualche sua pagina (c’è un suo bellissimo libro di racconti, Cattivi soggetti, che dovrebbe diventare una lettura antidoto fondamentale contro l’idiozia di ogni tempo), ci accorgiamo che tutto ancora funziona e ci parla, con distacco ma anche con quell’ironia strascinata irresistibile.
Eppure, o forse proprio per questo, di Salce ci rimangono ancora diverse zone inesplorate. Autenticamente inesplorate. Anche in una zona che sembrerebbe già tutta svelata come quella cinematografica e televisiva. E invece ecco, tra gli infiniti rivoli di una produzione più o meno nota, un film fantasma, mai preso seriamente in considerazione da nessuna filmografia (Lo smemorato, nomen omen); un film tv invisibile o quasi (Gli innocenti vanno all’estero, da Mark Twain, con Gigi Proietti protagonista: dimenticato nel catalogo Rai, uno dei grandi affronti alla cultura non provinciale di Salce), un film dimezzato (Professor Kranz tedesco di Germania, di cui nessuno ha mai cercato di ricostruire l’edizione integrale) e uno volutamente dimenticato (Quelli del casco, l’ultimo titolo girato nel 1987 e uscito l’anno seguente). Ce n’è abbastanza perché questo centenario, occasione di omaggi e di studi, sia anche propulsore di nuove ricerche e faccia finalmente luce su aspetti che meriterebbero di essere riportati all’attenzione degli spettatori, non solo degli addetti ai lavori.
Perché Luciano Salce è stato un intellettuale per tutti. Di tutti. La sua ironia senza filtri e senza cedimenti, siamo certi, sarà la chiave universale per parlare a un pubblico futuro quando di noi non sarà conservato nemmeno il ricordo.
Andrea Pergolari, autore di questo ritratto di Luciano Salce, è dottore di ricerca in Tecnologie Digitali per lo Spettacolo Teatrale e Cinematografico presso il Dipartimento di Arti e Scienze dello Spettacolo dell’Università di Roma La Sapienza. Autore di racconti, saggi storici e cinematografici, dirige il Teatro Le Sedie a Roma. Inoltre ha curato, insieme a Emanuele Salce, la mostra “Luciano Salce, l’ironia è una cosa seria” che si aprirà giovedì prossimo a Roma, presso il Museo Nazionale Etrusco di Valle Giulia. Le foto che illustrano questo articolo sono tratte proprio dalla mostra in questione.