Francesco Arturo Saponaro
Alla 66esima edizione della Biennale Musica

I nuovi Mohicani

Tra le proposte del festival veneziano, suggestiva la “Native American Inspirations”, polifonia a cappella composta da discendenti del “popolo del grande fiume”. Leone d’Oro alla carriera a Giorgio Battistelli, d’Argento all’ensemble Ars Ludi

Si è chiusa a Venezia la 66esima Biennale Musica, storico festival internazionale di musica contemporanea, istituito nel 1930, due anni prima della Mostra del Cinema. Attualmente la responsabilità della direzione artistica è della compositrice Lucia Ronchetti, che è ben nota sulla scena internazionale, e tra l’altro ha impegnato la Biennale Musica nel commissionare diverse novità a vari autori. Diverse prime assolute in cartellone, quindi, come compete a un festival importante, e grande partecipazione di pubblico. Nella serata di apertura, come ogni anno si è tenuta la cerimonia di consegna del Leone d’oro alla carriera, attribuito stavolta al 69enne compositore Giorgio Battistelli. Questi è probabilmente l’autore italiano più eseguito, in Italia come all’estero, nel panorama della musica d’oggi e specialmente del teatro musicale. Da tempo meritava il prestigioso riconoscimento. Spettacolo inaugurale, al Teatro La Fenice, è stato il suo Jules Verne su libretto proprio, e spettacolo di chiusura, all’Arsenale, il suo successo mondiale da oltre 40 anni, con centinaia di esecuzioni ovunque. Si tratta di quell’Experimentum mundi che coinvolge un attore (a Venezia Peppe Servillo), quattro voci femminili, un percussionista, e soprattutto sedici artigiani, che costituiscono l’orchestra: falegnami, selciaioli, bottai, un pasticciere, muratori, fabbri ferrai, uno scalpellino, calzolai, arrotini. «Un villaggio di suoni – quelli del paese natale di Battistelli, Albano Laziale, come ricorda la presentazione – una drammaturgia del lavoro, in cui ciascun artigiano, esecutore in scena del proprio mestiere, alla fine della rappresentazione realizza un manufatto, in perfetta sincronia con i tempi musicali e teatrali previsti dalla partitura, in un gioco d’incastri timbrici e ritmici…». Altrettanto meritato l’altro riconoscimento, il Leone d’argento, conferito quest’anno all’ensemble Ars Ludi, ormai celebre trio di virtuosi delle percussioni (Antonio Caggiano, Rodolfo Rossi, Gianluca Ruggeri), che in decenni di attività ad alto livello ha saputo imporre una sua personalità interpretativa di suggestione infallibile, soprattutto della musica contemporanea. Non a caso Ars Ludi è stato anche protagonista di alcune serate del Festival.

Dal fitto cartellone, riferiamo di alcune proposte. Native American Inspirations ha suscitato grande meraviglia e curiosità. È uno spettacolo basato su musica corale, ispirata alla cultura musicale dei nativi americani, come indica il titolo. Musica scritta da compositori d’oggi, diretti discendenti di quei popoli indigeni. Compositori impegnati nell’orizzonte di linguaggi della musica occidentale, ma che, avendo assorbito anche quella cultura musicale autoctona, si danno da fare per recuperarla e valorizzarla. Il progetto dello spettacolo è nato in seno al Conservatorio di Shenandoah, in Virginia (Usa) che fa parte dell’omonima Università. Qui, la regista Ella Marchment ha ideato un testo nel quale un viaggiatore perso nel futuro incontra una comunità di Mohicani. Questi lo accolgono, e gli illustrano il loro mondo, il sapere, la cultura, raccontandoglieli mediante i loro canti, intonati coralmente. Canti presi dal catalogo di cinque musicisti nativo-americani, in una scelta che assembla i pezzi in successione, e li coordina con il racconto. È una polifonia – cioè con più parti contemporaneamente – a cappella, come si dice in gergo, vale a dire senza accompagnamento strumentale, e quindi esclusivamente cantata, a parte qualche minima percussione che dà un tocco di colore. Il viaggiatore è così trasportato in una dimensione espressiva di profonda saggezza, e di completa condivisione con la natura, in un canto che presenta una fisionomia e un’identità stupefacenti per le nostre orecchie, nell’uso di microintervalli e di scale etniche non facili da intonare. L’ascoltatore si trova avvolto in un’atmosfera, in una nuvola di indicibile suggestione. Merito di questi ragazzi, bravissimi e sempre intonati in un reticolo di parti differenti, ogni sezione ben concentrata sulla propria. In più, la regia ha spazializzato l’esecuzione, con il coro che in ogni pezzo si raggruppa diversamente, cambia formazione, e si muove sul palcoscenico. Di conseguenza, il risultato sonoro è sempre diverso, e sempre infallibile. Molto si deve al direttore Matt Oltman (nella foto vicino al titolo, Courtesy La Biennale di Venezia © Andrea Avezzù), attento, sicuro nel condurre i ragazzi attraverso un congegno polifonico ben diverso dai nostri usuali. 

“Visiones” di Helena Tulve (Courtesy La Biennale di Venezia © Andrea Avezzù)

Altro spettacolo di grande richiamo è stato Visions, una sacra rappresentazione con musica di Helena Tulve, affermata compositrice estone. Un programma coerente con il luogo, una Basilica di San Marco pienamente illuminata, che ha avvolto esecutori e pubblico nella sua meraviglia di architetture, mosaici e risorse acustiche. In questo spazio così unico, respira e si espande, nella musica di Helena Tulve, un’atmosfera rarefatta, contemplativa, che nelle intenzioni dell’autrice traccia uno spazio ascetico, mistico, di indubbia suggestione. La musicista estone prende spunto dalla musica medioevale di frammenti rinvenuti in una chiesa veneziana, e dalla musica di frammenti contenuti in un antico papiro copto. E il suo materiale sonoro si dilata su una linea espressiva piuttosto uniforme, ma di intenso magnetismo emotivo. In più, la partitura rende omaggio alle usanze “stereofoniche” che caratterizzavano il singolare profilo delle musiche corali create in San Marco dal secolo XV. Infatti, il cospicuo organico di Visions si colloca non soltanto davanti all’altare e al pubblico, ma anche nelle navate laterali, e in una cantoria in alto. Sicché il suono onirico di questo lavoro sorge da più parti, avvolgendo fascinosamente gli ascoltatori. Suono che è reso etereo, impalpabile dalla presenza del kannel, tipico strumento estone a corde pizzicate, simile al più comune salterio, e della nyckelharpa, strumento ad arco di tradizione svedese. Scelte compositive raffinate, e quanto mai calzanti al tipo di musica e al luogo. Non si può non sottolineare la prova superba del coro estone Vox Clamantis, della Cappella Marciana, e dell’Ensemble Barocco del Conservatorio di Venezia. Tutti condotti egregiamente, su una partitura che in questo luogo acquista il suo più alto significato, dalla direzione di Jaan-Eik Tulve.

Meno interessante Left Behind, novità della musicista statunitense Yvette Janine Jackson. È un’opera radio, destinata al mezzo radiofonico, cioè un racconto avvolto da paesaggi sonori elettroacustici, effetti, musica strumentale. È la prima di una serie di opere radio, ispirate dall’impatto ambientale e dalle ricadute socioeconomiche sulle collettività che risiedono vicino a basi di lanci spaziali. La compositrice ha anzi promosso la costituzione del Radio Opera Workshop, un ensemble vocato proprio a eseguire queste opere radio. Le premesse sembrano interessanti, dato che i testi vogliono portare in primo piano eventi e problemi della società contemporanea, attingendo a notizie giornalistiche, siti web di aziende, documenti storici. Ma il risultato musicale appare modesto, tra musica elettronica dal vivo che pervade il tutto in un disegno scontato e di debole presa, e una partecipazione di pochi strumenti su linee espressive di limitato richiamo. Giudizio non molto dissimile per un’altra novità assoluta, Ciatu (fiato, respiro, in dialetto siciliano), composta insieme al testo da Paolo Buonvino, musicista abitualmente impegnato nella creazione di colonne sonore per cinema e tv. Pur impegnando un imponente organico musicale e audiovisivo, e il Parco della Musica Contemporanea Ensemble diretto da Tonino Battista, la composizione appare nell’insieme poco caratterizzata e significativa. Unici momenti interessanti sono i sorprendenti, quelli sì, contributi dei tre vocalist – il soprano Rossella Ruini, il senegalese Badara Seck, senegalese, e il palestinese Faisal Taher – che colorano la partitura, con riferimenti, gli ultimi due, testuali e interpretativi alle rispettive tradizioni etniche.

Foto vicino al titolo, Courtesy La Biennale di Venezia © Andrea Avezzù, particolare

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