Una giornata di studi a Urbino
Bo, Gadda e Piccioni letteratura e fedeltà
Letteratura come vita. È una scelta che ha investito tutti i campi dell’esistenza dei tre scrittori, legati tra loro nell’arco dell’intera vita. Come testimoniano le lettere inedite tra i due critici letterari di cui si è parlato alla Fondazione Carlo e Marise Bo
“Col nuovo sole ti disturberò – Lettere, scritti e detti memorabili” di Carlo Emilio Gadda e Leone Piccioni (Succedeoggi Libri 2022), e “Leone Piccioni una vita per la letteratura”, che raccoglie gli atti del convegno a lui dedicato (Succedeoggi Libri, 2021). Sono i due volumi di cui si è parlato alla Fondazione Carlo e Marise Bo di Urbino. Ne hanno conversato Salvatore Ritrovato, Alberto Fraccacreta, Roberto M. Danese, Silvia Zoppi Garampi (che li ha curati) e Gloria Piccioni, di cui pubblichiamo la relazione dedicata al rapporto tra suo padre Leone e Carlo Bo.
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Sono grata e intimidita di trovarmi a parlare in questo tempio della cultura intitolato a Carlo e Marise Bo. Me lo consente il mio ruolo di “editore” – insieme a Nicola Fano e Rossella Baldi – di Succedeoggi Libri, e sono orgogliosa di rivestirlo avendo pubblicato volumi come Col nuovo sole ti disturberò di Carlo Emilio Gadda e Leone Piccioni e Leone Piccioni una vita per la letteratura – i due libri di cui qui parleremo – ma anche come Le Romantiche di Marise Ferro e Un segno indecifrabile di Carlo Bo. Ma c’è un’altra specificità nella quale mi piace riconoscermi e che vorrei che motivasse anche meglio il mio essere qui oggi. È quella di testimone: una figlia che testimonia della relazione di suo padre con il suo grande amico Carlo Bo. Se me lo consentite, dunque, vorrei brevemente intrattenervi sulla relazione tra Carlo Bo e Leone Piccioni, in cui è ovviamente presente Marise Ferro e che si ricollega anche a Carlo Emilio Gadda che Bo ben conosceva. (Ricordo come Carlo, alla fine di molte cene condivise, sollecitasse il Babbo a raccontare di Gadda, dei suoi “detti memorabili” contenuti nel libro Col nuovo sole ti disturberò…).
Ma per dire di Carlo e il Babbo, non ricorrerò al mio lacunoso sapere, né ai miei ricordi – che sono tuttavia tanti e che riguardano ogni tempo della mia vita in cui ho avuto il privilegio di entrare in questa relazione, vivendo un legame che poi nel tempo si è saldato in modo autonomo, anche qui a Urbino quando frequentavo l’Università. Per dire di Carlo Bo e di Leone Piccioni, ricorro al fitto e prolungato scambio epistolare che i due hanno intrattenuto dal 1950, via via diradandosi fino al 1980, quando l’abitudine di sentirsi al telefono ha sostituito la parola scritta. La mia ricognizione, del tutto “impressionistica” – la ricognizione di “una non addetta ai lavori”– si è potuta svolgere consultando la corrispondenza di Carlo indirizzata a Leone, conservata insieme agli altri epistolari di mio padre e a una parte della sua biblioteca, all’Archivio Centrale dello Stato di Roma. Molte lettere brevi, forse un centinaio data la mole della cartella che le contiene e la finezza della carta da lettere. Sono lettere che probabilmente deluderebbero chi si aspettasse di trovarvi considerazioni sui massimi sistemi della letteratura, ma in cui molto traspare della letteratura di cui Bo e Piccioni hanno contribuito a fare la storia.
Nelle prime missive datate 1950, Carlo si rivolge a Leone con il “lei”, ma quando si passa al “tu” si avverte subito che tra loro si è stabilita molta confidenza. Le prime lettere riguardano i termini della collaborazione alla Terza pagina del “Popolo” diretta da mio padre, nella quale aveva appunto invitato Carlo a collaborare. Una collaborazione che da lì in poi si estende alla radio per cui Carlo propose e condusse una serie di interviste che si doveva articolare in 10/12 puntate. A questo proposito Carlo racconta di come gli intervistati (Ferrata e Sereni, per esempio) fossero bisognosi di guadagnare e dunque di ricevere un compenso per l’intervista (Carlo ne parla ad Angioletti, di cui ricorre il nome insieme a quello di Seroni, di Gadda e di Cattaneo, a cui Bo invia attraverso Leone i suoi saluti). Per la “rivista” e per il giornale, Carlo chiede di recensire libri di Ungaretti, di Gadda e di autori francesi. In una lettera di Bo del gennaio del ’51, si legge. «Ho avuto la visita del bischeraccio: ti dirò a voce le sue incredibili osservazioni (ma ci siamo accordati)». Mistero fitto, almeno per me, su chi sia “il bischeraccio”. Nel marzo del ’51, allegato a una lettera che riporta quella data, c’è un lungo testo con sei risposte raccolte da Carlo sul neorealismo nel cinema italiano, destinate alla sua rubrica radiofonica di interviste e successivamente raccolte in volume. Forse lette alla radio in quella stessa circostanza che dà al Babbo lo spunto per raccontare un aneddoto in “Identikit per Carlo Emilio”? «(Gadda) – scrive Piccioni – correggendo il testo di una rassegna cinematografica, trovò un elogio del cinema neorealista italiano. Al lato del foglio scrisse un suo giudizio, come del resto faceva spesso: “Macaco!”. Quando l’annunciatore lesse il testo fornitogli, pronunciò: «Il neorealismo macaco del cinema italiano».
Dal febbraio del ’52, alcune lettere alludono ai colloqui avuti o da combinare con Vallecchi per far nascere una nuova rivista. E si nominano iniziative per la nascita di altre rivista, una diretta da De Benedetti, un’altra da Vittorini. In data 12 aprile 1952: «Carissimo, un piccolo grazie per Dizzy (immagino sia un disco di Gillespie, passione che Leone ha voluto condividere con l’amico). Le 100 dei Fabbri erano poi 80: i misteri dei milionari sono infiniti come quelli di Dio. A parte gli scherzi ti avverto che la Vittoria Guerrini (Cristina Campo) farebbe volentieri la segretaria della rivista». E nel post scriptum di Marise: «Caro Leone, si ricorda la mia proposta su George Sand? Se accetta, mi dica di quante pagine deve essere il manoscritto. Buona Pasqua e molti affettuosi saluti dalla sua Marise». Per l’“Approdo”, Carlo prepara uno scritto su Santa Teresa. Per un numero della “Fiera letteraria”, curato da Leone e interamente dedicato a Ungaretti, vuole scrivere di Un grido e paesaggi.
Premi letterari: si parla del Premio Taranto, del Pietrasanta che Angioletti vuol fare rinascere, del Marzotto. C’è una lettera di Bo, datata 10 settembre 1956, che se fosse datata un anno più tardi si potrebbe riferire al mancato premio Marzotto a Gadda. Suona così: «Carissimo Leone, quella sera scappai da Roma schiumante di rabbia per la mascalsonaggine di certi individui e la viltà degli altri. Dal mio silenzio avrai capito che purtroppo rimasi soccombente. Per il grosso non si decise nulla: ci si ritroverà il 21. (…) Mi è rincresciuto molto non essere riuscito in quello che era un mio vivo desiderio e mi sembrava un atto di giustizia: spero che lo capirai». Certamente Carlo si riferisce a tutt’altro, ma la non designazione di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana come libro vincente al Marzotto del 1957, come bene ricostruisce in Col nuovo sole ti disturberò Silvia Zoppi Garampi, fu piuttosto clamorosa. Scrive Piccioni a Gadda il 5 agosto 1957 di aver visto Bo a Firenze, che gli ha riferito della «brutta impressione» ricevuta da alcune «merde del Marzotto», quei due o tre giurati che «non gradirono il feroce sarcasmo del Pasticciaccio nei confronti di Mussolini». Del resto Gadda, che sul premio riponeva qualche speranza, del resto alimentata dalla stessa speranza di Piccioni, scrive a Leone: «Al Marzapane vorrei non pensare, perché una lunga alternazione di speranze-delusioni mi stanca: e poi, se sono nemici e neo-fessi, come mi hai detto di P.e di S., non posso e non voglio avere un premio dai nemici». Il riferimento è ad Antonio Pagliaro e a Edoardo Soprano.
Del ‘53 una lettera che si riferisce al libro di Leone Sui contemporanei pubblicato dai Fratelli Fabbri Editori: «Carissimo Leone, oggi i Fabbri mi hanno dato il tuo libro. L’ho subito sfogliato e poi ho letto il capitolo che mi hai dedicato. Te ne ringrazio di cuore, sei stato così buono da farmi arrossire, da stentare il riconoscimento. Soprattutto se penso alle mie colpe, alla mia miseria, a tutto quello che ho sciupato per inerzia e accidia. Mi auguro che un consenso così largo come il tuo mi aiuti a riprendere lena e coraggio. Grazie dunque di cuore a abbiti un abbraccio fraterno, Carlo. P.S. Saluta Osanna anche da parte di Marise. Risponde Leone: «Carlo Carlino, ricevo la tua lettera che mi ha davvero commosso anche perché quelle poche pagine che ti ho dedicato mi parvero frettolose e insufficienti a precisare i motivi della mia ammirazione per te e per il tuo lavoro. Ma grazie di aver compreso l’intenzione che mi guidava. Più in qua, quando ne avrai avuto con calma il tempo, ti sarò grato se mi dirai francamente cosa pensi del libro… ». Più tardi Carlo chiede, in una lettera del ’54, di poter recensire Sui contemporanei perché gli «consentirebbe un lungo discorso sulla critica ai giovani». Non mancano altri scambi successivi per ringraziarsi dell’interesse espresso in libri, giornali o riviste, ora dall’uno ora dall’altro, su reciproche o altrui opere. In un telegramma: «Appena tornato leggo tuo splendido articolo che mi commuove Gratissimo penetrazione et intelligenza critica Abbraccioti molto affettuosamente Grazie Carlo». Altro telegramma: «Ricevuto libro ringrazioti dedica che mi onora et commuove Ti abbraccio». O, in una lettera di Carlo: «… (il tuo pezzo su Pavese è piaciuto molto e non solo a me: sei rimasta l’unica voce libera, e quale elogio più bello ti si può fare?).
In molte occasioni i due amici si testimoniano affettuosa vicinanza in momenti dolorosi della loro vita: nel ’61, rispondendo a Leone nella circostanza della morte della sorella, Carlo la definisce un’esperienza «spaventosa, al di là della più disperata immaginazione». Prima, nel ’53 e nel ’54, Carlo è molto presente nei giorni cruciali del Caso Montesi, la terribile vicenda giudiziaria in cui fu coinvolto Piero Piccioni, nata per colpire il padre Attilio destinato a succedere a De Gasperi. Piero fu completamente scagionato dall’accusa di omicidio nel 1957: «Caro Leone… spero che presto sia passata per voi questa mareggiata di miserie e di fandonie»… Da Sestri, il 14 agosto del ‘53: «Carissimo Leone, ho pensato molto a te e a tuo Padre in questi giorni, alla fatica, alla noia e alla rabbia: ti ho seguito anche sulle foto dei giornali e ho notato le tue smorfie di disgusto. Deve essere meglio la letteratura, e ancora!». E nei giorni successivi all’arresto di Piero, nel settembre del ’54: «Carissimo Leone, se non ti ho mai scritto in questi giorni dà la colpa alla mia vergognosa inerzia ma credi che ti siamo stati e ti siamo costantemente vicini col cuore. Vicino a te, a Osanna e ai tuoi. Coraggio, se ti può in qualche modo portare un po’ di sollievo sappi che i tuoi amici ti vogliono bene e ti augurano la serenità… Ti abbraccio Carlo». E, per mano di Marise: «Ti sono vicina con tutto il cuore». Risponde Leone: «Caro Carlo, come non esserti grato? Non solo del tuo biglietto, così tempestivo e così affettuoso (ed ho preso buona nota dell’altra firma e dì a lei del mio ricordo affettuoso e del mio grazie!), ma per tante altre gesta tue, ho saputo, in piazze, bar e strade di Firenze in difesa di Piero e dunque di me, e dunque di noi. Ti abbraccio affettuosamente e a presto spero, il tuo Leone». Nonostante il drammatico momento non manca in una di queste lettere una chiusa divertente. Conclude Carlo, nell’agosto del ‘53: «Le ragazzine del Forte (Forte dei Marmi) non si vedono in nessun altro luogo: qui da noi è roba di famiglia, a Portofino ci sono delle vecchiacce». Del resto i due personaggi non mancavano di spirito, e anche tra loro il gioco dell’ironia era molto frequentato. Scrive Leone in chiusura di una lettera del ’54: «Marise? Ha sempre intenzione a passarti un mensile e a lasciarti libero? Salutala tanto anche da parte di Osanna… ».
Nel maggio del ’57 Carlo e Leone si scambiano lettere per l’organizzazione della presenza a Urbino di Ungaretti. L’“Antico” sarà ospite dell’Università. Tra i presenti anche Nicola Lisi. Scrive Carlo: «…faremo una bella festa al vecchio, le ragazze sono già eccitate e lo aspettano». Nel maggio del ’61 Carlo invia all’“Approdo” le bozze correte di Hemingway e la “rassegna”. E alla fine rivolge rallegramenti all’amico, chiedendogli se è contento: forse per una nuova nomina in Rai. Il 24 dicembre dello stesso anno, righe toccanti nell’imminenza del Natale: «Carissimo, grazie degli auguri che ti ricambiamo con il cuore di sempre. E grazie del bene e dell’affetto che ci dimostri in ogni occasione. Nella mia vita non è rimasto altro: se penso a Sestri, non riesco a vincere le lacrime. Ma ho perduto troppo. Ciao Leone, lavora e sii felice. Te lo auguriamo di cuore Marise e io e lo diciamo anche a Osanna. Ti abbraccio, Carlo». Nel ’66 una lettera-memorandum su come si articolerà la presenza di Leone a Urbino tra lezioni e conferenze durante i corsi estivi, meta consueta spesso anche per noi che lo accompagnavamo: prima lezione il 10 luglio, ore 18 (Leopardi); conferenza l’11, ore 18, crisi del romanzo; seconda lezione il 12, ore 11 (Foscolo). Quanto vorrei aver assistito a quelle lezioni! Ancora note malinconiche in chiusura di una lettera del 3 aprile del ’67: «Ho visto che l’Antico si è imbarcato per il Brasile, è davvero prodigioso. Marise ti saluta e ti ringrazia sempre per il nuovo lavoro che le hai dato. Siamo stati una settimana a Sestri, è stato abbastanza bello, nonostante la tristezza dei ricordi e i segni della vecchiaia. Ciao, Leone, ti abbraccio e credi al mio costante affetto».
Ha scritto mio fratello Giovanni, nella sua relazione sulla formazione di Leone Piccioni al convegno a lui dedicato, contenuta nel libro Leone Piccioni una vita per la letteratura che ne raccoglie gli Atti e che ci porta con Gadda qui, oggi: «Fino dagli anni fiorentini il lavoro di Carlo Bo esercitò su mio padre una grande suggestione. Il suo impegno, il suo modo di intendere, di proporre e soffrire il rapporto tra letteratura e vita (…) Le scelte di Bo come lettore di testi contemporanei sono guidate dall’impegno per una visione morale e sociale. Attraverso la letteratura è intriso di una passione per l’umanità. Una letteratura che non nasce in una torre d’avorio, ma che sgorga dal contatto con l’esperienza della vita, che tiene conto delle ragioni morali delle persone. Fu così che mio padre si convinse che era più giusto impegnarsi per una letteratura viva, meditando sull’esistenza che ci circonda piuttosto che chiudersi nella filologia». Ecco l’impressione che ho ricevuto dalla lettura di queste lettere che ho cercato di raccontare, ma che – insieme alle 91 di Leone a Carlo conservate in questa Fondazione – meritano l’interesse di uno studioso che voglia auspicabilmente ricavarne un libro… l’impressione che ho ricevuto, dicevo, è che il forte legame che per tutta la vita Carlo Bo e Leone Piccioni hanno mantenuto è inscritto nel solco di “letteratura come vita”. Una postura esistenziale, un modo di essere, di percepire, di vivere i rapporti interpersonali che per essere autentico viene nutrito con un indispensabile ingrediente: la Fedeltà. Fedeltà ai Maestri e agli Amici. Per mio padre fedeltà a Leopardi, a De Robertis, a Ungaretti, a Gadda, a Luzi e ad altri amati. E fedeltà a Carlo Bo, la stessa fedeltà che Carlo Bo ha pienamente sentito, vissuto, ricambiato.