Periscopio (globale)
A cena con Vonnegut
A cento anni dalla nascita, rileggiamo Kurt Vonnegut. Uno scrittore dal tono "familiare" ma che, dietro lo schermo dell'ironia dissacrante, come Twain nascondeva le domande filosofiche fondamentali
C’è qualche scrittore (pochi, a dire il vero) che dispiace non aver conosciuto di persona, con cui si sarebbe voluto condividere una cena o almeno conversare in un bar. Uno di questi è senza dubbio Kurt Vonnegut. Nel centenario della nascita, avvenuta l’11 novembre 1922 a Indianapolis, sembrerebbe quasi un delitto non cogliere l’occasione per ricordarne l’arguzia, l’ironia, la carica anticonformista, più ancora forse dei suoi pur evidenti meriti di scrittore, e soprattutto al di là delle condizioni oggettive che ne fecero – alla fine degli anni Sessanta e all’inizio dei Settanta – un autore di culto.
Vonnegut nasce in una famiglia di architetti di origine tedesca – il padre Kurt Vonnegut Sr. firma molti edifici importanti nell’Indiana – e per parte di madre di facoltosi eredi di una fortuna creata grazie a un birrificio. Alla famiglia, ben integrata e incline al patriottismo, soprattutto alla luce delle polemiche antitedesche seguite alla Grande guerra, rimprovererà sempre di non avergli insegnato il tedesco e di averlo lasciato senza autentiche radici culturali. Tanto l’azienda paterna quanto il birrificio saranno poi duramente colpiti rispettivamente dalla Grande Depressione e dal proibizionismo, riducendo i Vonnegut quasi in povertà e spingendo la madre al suicidio. Interrotti gli studi scientifici all’università a causa della nuova entrata in guerra degli Stati Uniti e del conseguente arruolamento, Vonnegut Jr. (come si firmerà sempre) viene mandato nelle Fiandre. Nel dicembre del 1944 è fatto prigioniero dai tedeschi con altri cinquanta soldati americani e internato a Dresda in un mattatoio, dove sopravviverà all’intenso bombardamento alleato che tra il 13 e il 15 febbraio 1945 rade al suolo la città, causando la morte di un numero ancora imprecisato di civili, oggi stimato intorno a 25.000. Al suo ritorno abbastanza rocambolesco in patria sposa una ex compagna di scuola (anzi addirittura d’asilo) da cui avrà tre figli, cui si aggiungeranno nel 1958 tre nipoti rimasti improvvisamente orfani di entrambi i genitori che la coppia Vonnegut adotterà e crescerà. Iscrittosi all’università di Chicago, che in seguito gli rifiuterà ben due tesi di laurea, Vonnegut comincia a lavorare la notte come reporter per un giornale, per poi passare come pubblicitario alla General Electric, e nel 1952 pubblica un primo romanzo di fantascienza, Player Piano (Piano meccanico), ispirato proprio all’alienante esperienza lavorativa, immaginando una civiltà in cui la tecnologia prende gradualmente il posto degli umani, crea una società repressiva e provoca rivolte sociali. Già in questo libro s’impongono all’attenzione quegli elementi distopici e satirici che informeranno tutta la sua opera successiva e che già erano apparsi in nuce nel primo racconto pubblicato due anni prima, “Report on the Barnhouse Effect”, la storia di uno scienziato che non vuole rivelare al governo una scoperta dalle enormi ripercussioni, per paura che sia usata a fini militari anziché per il bene dell’umanità, e che viene quindi perseguitato ed eliminato.
Nel 1959 è la volta di un altro romanzo fantascientifico, The Sirens of Titan (Le sirene di Titano), con tanto d’invasione marziana della Terra e un primo assaggio di quei viaggi nel tempo e dell’influenza dell’immaginario pianeta Tralfamadore cui Vonnegut resterà affezionato tanto da riproporli in diversi testi successivi. Nel 1961 pubblica un altro romanzo, Mother Night (Madre notte), più ascrivibile stavolta al genere spionistico, e il racconto “Harrison Bergeron”, dove immagina un futuro distopico in cui tutti gli uomini siano livellati dal punto di vista intellettuale e i più dotati siano perseguitati e costretti a non far uso, oltre un certo limite, della propria intelligenza, pena la morte. Qui si accentuano i tratti satirici e iconoclasti della vena di Vonnegut, che torneranno nei romanzi Cat’s Cradle (Ghiaccio-nove), del 1963, e God Bless You, Mr. Rosewater (Dio la benedica, signor Rosewater o Le perle ai porci), del 1964. Nel primo – che poté presentare al posto della tesi e gli valse finalmente la laurea in antropologia – immagina la creazione di una sostanza fatale per l’umanità, peggiore anche della bomba atomica, denunciando en passant l’inconsapevolezza degli scienziati che creano nuove tecnologie senza curarsi delle loro conseguenze. Nel secondo mette invece in scena un novello San Francesco, il figlio di un senatore repubblicano che si ritrova in possesso di una ricchezza sterminata e decide, da tutti ostacolato, di condividerla con il mondo, dichiarando suoi eredi tutti i bambini della città. Qui compare per la prima volta – ed è questo un procedimento che Vonnegut adotta spesso e volentieri – un personaggio che poi riemergerà in opere successive, l’eccentrico scrittore di fantascienza Kilgore Trout (un alter ego di Vonnegut). Così come nel romanzo successivo rispunterà lo stesso protagonista, Eliot Rosewater, quale unico ammiratore di Trout.
Anche grazie a una borsa Guggenheim, che gli consente di tornare in Germania per delle ricerche sul campo, nel 1969 Vonnegut pubblica il suo primo e forse unico grande successo, Slaughterhouse-Five (Mattatoio n° 5), da cui il regista George Roy Hill trarrà un paio di anni dopo un film premiato a Cannes e ingentilito da esecuzioni bachiane di Glenn Gould. Sebbene tratti del bombardamento di Dresda, e dunque di un crimine di guerra avvenuto più di vent’anni prima – un ventennio che fra l’altro è servito a Vonnegut per elaborare le proprie emozioni sull’episodio e trovare il modo giusto per comunicarle –, il libro viene interpretato contro un manifesto contro tutte le guerre e diventa una specie di feticcio per i giovani che contestavano la guerra nel Vietnam, proiettando all’improvviso Vonnegut nell’empireo degli scrittori più famosi e ascoltati. Nel suo stile rapido e scoppiettante, non esente da pennellate di umorismo nero, Vonnegut mescola abilmente elementi autobiografici e fantascientifici, seguendo le avventure di un giovane assistente cappellano, Billy Pilgrim, fatto prigioniero dai tedeschi, sopravvissuto al bombardamento di Dresda, poi rientrato in patria dove grazie al ricco suocero si farà una posizione, ma anche rapito dagli alieni e portato a scopi di studio sul pianeta Tralfamadore. Qui gli si apriranno nuovi orizzonti anche perché Billy abbraccerà la superiore filosofia dei tralfamadoriani, per i quali la morte non ha importanza perché tutti i momenti della vita sono compresenti e avvengono allo stesso tempo.
Vonnegut è il primo a stupirsi della propria popolarità negli ambienti della controcultura giovanile, che non colgono le numerosissime allusioni filosofiche, storiche, letterarie e in generale culturali e leggono il suo romanzo come un semplice inno al pacifismo. Ma intanto onori e incarichi, sebbene non troppo sollecitati, si susseguono e si moltiplicano, e Vonnegut ne approfitta per tentare anche la strada del teatro e affinare ancor più il proprio repertorio di battute salaci e pungenti nei confronti del potere politico, che reagirà tentando di censurarlo e boicottarlo in ogni modo. Quanto al mondo della cultura alta, se è vero che già fin dal 1965 alcuni critici, fra cui Robert Scholes e Leslie Fiedler, avevano tentato di sottrarlo al ghetto degli scrittori di fantascienza, è solo grazie a Mattatoio n° 5 che Vonnegut entra di diritto fra gli scrittori veri, quelli che interessano ai grandi editori e alle riviste di tendenza. Su queste ultime comincia a pubblicare numerosi racconti e le famose “otto regole” di scrittura che riporto, tradotte, alla fine di questo micro-saggio.
Nel frattempo, con i figli ormai grandi, e rimasto solo con la moglie da cui lo dividono sempre più scelte religiose contrapposte, Vonnegut assiste alla fine della sua lunga vita coniugale. Dopo il divorzio lascia la casa coniugale di Cape Cod e si trasferisce a New York, dove stringerà una forte amicizia, basata su esperienze comuni, con il vicino di casa, il disegnatore Saul Steinberg. Nel 1973 esce Breakfast of Champions (La colazione dei campioni) e nel 1976 Slapstick (Comica finale), romanzi (quest’ultimo dedicato ai personaggi di Stanlio e Ollio) accolti freddamente dalla critica e con cui non riesce a ripetere il successo di Mattatoio n° 5. Nel 1979 si risposa con un’affermata fotografa, con la quale adotterà una bambina, e usciranno nuovi romanzi, ma il loro moderato successo non riuscirà a distoglierlo e guarirlo dall’alcolismo e da una strisciante forma di depressione che nel 1984 lo indurrà anche a un tentativo di suicidio con un mix di alcool e pasticche. Dieci anni dopo l’uscita dell’ultimo libro, Timequake (Cronosisma), del 1997, ultima apparizione di Kilgore Trout, l’ottantaquattrenne Vonnegut morirà l’11 aprile 2007 a seguito di un incidente domestico, inciampando cioè sui gradini della porta di casa.
Tra le varie fonti d’ispirazione (Orwell, Thoreau, Wells, Swift ecc.) è stato citato più volte Mark Twain, un pessimista illuminato che in effetti Vonnegut venerava e la cui cifra stilistica e umoristica sembra averlo influenzato a più riprese. Malgrado il taglio postmoderno e sperimentale, Vonnegut è legato al “metodo” di Twain, il dissimulare sotto un’apparente superficie ironica e dissacrante quelle domande filosofiche fondamentali – sul senso della nostra vita e sull’esistenza o meno di una divinità superiore – a cui da millenni cerchiamo una risposta. “Christ-worshipping agnostic”, come lui stesso si è definito, su quest’ultimo punto Vonnegut sospende il giudizio, ma non esita a esprimere i suoi dubbi, non foss’altro che per il modo indecoroso in cui la civiltà è andata decadendo, se non scomparendo, al più tardi dopo la Grande guerra. Impermeabile a tutte le chiese, Vonnegut apprezza e fa proprio l’insegnamento del Sermone della Montagna nel Vangelo secondo Matteo, combinandolo con un socialismo romantico in contrasto con l’intera american way of life basata sul successo sociale ed economico e con il capitalismo. Capitalismo che, lasciato senza freni, mina alla sua base proprio quella compresenza e convivenza civile fra popoli distanti fra loro che degli Stati Uniti è il segno distintivo. All’epoca non c’era ancora Trump, ma c’era in compenso un certo Reagan che aveva appena provato a ottenere la nomination repubblicana. E non è un caso – per fare un solo esempio della sottile ironia di Vonnegut – che in Mattatoio n° 5 sulla Cadillac della moglie di Billy, la borghesissima Valencia, figuri un adesivo di sostegno all’attore, che assume un valore ancor più simbolico quando l’automobile si fa veicolo di morte. Ma negli Stati Uniti (e nel mondo) il peggio doveva ancora venire, e gli anni di Trump, che speriamo non abbiano a ripetersi, gli hanno dato, a posteriori, pienamente ragione.
Un’altra forte influenza, sebbene molto più lontana, sono a mio avviso le commedie di Aristofane, della cui corrosiva critica ai costumi Vonnegut riprende alcuni elementi. Così come ne mutua la brutale schiettezza, che nella sua narrativa si traduce in uno stile diretto e spoglio, conciso, senza orpelli, tanto da fare dei suoi romanzi un’inesausta conversazione, spesso satirica e umoristica, con il lettore. Conversazione tesa a demistificare la realtà, a depurarla da tutte le errate convinzioni e convenzioni con cui la affrontiamo, a farci andare al nucleo delle cose, che è poi – seppur trattato con ironia – il messaggio evangelico e umanista: l’andare incontro agli altri, l’esser capaci di solidarietà e condivisione, di sim-patia, unico antidoto alla stoltezza dell’uomo e alla vacuità dell’esistere. Ed è stato anche uno dei primi, Vonnegut, a capire che stiamo portando il mondo alla rovina, e anzi a sostenere già al volgere del millennio, ante litteram e prima di qualunque Greta, che il pianeta è probabilmente già condannato.
Poi certo, il più delle volte, e malgrado i nostri sforzi, le cose vanno come vanno. Anzi, per dirla con l’intercalare usato e abusato in Mattatoio n° 5 – che è poi, ripetuto qui ben centosei volte, il motto dei tralfamadoriani e diventerà quello della protesta contro la guerra nel Vietnam –, “so it goes”, ovvero così va la vita. Ma non è detto che debba essere sempre questo, l’epilogo. O forse sì: perché, come direbbero i tralfamadoriani, lo è sempre stato e sempre lo sarà.
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Le otto regole di base della scrittura creativa
Utilizza il tempo di un perfetto sconosciuto in modo tale che a lui/lei non sembri sprecato.
Dai al lettore almeno un personaggio per il quale possa fare il tifo.
Ogni personaggio dovrebbe volere qualcosa, fosse solo un bicchier d’acqua.
Ogni frase deve fare una di queste due cose: descrivere il personaggio o far avanzare l’azione.Inizia quanto più possibile vicino alla fine.
Sii sadico. Per quanto i tuoi personaggi principali possano essere dolci e innocenti, fai accader loro cose terribili, in modo che il lettore possa vedere di che pasta sono fatti.
Scrivi per piacere a una sola persona. Se apri una finestra e fai l’amore, diciamo così, con il mondo, la tua storia si buscherà una polmonite.
Fornisci ai tuoi lettori quante più informazioni possibili il prima possibile. Al diavolo la suspense. I lettori dovrebbero avere una comprensione completa di quanto sta succedendo, del dove e perché, tanto da poter finire la storia da soli, se gli scarafaggi dovessero mangiarsi le ultime pagine.
La più grande scrittrice americana di racconti della mia generazione è stata Flannery O’Connor (1925-1964). Ha infranto praticamente tutte le mie regole tranne la prima. I grandi scrittori tendono a fare così.