“Prima di nascere” di Claudio Damiani
Verso l’inconoscibile
È un’interrogazione continua quella del poeta romano nella sua nuova raccolta di versi. Domande cruciali sull’esistenza, tra speranze e inquietudini per il vuoto che ci accompagna. Misurando il battito della vita e “arrivando al tempo che ci ha preceduto”
Il nuovo libro di poesia di Claudio Damiani, Prima di nascere (Fazi), propone temi che ampliano il dettato del poeta, arricchendone la ‘visuale‘ conoscitiva, umana ed emozionale, e spostando l’orizzonte più oltre, pur rimanendo intatto il tono lieve, incisivo e mai debordante, risultando perfetta quell’annotazione di Filippo La Porta allorché sottolinea che «La semplicità dei suoi versi è un punto di arrivo, è il risultato di un’autodepurazione dello sguardo, di un esercizio spirituale prolungato». Ciò poi che ha contraddistinto la poesia di Damiani fin dagli inizi, una poesia la sua che è andata in senso contrario a un dire poetico generale contrassegnato, di volta in volta, o da un dilagante ermetismo o da una scrittura in prosa declinata su un minimalismo senza accenti creativi o ancora versata su paralizzanti avanguardismi; mentre il poeta romano ha scelto vie originali, che accoglievano pure certa tradizione letteraria, anche antica. Peraltro a quel Damiani iniziale mi lega un ricordo lontano. Roberto Carifi, durante l’ascolto di una sua lettura, con altri giovani poeti, mi disse: «Quando leggo o ascolto i versi di Damiani, vivo come in uno stato di tenerezza infinita, e vorrei piangere, ma poi anche gioisco» (ma dove, mi chiedo, avvenne quella lettura? penso a Viareggio, e proprio lì in questi giorni il poeta ha vinto l’ambitissimo e glorioso premio Viareggio-poesia, che appare sempre come un traguardo unico per un poeta).
Il discorso di Carifi era legato a quel Damiani mosso dall’esperienza di “Prato pagano”, teso su uno spazio intimo, su emozioni ‘semplici’, soprattutto fatto di persone e luoghi che hanno animato la propria vita. Non che il dire del poeta oggi sia così lontano da quegli aspetti ‘domestici’, però indubbiamente il suo sguardo, pur ‘arpionato’ nell’amato ‘cortile’, spazia in vie che arrivano fino a un universo, fisico e astratto, assai più complesso. Infatti possiamo parlare di una poesia che esprime un pensiero poetante dalle molte implicazioni, mediata dalla semplicità di una versificazione che si getta nella contesa con una purezza che meraviglia, seppure nel volgere di una profondità rara nella sua insistita ricerca del conoscere, finanche verso ciò che per definizione è inconoscibile. Poesia che si snoda in una interrogazione continua, tra visioni apocalittiche, incontri con i propri defunti, domande cruciali sull’esistenza, slanci d’amore, confortevoli speranze e altrettante buie attenzioni al vuoto che ci accompagna. E ancora sguardi incantati al cosmo che ci avvolge. Ciò con l’angoscia o il sollievo di ‘misurare’ il battito continuo della vita, finanche arrivando a quello che ci ha preceduto. E come premessa quel lapidario constatare che: «La notte è così nera/ ma noi fortunatamente siamo ciechi», una sintesi perfetta di un sentire che si fa ferita ma pure assillante osservazione.
Dicevamo di una poesia complessa quella di Damiani, che tocca i mille quesiti che ci portiamo appresso da sempre e che hanno impegnato, e lacerato, i filosofi che da tanto interpelliamo. Damiani fa riferimento in una poesia a Emanuele Severino e a quel trapezio di cui il filosofo accenna: l’attrezzo che incanta e lascia al contempo la paura di una rovinosa caduta, pensando al complicato muoversi dell’acrobata, ma soprattutto a noi, nell’esercizio pericoloso di prendere un altro ‘attrezzo’; scrive infatti il poeta nei suoi affilati e tesi versi: «Ma se noi abbiamo lasciato un trapezio/ e ancora non abbiamo preso l’altro/ e siamo ancora nella sospensione del vuoto,/ se l’altro trapezio sta oscillando nello spazio/ e ancora non ci ha raggiunto/… / ho messo al mondo tre figli nel vuoto». È dunque questa dimensione dell’inconoscibile, del vuoto che ci perseguita e che è sempre in agguato e che non può dare alcuna certezza, il confronto che muove il poeta, anche se la speranza a volte si ‘affaccia’ in questa poesia. Ricorre spesso lo stare in una dimensione che atterrisce, lo stare in una guerra continua che non lascia scampo, che ci coinvolge mentre non sappiamo nulla di essa, neppure chi sono i nemici che avanzano e ci possono annientare: «non vogliamo sapere/ dove andiamo, contro chi combattiamo/ dove sarà la battaglia e che succederà/ non vogliamo sapere niente/ preferiamo così».Ma nulla è assertivo in questa poesia, dolente sì, ma aperta all’incontro, dialogante per definizione, bisognosa del confronto, animata da una dolcezza particolare, invitante a un passaggio comune e pronta a vedere nell’altro una umanità unica («Io penso a tutti, non mi dimentico di nessuno»).
Ma il tema che più intriga di questa riflessione in versi del poeta romano è la questione del “prima di nascere”, già esplicitato nel titolo, e ricorrente in tante poesie. Chiaramente nulla a che vedere con quella che oggi viene chiamata ‘metafisica della gravidanza’, che pone il problema se il nascituro può essere parte del corpo della madre o meno. La poesia che tratteggia questa ‘ossessione’ (certamente tra le più belle del libro), pone ben altra questione, ed è tra le più sorprendenti e spiazzanti allo stesso tempo, e squarcia uno spaccato umano profondo, ponendoci alla scoperta di una dimensione intima infinita: «Quando ero piccolo avevo le vertigini/ a pensare dove ero stato prima/ di nascere, mi vedevo come sospeso/ nel non essere, un infinito abisso,/ ora invece so che ho vissuto/ tutto il tempo per tutto il tempo che è stato/ e non c’è nessuna cosa che non ho veduto». Oppure no, e nell’inevitabile affacciarsi del dubbio, ci sono le riflessioni piagate che ci assillano, cioè sapere che tutto è eternamente sospeso nell’abisso di una perdurante incertezza, che è poi la riflessione sul tempo, sulla durata del tempo in cui è collocata la nostra fragile vita: «Mi sembra di aver vissuto/ ma anche di non aver vissuto,/ di aver vissuto tutto il tempo/ e di non aver vissuto neanche un istante». La durata del tempo vissuto e quello che ci aspetta ancora, senz’altro sempre troppo breve, è l’inesorabile confronto con chi rimarrà nel viottolo che congiunge al lago Fraturno, o al monte Soratte, sia esso un piccolo che ci osserva, destinato comunque a un esiguo tratto, o il sasso, o piuttosto la stella che sicuramente rimarrà a vigilare per un tempo largo, in quella distanza in cui potrà guardare la luce e il buio di queste terre, e qui si va oltre ogni idea di tempo, così che la stessa durata del tempo, sfinisce il poeta che invece non potrà riversare i suoi sguardi oltre l’angolo di casa, e in un sommesso balbettare avverte che: «Questa vita che ho finirà tra poco/ e l’universo continuerà/ nel suo lungo cammino». Lo sgomento quindi di una fine, ma pure la sorpresa di sapere che «non è vero che prima di nascere non c’eri», quindi ‘fregare’ il tempo, con l’invenzione di un altro tempo che addirittura è iniziato prima che si nascesse. Allora negli altri periodi storici c’eravamo, e non solo conosciamo quei fatti perché Tucidide o Cicerone o altri ci hanno raccontato, fummo lì in altre epoche, magari nel ‘300, con la vista di un assalto al castello che oggi guardiamo distratti. Passiamo tra mille età, ma siamo stati lì o forse fummo lì solo perché un nostro antenato lì c’era e la linea della storia non si cancella. Per cui, solennemente il poeta potrà affermare: «Cari amici, mi chiedo questo: è possibile che nel ‘300/ io non sono vissuto?/ Davvero quest’eventualità/ mi pare quantomeno incredibile».
Allora di fronte ai tanti dubbi che ci travolgono, l’esigenza primaria è quella di stare assieme, perché la vita finisce ma pure si ricompone con tutti coloro che ci hanno accompagnato negli anni e ci hanno amato e ascoltato e ci hanno rivolto uno sguardo amico nella sorpresa di un attimo, è il percorso della nostra vita, e diviene un’accoglienza speciale allorché «ecco aprirsi una porta, e nella stanza/ ci sono tutti! è una stanza immensa/ e ti salutano gioiosi e applaudono/ come un compleanno a sorpresa/ e dicono: “Hai visto? Sei contento?/ Come stai? Come ti senti?”». Accoglienza che, nel senso attuale del tempo, ci porta a una natura che ci guarda muta, sfiancata dai battiti metallici di una ferita che si fa voragine, che si fa domanda a noi che osserviamo senza vedere e senza capire il volgere verso la fine del mondo, e Damiani, come un bimbo vigile nel suo giaciglio, dove vi si immerge e con tenera e fragile occhiata, sospira: «Mi nascondo nel bosco, tra i cespugli/ entro nell’intrico dei triboli/ e resto fermo acquattato/ sento il silenzio a me intorno/ come un formicolio impercettibile/ sento il mio respiro/ stando fermo sento passare il tempo/ il tempo passa e io lo ascolto».
Due opere di Gustave Klimt: vicino al titolo, “Le tre età della donna”; nel testo, “Speranza”