A proposito di "Niente di vero"
Famiglie ristrette
Il (pluripremiato) romanzo di Veronica Raimo è il ritratto finto-autobiografico di una generazione di figli in cerca di se stessi. E di ragioni per essere diversi dai padri. Una storia sospesa tra Roma e Berlino
Il sottogenere dei libri autobiografici dei personaggi “televisivi” appare caratterizzato da una certa vanagloria e operazioni cosmetiche agli autori, danarosamente ravvoltolati nell’infotainment e quindi ansiosi di moralizzare la propria immagine. Tra i contenuti improbabili, come è stato osservato: lodare la specchiata virtù dei familiari, raccomandare la frugalità degli avi, somministrare mestoli di scialbi sentimentalismi da orfanezza, addentrarsi nella selva di banali pensieroni sulla vita, la società, i diritti.
Il tutto suona meno che midcult, ritagliato industrialmente per lettori poco istruiti, da non intimidire con ragionamenti complessi, pozzetti gravitazionali di identità autodifensive, nelle quali la “presenza”, nell’accezione di Ernesto De Martino – cioè ritrovarsi al centro di un mondo ordinato e dotato di senso, in un cantuccio storico-culturale al quale si sente di appartenere – si riduce all’io minimo di una micro-borghesia invasa dai media, affannata per la self-preservation, occupata a esorcizzare la sua inconsistenza ontologica attraverso difese intrapsichiche, emulazioni più o meno goffe, tatuaggi “tribali” (così almeno appartiene a qualcosa), mitragliate di selfie coi filtri Instagram per insicurezze di accettarsi “così com’è”.
D’altronde, ogni autobiografia fin dai tempi di Sant’Agostino consiste in un modo specifico di rivelarsi all’altro ed è facoltà dell’autore decidere come impostare il famoso patto autobiografico di Philippe Lejeune; se giocare a carte scoperte, organizzare depistaggi, cambiare le regole del genere, premere sul pedale stilistico, accentuando così, come ha suggerito Jean Starobinski, l’importanza del presente nell’atto di ricordare, favorendo l’arbitrarietà della narrazione e la superiorità sull’io remoto piuttosto che la fedeltà della reminiscenza.
Messi poi di fronte alle evidenze della psicologia cognitiva e sperimentale, giurare di dire tutta la verità su se stessi come Rousseau o Alfieri diventa molto rischioso. L’introspezione è una chimera e la memoria non operativa (quella “nobile”, che non si interessa del perché sappiamo andare in bicicletta) un dispositivo inaffidabile, al servizio dell’auto-apologia e delle spiegazioni ex post di ciò che si è combinato. Per questo si discute di autobiografie tagliate a julienne per ottenere un decoroso correlato linguistico della inafferrabilità dell’autocoscienza, come pure di iper- o ipo-affermazione del sé: le ridicole sovraesposizioni social della sora Cecia e dei suoi gattini ma anche forme di depersonalizzazione, indotte dalla società di massa, dai mezzi di comunicazione o dall’annullamento di diritti, ad esempio quello di parola, soverchiato dal rumore dei media digitali.
Come uscirne? Come può lo “scrittore”, nella sua funzione di anticorpo al masscult, recuperare un’identità credibile di critico e sociologo? Iniziando dal titolo, come fa Veronica Raimo? La scrittrice (Niente di vero, Einaudi, 176 pagine, 18 Euro) ci offre un suo spaccato personale di famiglia piccolo borghese fine secolo scorso, stramba nella media, in cuiperò, a differenza dei memoir delle star, si dichiara che non c’è Niente di vero, a partire dalla secondogenita Veronica, che mai sarà chiamata col suo nome, ma con nomignoli come Verika (dalla madre), Oca (dal padre), Scarafona, Smilzi, V., Veca, Sveka, Onica, Nicca, Nip, Straccetto, Capezzolina, Miss Frangetta e anche Troia. L’autrice, che avrà letto Gilbert Ryle o Gerald Edelman, sostiene che “la maggior parte dei ricordi ci abbandona senza che nemmeno ce ne accorgiamo” (memoria operativa); per quanto riguarda i restanti (memoria dichiarativa, il saper dire, il “sapere che”), “siamo noi a rifilarli di nascosto, a spacciarli in giro, a promuoverli con zelo, venditori porta a porta, imbonitori in cerca di qualcuno da abbindolare che si abboni alla nostra storia”.
Allora la casa dolce casa, dove ognuno aveva “il proprio modo di sabotare la memoria per tornaconto personale”, diventa un groviglio di fobie, noia e disfunzioni: la madre ha problemi irrisolti di attaccamento, il padre nevrotico igienista costruisce tramezzi di foratine tra una stanza e l’altra, il fratello primo della classe è una guida ma anche un concorrente, il nonno almeno è soccorrevole, ma solo per le difficoltà sul water che apparentano la protagonista bambina a Italo Calvino.
Ce n’è per tutti, e come operazione di cattura statistica dei lettori funziona mica male: il romanzo è stato nella cinquina dello Strega e ha vinto lo Strega Giovani. Ci sono i palazzoni anonimi, l’appartamento angusto, l’amica del cuore, i banchi scolastici, la musica pop, i Dr. Martens da tosta, la fuga nell’austera Berlino mitizzata già ai tempi di Christiane F., di Eno e Bowie e Wenders. Qui, guarda caso, la gente la chiama una buona volta Veronica, “ma con la K, Veronika, come la rockstar che sognavo di essere… Come potrei essere all’altezza di quel nome?”. Già, si trova nel luogo dove un tempo si portava la Bildung di Von Humboldt, il fondatore del sistema universitario tedesco, cioè la severa educazione complessiva, morale e spirituale, del borghese, che poteva poi dedicarsi davvero al Bildungsroman, il romanzo di formazione, impraticabile nell’Italia burlesque e sciamannata della giovinezza di una bugiarda controvoglia, paese in cui non si può che puntare sul grottesco e l’assurdo, come in molto cinema e tanta novellistica, denunciando al contempo un’insopprimibile nostalgia romantica per poesia e verità, surrogate dal rigore degli anfibi militari e dall’etica dark e punk, nella capitale tedesca molto più di casa che nella molle Roma dei caseggiati popolari a Ponte Mammolo e Rebibbia.
In patria la ragazza possedeva una “caratteristica innata”, non venendo riconosciuta da nessuno, dai parenti pugliesi, dagli amici più stretti, neanche dalla madre, che agli appuntamenti in giro abbracciava al suo posto tizie a caso, per combinazione giovani mamme provviste di un contratto a tempo indeterminato, “un marito premuroso che le mantiene, e una bella casa in qualche zona residenziale di Roma preferibilmente con un terrazzo”. Veronika, perso per perso, scriverà tutti i suoi libri a Berlino, “a casa di qualcun altro”, in “uno squat di gay maschi vegani”, nello studiolo di un’artista “che aveva tutte le pareti dipinte di nero con affisse le sue opere, ovvero tute da meccanico trafitte da un’ascia”, nell’attico di un giornalista “con una collezione di vinili da cinquantamila euro”. In quel periodo aveva i capelli corti e se ne andava a spasso con le divise del giornalista “da cantante folk del Midwest”, tanto che “un pomeriggio la sua dirimpettaia mi ha detto che ero ringiovanito senza barba”. Parlando del romanzo social FakeAccounts di Lauren Oyler, Raimo ha fatto un cauto elogio della scrittrice americana – berlinese d’adozione sul serio – per la maestria con cui ha scongiurato eventuali ripulse dello sprezzante egotismo della protagonista mediante un continuo esercizio autocritico, tarato però su un livello molto alto di sarcasmo. In Niente di vero non c’è questa posa, rendendo possibile la raffigurazione, grazie ad autoironia e teatro, di un noncurante sex appeal (la pratica delle storie sentimentali è sbrigata in poche pagine), di sfottò sulla “vocazione” artistica e di un io così solido da rassicurarsi di esistere senza contrattazioni costose. Insomma, un Pirandello 2.0, stand-up comedy servita dry, senza oliva e il famoso “umorismo”.
La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini