A Palazzo Santa Chiara, a Roma
Nel deserto di Moretti
Una bella mostra, a Roma, ripropone l'arte visionaria di Mario Moretti, uno dei protagonisti della Nuova Figurazione tutto da riscoprire. E le sue opere lanciano un ponte verso la memorie di Marguerite Yourcenar
Devo a Mario Moretti (1937-2017) – un artista romano emerso dalla generazione che a fine anni Sessanta sventolava la bandiera ed esplorava i confini di una Nuova Figurazione, con cui ho condiviso l’avventura e la sintonia di un’amicizia di sfumature, pudori e profumi d’intesa fuori età, interrotta bruscamente della sua morte – una folgorazione visionaria che ha moltiplicato la mia voglia di stare al mondo e di trovare il mio modo, i miei modi per dirmi e dirlo. Qualcosa di molto simile alla limpida, sorprendente, sconosciuta vitalità dei colori, rossi, blu, neri, bianchi mai visti così, che ho riscoperto dopo un’operazione per rimuovere la cataratta guardando i quadri che avevo dipinto. E improvvisamente mi guardavano con altri occhi.
L’anarchia di oggetti, sostanze che si ribellavano alla gabbia d’immobilità e di senso in cui li credevo congelati e mi restituivano l’anarchia imprevedibile del mio essere istante. un istante che precipita in un altro istante. Il finito e l’infinito che si toccano. Si sovrappongono l’uno all’altro. Si dicono a vicenda.
Proprio come l’orizzonte verso cui Mario Moretti mi ha trascinato con le sue opere più rarefatte e più spoglie, la serie dei Deserti, sulla quale si è concentrato per quasi vent’anni. Solo polvere, come la sabbia di un’immensa clessidra che calcola lo scorrere del tempo. E luce. L’orizzonte che non è più solo convenzione per misurare l’estensione dello sguardo e intuire la curvatura del nostro pianeta che cogli in uno spazio aperto. E neppure la riduzione a una immaginaria linea piatta, calamita di ogni altra linea, altri piani convergenti, che è il codice fondante della prospettiva, un gioco d’inganni che pure ha rivoluzionato la pittura. Ma il punto focale di relazione in cui il mistero del nostro essere si fonda e si specchia nel mistero dell’universo.
Non solo un volo d’immaginazione da assaporare da fermi anche davanti a un ostacolo come la siepe di Leopardi, ma una voragine mobile che ingloba il respirare e il sentire. E tutte le esperienze che ne hai avuto. Sopra, sotto. Prima e dopo. Passato, presente, futuro. Il fuori e il dentro. Il perdersi e il ritrovarsi. La pace e l’inquietudine dello spaesamento. La partenza e il ritorno. E molto di più, perché ogni intervento dell’occhio che abbraccia questa visione gli aggiunge un nuovo senso, una nuova storia. L’assoluto che si fa relativo.
Peccato che questa profezia aperta d’indeterminazione, così calzante con le derive di questo nostro terzo Millennio, possa generare paure e arretramenti. Come quello di archiviare l’avventura e il messaggio, consapevole e inconsapevole di Mario Moretti dentro rassicuranti confini di genere. Un pittore di paesaggio. Etichetta che lo rigetta fuori dei territori performativi e concettuali dell’attualità. Verso quella nebbia di disattenzione con cui molta critica e l’intero sistema dell’arte sta impacchettando il destino e la sopravvivenza della pittura. E che ha già ingiustamente confinato in vita la carriera, i meriti, le novità di Moretti nell’anticamera delle seconde e terze file che è un preludio all’oblio.
Chissà che ad aprire lo squarcio di un ripensamento e ad arginare questo spreco imperdonabile di suggestioni e talento non possa contribuire la mostra antologica appena inaugurata e in cartellone almeno per tutto il prossimo mese che a cinque anni dalla morte consente al pubblico romano di rivisitare le opere e gli orizzonti di Mario Moretti. Una mostra in scena negli spazi di palazzo Santa Chiara, alle spalle del Pantheon, che includo non solo come tributo personale di gratitudine, tra gli eventi da non perdere di questo scorcio d’autunno.
Fa ben sperare il taglio e il futuro di mostra itinerante che le è stato impresso: il debutto qualche settimana fa alle scuderie Estensi di Tivoli, ora l’approdo in forma lievemente ridotta nella capitale, poi la dichiarata intenzione di farla girare in Italia e all’estero in altre sedi. Ma alimenta fondate speranze soprattutto il singolare gemellaggio che l’ha generata e segna l’ingresso in campo nel ruolo di promotore di un prestigioso sodalizio di caratura e respiro internazionale, l’associazione Antinoo, impegnata da anni a tener vivi la memoria e il pensiero di una protagonista della letteratura e della cultura del secondo Novecento, Marguerite Yourcenar.
Le premesse di questo incontro sono incise dal titolo che incornicia la mostra Se volessimo ancora tentare di salvare la terra. E lo stralcio di un accorato appello pronunciato dall’autrice delle Memorie di Adriano in un convegno sulla salvaguardia dell’ambiente, svoltosi in Canada nel settembre del 1987, pochi mesi prima della sua morte. Un testamento dimenticato di denuncia e di impegno che il Centro Antinoo ha ripescato come un messaggio scagliato in mare in una bottiglia e si è proposto di rilanciare come fulcro di azione e dibattito cercando nel mondo delle arti figurative una cassa di risonanza capace di raggiungere e coinvolgere con un linguaggio diretto al cuore la sensibilità di un pubblico aperto ma non addestrato alle politiche e agli interventi sulla salvaguardia della natura retrocessi in un pantano di rinvii e immobilità dalle logiche di sfruttamento che guidano economia e finanza.
Una ricerca che si è conclusa quando quasi a caso Laura Monachesi, una delle fondatrici del centro, si è trovata di fronte ai quadri di Mario Moretti, che non aveva mai osservato dal vivo, scoprendo la straordinaria sintonia di emozioni e di resa tra quei suoi dolorosi orizzonti dipinti, sospesi tra l’incanto della bellezza e la nostalgia di un ultimo abbraccio e quei tesori di meraviglia assediata e in via di scomparsa evocati da Marguerite Yourcenar come unica fragile sponda di senso e di vita per l’umanità sull’orlo dell’abisso.
Due biografie distanti per approcci ed esperienze ma convergenti, persino nell’eleganza quasi aristocratica, forse per entrambi disperata, del trovar sfogo alle proprie ansie e debolezze non in un ordine perentorio alla lotta da militanti in trincea ma in un appello sfumato alla fantasia di quel se… di quel volessimo tentare, di quell’ancora, la ribellione affidata alla consapevolezza sfumata di un sogno da decifrare e tener vivo al risveglio come unico ponte percorribile per tradurre un suggerimento, un sussulto d’allarme dell’anima , un monito dell’inconscio personale in responsabilità collettiva.
Così dunque, attraverso questa traccia nascosta di percezioni ed echi speculari, si è giunti a questa mostra e alla doppia proiezione al futuro che potrebbe generare. Rimettere in circolo con forza il messaggio della Yourcenar a percorrere la strada di un ambientalismo più introiettato e dunque più difficile da seppellire nel torpore delle abitudini. E restituire visibilità attenzione e attualità all’universo visionario di un artista, davvero unico nel panorama di oggi, penalizzato da quel suo parlar sottovoce che non cerca scandalo, rifiuta di gridare la propria verità, la colora di dubbi.
Occhio alle opere dunque. È il momento di ascoltarle e sentire come a loro modo occupano la scena di oggi e declinano il titolo e l’empatia con la grande scrittrice con cui sono associate.
Sono una quarantina tra tele e riquadri di legno dipinti, vengono tutte da quello scrigno di ammirata memoria in cui le ha custodite Carla Mazzoni, gallerista e intellettuale di rango che è stata prima compagna di strada e poi di vita di Mario Moretti, ne ha amministrato la carriera e ne tutela ora la permanenza e il ritorno in circolazione.
Non una vera retrospettiva. Mancano i capitoli di partenza, alcune significative digressioni. Piuttosto un’antologica a tema, che registra con concisa efficacia il modo con cui Mario Moretti ha scoperto nell’orizzonte di quei paesaggi su cui si è concentrato per quasi mezzo secolo l’essenza del suo orizzonte. Una ricerca faticosa di contemplazione e viaggi riassunta qui a Santa Chiara in tre tappe.
La prima, datata inizio anni Ottanta, ripropone un tragitto interiore analogo a quello immortalato da Leopardi, l’infinito come un aldilà intuito oltre la barriera di una siepe. Ma è un punto di vista capovolto. La barriera di verde e di grigi che nei quadri calamita lo sguardo è già essa stessa un altrove, più che una barriera una massa viva che vibra in penombra di potenza e vita segreta. Per raggiungerla il pittore ricorre ad un artificio quella di sorvolarla e inquadrarla dall’alto come se ci si affacciasse da un aereo o da un elicottero, ritagliarla da un contorno vaporoso di aria.
Non so se sia l’esperienza partorita da un volo vero o magari da un trapianto di fantasia e di vissuto, operazione di chirurgia mentale che segna come una cifra inconfondibile la postura di continua mobilità del suo rapporto con il tempo. So però dalle note della sua biografia dove e quando e come questo modo di calarsi e nuotare nella profondità di un paesaggio è avvenuto: nelle macchie di vegetazione spontanea e di alberature frondose della tenuta presidenziale di Castelporziano che Moretti, sfruttando un privilegio concesso a pochi, ha attraversato da spettatore solitario e dove ha piantato il suo cavalletto immaginario di pittore – lui dipingeva solo nel suo studio intingendo il pennello nei ricordi. Aiutandosi a volte con qualche fotografia.
La seconda tappa dell’itinerario pittorico di Mario Moretti inizia lì a Castelporziano e poi si estende ad abbracciare l’intera tavolozza di tonalità cromatiche, spunti visivi e orizzonti del Mediterraneo. Sono quadri dove il mare si fonde con il cielo e in cielo svapora spesso il fantasma di una luna, ma al centro irrompe la sabbia: l’acqua e l’aria non hanno tempo, la sabbia invece lo misura come scivolasse all’interno di una clessidra e gli da corpo guidando lo sguardo verso il pulsare miracoloso della vita che genera e nasconde Può essere la chioma di un palmizio o un ciuffo d’erba che occupano il cuore del palcoscenico come isole e dilagano in una anarchia geografica che non offre più confini riconoscibili. Alle dune di Ostia si sovrappongono quelle di Sabaudia e poi altri arenili vuoti e spopolati dove Moretti ha sostato nelle sue vacanze contemplative. Fino a debordare nello spettacolo dei deserti che – racconta Carla Mazzoni – diventano una delle mete obbligate dei loro viaggi nel mondo. Dal Sudafrica, all’Asia, dagli altopiani della Turchia al Sahara. Ricordi incamerati e fusi in uno stesso impasto di fascinazioni e pensieri come i colori rubati ad ogni sosta. Un trapasso dal grigio al rosso, dall’ocra all’arancio fissato da pennellate sottili come lame, volatili come soffi di vento.
Ora non c’è più posto per il mare e anche il cielo si trascolora in polvere. L’orizzonte è ovunque e in nessun luogo, un moto continuo dell’anima. Un respiro che parte da dentro e si riconosce, sconfina nel respiro del cosmo, come spiega il critico Gabriele Simongini, in uno dei saggi più illuminanti in catalogo. L’invisibile che si fa visibile attraverso un artificio rubato più o meno inconsapevolmente al teatro. L’invenzione di una luce che si accende all’improvviso e ti guida verso il cuore della scena, verso “l’attore” che Mario Moretti sistema e ritrae in azione nei suoi panorami di sabbia a recitare un monologo che sai che non durerà, ma è sufficiente a interrompere il senso di perdita, solitudine, spaesamento. Quasi sempre è una palma semisommersa che agita, rassegnata e rabbiosa, la vita delle sue fronde. Altre volte uno spuntone di sabbia che si accende di tramonto, ma sta già sfarinando più in là, verso altre forme.
Sono convinto che Marguerite Yourcenar avrebbe vissuto questi quadri, che non ha mai visto, come uno specchio in cui avrebbe forse visto riflettersi il fantasma del proprio personaggio più riuscito, quell’imperatore Adriano che morente sussurra i versi di una poesia, entrata nell’hit parade del mondo classico: Animula vagula blandula… (Animuccia vagabonda leggiadra/ ospite ecompagna del corpo/ in quali luoghi andrai ora tu pallida, fredda e nuda,/ e non darai più gioia, come sei solita). Un addio malinconico e un senso di perdita irreparabile da contrastare per quanto si può, di cui ritrovo echi nel suo appello per salvare il salvabile del mondo in rovina. E nel testamento di quei deserti che Mario Moretti ci ha lasciato in eredità.
L’ultimo che ha firmato risale al 2014, quando scoprì i primi segnali di quell’inesorabile malattia che lo avrebbe portato alla tomba. Per qualche mese cercò di rimuovere quel presagio di fine dipingendo un altro ciclo di quadri ispirati al tragico volo di Icaro, che chiudono il percorso di questa mostra. L’orizzonte che recuperava, accettando di nuovo la sfida del volo, la linea del mare, i colori che cercavano il conforto di toni più acquosi, la luce che si andava spegnendo nell’ombra. Un atto rimasto incompiuto .Non aveva più le forze per praticare con la stessa meticolosa intensità la sua pittura. E per combattere altre battaglie ,oltre quella per la sopravvivenza , che stava a poco a poco perdendo. A noi il compito di proseguirla lungo la linea degli orizzonti , inquietanti e attuali come domande che attendono, ancora, risposte. Se….