Giuliano Compagno
"Orizzonti verticali" a San Gimignano

Sognare coi piedi

Memorie personali e storie collettive popolano un bel monologo di Michele Santeramo - ispirato a Osvaldo Soriano e interpretato da Fabio Facchini - che immagina un campionato di calcio fra migranti. Lo sport diventa uno strumento per indagare la memoria collettiva

Al Torrione di Mangiapecore di San Gimignano si è inaugurata la 10ª edizione di “Orizzonti Verticali”, festival di teatro, danza, incontri e performance che Tuccio Guicciardini e Patrizia de Bari hanno ideato e dirigono con sobria immaginazione. A sera, godendo di una “ventilazione finalmente apprezzabile”, come avrebbe detto Sandro Ciotti, si è assistito a un monologo. Il soggetto e la drammaturgia quasi calcistiche sono di Michele Santeramo, che nella sua terra ha ambientato una narrazione per voce sola ispirata a uno storico racconto di Osvaldo Soriano, Il Mundial dimenticato. Si dice che in Patagonia, nel 1942, si siano affrontate dodici squadre di cui Marcello Di Dio renderà un mosaico assai curioso: «Formazioni composte da pochi giocatori professionisti mescolati a migranti di mezzo mondo, operai e minatori, ingegneri ed ex cercatori d’oro, acrobati del circo e rivoluzionari in esilio, soldati nazisti e indios mapuches». Accadde davvero? E chi vinse alla fine?

E allora Santeramo ha inventato un’altra storia possibile e temporalmente adattabile nel meridione italiano anni Novanta. Storia d’amore e di calcio, titolo metonimico che egli dedica a un giovane di natali pugliesi, al tempo in cui cercano di convivere immigrati europei, maghrebini, africani e sudamericani. Si ricorderà che l’elezione di Giovanni Paolo II aveva concesso a migliaia di polacchi di lasciare a casa sua Wojciech Jaruzelski e la sua tetraggine. L’impatto si era avvolto di un velo di santità, il che non si sarebbe ripetuto con l’approdo a Bari del mercantile Vlora. 8 agosto 1991: il più grande sbarco di migranti giunti in Italia con un’unica nave.

Ricordava la moglie del sindaco Enrico Dalfino che egli si era precipitato al porto prima ancora che la nave sbarcasse. Essendo agosto inoltrato, a Bari non vi era un solo rappresentante istituzionale: non il prefetto, non il comandante della polizia municipale, non il vescovo. Delfino ignorava a cosa stesse andando incontro. Dopo qualche ora avrebbe chiamato la consorte: «Aveva una voce commossa, non riusciva quasi a parlare. Mi disse che c’era una marea di disperati e di assetati che stava lì in attesa di un cenno, di una minima accoglienza. Sono persone! Sono persone disperate! Noi siamo la loro ultima speranza». A Daniele Vicari dobbiamo il documentario La nave dolce, titolo che aveva ripreso l’oggetto dei commerci della Vlora tra Cuba e l’Albania: lo zucchero di canna. Si sa anche che tristemente 18 mila esseri umani, ossia il 90% di quei migranti avventurosi, furono rimandati in Albania per dar tempo alle autorità italiane di approntare un accordo modello tra Roma e Tirana, che avrebbe presto favorito un movimento regolare dei richiedenti ospitalità.

Michele Santeramo ricorda perfettamente quei giorni drammatici. Sentiva che ciò stava mutando la percezione del fenomeno migratorio. Per la prima volta quelle persone erano viste come esseri singolari, ciascuno recante il proprio vissuto il proprio sofferto destino. E così dopo qualche anno ripensa ai loro volti e al nostro sgomento (non è retorica, eravamo sgomenti davvero) e in quel Dappertutto Sud che è la sua Puglia, in un anonimo paesino dell’entroterra, immagina migranti che tra loro si sopportino confusamente e che non mostrino alcun desiderio di mescolarsi ad altri compagni di sventura.

Sicché la storia nasce da una lite che via via si gonfia e che coinvolge un po’ tutti, tanto da indurre i capi, il giorno dopo, a convocare un vertice malavitoso. Decidono di dare forma alla rivalità e di organizzare un campionato del mondo di calcio clandestino. Ogni squadra, composta da sette giocatori, affronterà l’altra in un campetto ricavato dalla piazza centrale. Il torneo si svolgerà a eliminazione diretta e la vincitrice avrà per un anno il controllo delle attività criminoidi. Nell’incedere della narrazione ripensavo agli anni che avevano segnato una brutta rivoluzione del nostro calcio. L’avvento di Silvio Berlusconi alla presidenza del Milan aveva contribuito alla spettacolarizzazione e alla professionalizzazione dello sport. In due parole, show business. Inoltre, a seguito della sentenza Bosman emessa nel 1995 dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, veniva abolito il limite di giocatori stranieri in ciascuna squadra, nonché fissata una regolamentazione in materia di calciomercato; in base a essa i calciatori potevano trasferirsi gratuitamente a un altro club dell’Unione, firmare precontratti gratuiti con squadre interessate e condizionare ogni trasferimento in base al loro assenso. Ciò aveva stravolto i rapporti tra le società e i loro tesserati.

I calciatori cioè non erano più dipendenti ma liberi professionisti. Berlusconi fu il primo a interpretare aggressivamente la sentenza e a trasformare il calcio in un mercato aperto, senza regole e senza tetti di stipendio, così da allargare il divario tra le società ricche e le società che non potevano in alcun modo permettersi l’acquisto di campioni a prezzi miliardari. Il Palo delle Libertà…

Fabio Facchini ha tenuto la scena con temperamento e leggerezza. In fondo mi piaceva il fatto che egli incarnasse un giocatore di altri tempi, un giovane italiano di un’epoca finita e un po’ rimpianta, un attore di quelli che negli anni ’80 e ’90 si spendevano nell’arte del palcoscenico in nome di una passione, di un’idea, di tante letture e della frequentazione di corsi e di maestri prestigiosi. La sua presenza ieratica me lo rendeva prossimo a quei centrocampisti di un’altra epoca che, con amore e con serietà, indossavano senza soluzione la stessa maglia. Mi emoziona elencare i nomi di coloro che, con il tempo, sarebbero divenuti bandiere di una città: Gianni Rivera e Sandro Mazzola a Milano, Giacomo Bulgarelli a Bologna, Antonio Juliano a Napoli, Giacomino Losi a Roma, Gigi Riva a Cagliari. Quest’ultimo avrebbe rifiutato un ingaggio milionario pur di non tradire la fiducia del suo pubblico.

Ma vi è un altro calciatore che, pur non esplicitamente citato, è stato più volte evocato in Storia d’amore e di calcio. Succede allorquando il protagonista elogia la sua abilità nel trasformare le punizioni di prima (così era definito il calcio da fermo) grazie a un tiro “a foglia morta”, arte proverbiale di calciare con delicatezza e precisione di interno piede sì da imporre alla palla un effetto a lenta rotazione che andrà a spegnersi all’incrocio dei pali. Lui si chiamava Mario Corso, ed Edmondo Berselli ne scrisse mirabilmente ne Il più mancino dei tiri.

Non so se Mariolino si fosse innamorato di una bella indiana, né se la sua storia sia mai incorsa in esiti tragici. So che l’Italia di Puglia vinse ma che l’amore del ragazzo pugliese finì malissimo; questo ci ha narrato Fabio Facchini e a me sono venute in mente due frasi di Osvaldo Soriano: «La palla gli passò tra i malleoli come una goccia d’acqua tra le dita» è stata la prima.

Nel solco della medesima poesia, da Riva a Maradona, è scritta la breve pagina del calcio che ho amato. «Alle volte immagino – scrisse ancora l’argentino – di dividere le cose tra quelle umane e quelle sovrumane. Borges e Cervantes avevano qualche cosa di indefinibile che li poneva al di là, ed è per questo che perdoniamo loro un sacco di cose. Maradona è così: non è di questo mondo. Sì, Maradona è così».

Era un monologo, Storia d’amore e di calcio, invece abbiamo dialogato.

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