Daniela Matronola
A proposito di "Domani interrogo"

La scuola-frullatore

Non è solo un romanzo sulla scuola, il nuovo libro di Gaja Cenciarelli: è soprattutto un'indagine sull'amore che lega insegnanti e alunni. Un rapporto vitale che unisce le generazioni nel nome della scoperta della vita

C’è un’immagine, nel film The Queen, che resta impressa con la forza della simbologia e credo sia opportuno tirare in ballo a proposito di Domani interrogo di Gaja Cenciarelli (romanzo, già molti hanno detto o scritto, sulla scuola, uscito da Marsilio): mi riferisco all’apparizione del cervo maestoso nella boscaglia di Balmoral dove Elisabetta II, The Queen, si è temporaneamente rifugiata all’indomani della morte per incidente di Diana Spencer sotto il tunnel dell’Alma a Parigi, un probabile caso di omicidio stradale dai retroscena indicibili. La regina si aggira tra i boschi su in Scozia: vi è arrivata in Land Rover, una Defender, la più robusta e tosta da guidare della gamma. Il cervo le appare all’improvviso e la scruta: reggendo lo sguardo altero a lungo, le pone una serie di mute domande. Soprattutto il cervo nella coscienza della regina in fuga fa il paio immediato con la simile figura della scomparsa Diana Spencer, anche lei creatura indomita e regale, irriducibile alle regole ferree e un po’ ottuse, selvatica e imprevedibile, in una parola, scandalosamente libera, dunque d’impaccio, di inciampo (il significato originario della parola greca scàndalon).    

Bene, nel romanzo Domani interrogo di Gaja Cenciarelli, nel prologo, ci imbattiamo in una giraffa, presente anche nell’immagine di copertina, animale da circo che la professoressa, protagonista del romanzo, e alter ego dell’autrice – ma anche figura riassuntiva di every[teaching](wo)man che “sta per” un’intera maestosa categoria extra, nel mondo, la classe docente –, incontra mentre si aggira nella zona della scuola dove ha avuto l’incarico annuale di Lingua e Letteratura Inglese. Della giraffa, la prof in questione ha molto: è recalcitrante a farsi risucchiare dalla cecità burocratica della scuola, è timida e prudente nell’approccio, atterrita all’inizio come ogni nuovo attore in una scena sconosciuta dunque ostile, però compassata e intenta a silenziosa osservazione del nuovo ambiente prima di ogni grido o protesta o nuovo proposito.

Prima di abbandonare questo breve preambolo e addentrarmi nel libro, preciso che proprio questa comparazione tra le due simbologie animali (oltre a riportarci alla mente tutta la fauna di cui la fiaba soprattutto, in letteratura, si è avvalsa per dare sagoma e polpa al piano connotativo e/o simbologico o forse meglio allegorico) conferma ciò che tutti sappiamo: la letteratura è madre al cinema, il quale ha trovato nei meccanismi di traduzione in immagine il modo di mostrare ciò che la letteratura (de)scrive. Lo sapevamo già però è meglio ripetercelo, ed è la ragione per cui ho provato a formulare l’equazione tra il cervo del film e la giraffa del libro.

E dunque questa giraffa in cattività, questo pesce fuor d’acqua, si ritrova nei recinti, pieni di acque melmose, della scuola, di una in particolare, ma data una le hai date tutte. Insegnerà inglese (la letteratura!, più che la lingua) in molte classi ma la classe delle classi è la Quinta (“A”), la classe degli esami. La reazione comune, soprattutto da parte di chi guarda la scuola da fuori (ma chi è docente non ci casca manco per niente), è reagire al carosello di alunni e allo spettacolo vario dei loro vezzi e vizi oltre che al loro codice linguistico, con formule tipo: Guarda che fauna! Sottilmente, l’autrice, abile e agile linguista, sparge tutta una serie di parole-chiave che parlano chiaro a chi le coglie: barnout (cioè fuori dalle stalle) è il nome del locale dove i ragazzi si ritrovano; e ce n’è un altro, quickslow (cioè LestoLento), che pure suona significativo: allude all’indolenza e alla pigrizia sorniona degli studenti che in realtà quando vogliono prendono tempo per studiarti senza fretta (e senza studiare, sia chiaro), e poi sono sveltissimi ad agire o reagire quando serve. Un punto comune dopotutto tra la docente e i suoi studenti, mi pare. Attendismo e revanchismo in purezza di cuore.

Il romanzo non trascura un solo elemento possibile tra le allusioni a tutto quanto già è stato scritto o messo in scena sulla scuola, però qui ve ne risparmio l’elenco. Preferisco citare solo Dickens e il suo Hard Times, epitome della sua sarcastica visione dell’utilitarismo benthamiano imperante nella sua Inghilterra, l’Inghilterra vittoriana, cioè di quel cinismo aberrante che risultava tanto più spietato quanto più era applicato senza sconti nella scuola, dove vigevano allora forse persino meno tutele sui minori che nelle fabbriche. Cioè se ripenso al maestro, Mr Gradgrind, che, gradualmente, e dunque inesorabilmente, si adopera per ridurre gli allievi a puri ingranaggi dell’efficiente macchina sociale vittoriana, non posso non ripensare alla faccenda della definizione di cavallo: il suo cocco, l’allievo modello, si attiene ai fatti e definisce il cavallo con una sorta di fredda scheda tecnica; la tenera Cecilia, figlia di stalliere, indulge invece in una descrizione personale e sentimentale perché convive coi cavalli (e sappiamo bene quanto peso e senso essi abbiano nella conclusione dei Viaggi di Gulliver di Swift…). Ecco, la professoressa protagonista di Domani interrogo, di Gaja Cenciarelli, sa, perché lo percepisce immediatamente, che i ragazzi e le ragazze con cui avrà a che fare in classe sono dei purosangue, anche se il frullatore-scuola in cui sono per così dire imprigionati in quel pugno di mesi del loro ultimo anno di liceo, e così l’intero periodo scolastico da cui provano a venir fuori, hanno suscitato in loro reazioni di rivolta e indolenza, di autodistruzione e solipsismo, di umanità e spietatezza, e, miracolo dei miracoli, a mio parere, la costruzione di un codice che merita un discorso a sé, che provo a fare più avanti.

La professoressa è una specie di apparizione nelle loro vite, il materializzarsi di una creatura che loro non subito riusciranno con fiducia a riconoscere come una consimile, come qualcuno che non esigerà tanto una loro passiva efficienza da soldatini dell’apprendimento, ma saprà prenderli per mano senza ricette già pronte ma con un investimento di intelligenza e sensibilità che alla lunga saprà pagare. Non si porrà verso di loro in atteggiamento clinico-giudicante (tutti medici e sapienti, avrebbe detto Edoardo Bennato), e non esigerà da loro se non di diventare consapevoli e capaci di sottrarsi al facile fascino depressivo dell’autodistruzione di cui gli adolescenti sono spesso prede. Salvarli (il verbo salvare, e la sua variante riflessiva, salvarsi, ricorrono) è conseguibile, lei lo sa, solo calandosi dinamicamente in un rapporto franco con loro, e loro sapranno riconoscerla, e affidarsi.

Perciò la professoressa non avrà nulla dei fanatici efficientisti che arriveranno come membri esterni della commissione esaminatrice alla “maturità”. Nulla la accomuna a: La Perniciosa, commissaria di scienze, o La Belloccia, sua diretta collega esterna, col suo inglese stentato e mal pronunciato (!).

Il palinsesto del romanzo riproduce il palinsesto della programmazione di Letteratura Inglese del quinto anno e molto nella “gestione” delle fasi temporali dell’anno scolastico trova corrispondenze puntuali nei grandi autori, tra Ottocento e Novecento, che gli studenti della Quinta A impareranno ad amare, con loro stessa sorpresa, e per lo stupore della loro adorata insegnante.

Soprattutto su di loro avrà presa un concetto che è il grande punto-chiave della scuola: il tempo.

Come Sisifo, che prima di scalare la vetta si vede davanti tutta la salita da fare sospingendo il masso, poi a metà percorso, in su la cima, trattenendo il masso, vede tutta la strada fatta e il tratto che lo attende, e dunque si dispone alla metà finale, che sarà tutta una corsa a rincorrere il masso con evidenti problemi di dispersione, così chiunque affronti l’anno scolastico, studente o docente che sia, si trova a rivivere questa trafila e a conoscere molti momenti in cui il tempo, che sembra molto, poi va perduto, perché sarà fisiologico abbandonarsi a pause dispersive e a deconcentrazioni o decontrazioni, vitali per rifiatare.

Ma il vero dono qui … sono due.    

Benché il tempo passi e ci si inoltri nelle diverse e successive frazioni della vita scolastica, tutto è narrato al tempo presente. Dunque il filo che tesse la trama è un’unica somma di istanti presenti.

Vi si innesta però un meccanismo anticipatorio al negativo, che permette di seguire i destini dei ragazzi e delle ragazze di questa classe unica e comune anche dopo la loro uscita dalla scuola.

Si potrebbe pensare a L’acqua, l’insegna la sete – Storia di classe, docufilm dal magico titolo rubato a Emily Dickinson, girato da Valerio Jalongo: qui il professore, Gian Claudio Lopez, storico docente del Cine-TV Rossellini, quindici anni dopo recupera i suoi alunni di una sua storica classe e scopre cosa è stato di loro, ora trentenni, dopo la scuola.

Qui accade il contrario. La professoressa, incaricata annuale dunque precaria, condivide un solo anno della sua vita con i suoi ragazzi dopo di che non avrà più a che fare con loro, con la Quinta A come con le altre sue classi, salvo, per ormai sdoganata confidenza amicale, “seguirli” anche dopo o meglio spesso essere ripescata da loro per sincera affezione. L’escamotage offerto dalla scrittura, la formula anticipativa, “non sa (ancora) che”, ribalta la prospettiva, e srotola la pista lunga del “dopo”, del futuro di questi ragazzi, e conforta (anche) l’idea dell’occhio lungo della professoressa.

La permeabilità o sistema di vasi comunicanti che legherà per sempre questa docente ai suoi studenti passa attraverso uno scambio, in certi passaggi, tra la prima e la terza persona sul filo della narrazione, cioè tra la docente che sta raccontando e la docente raccontata, e nel frequente scambio, di nuovo, tra il lei e il tu, da parte dei ragazzi nel rivolgersi a lei, e di lei nel rivolgersi a uno studente in particolare – fermo restando che la docente, diversamente attenta a ciascuno/a di loro, ha poi occhi molto attenti per due ragazzi e due ragazze, che sono poi i suoi interlocutori più acuti e franchi.

Riservo un piccolo spazio, come preannunciavo, al codice linguistico perfettamente riportato e tipico delle scuole romane, un romanesco pieno di troncamenti e formule gergali, l’esperanto studentesco usato in una comunicazione fitta, intima e incisiva, perlomeno a Roma e soprattutto in borgata. La professoressa, romana verace e versata nelle lingue, parla, quando sente di farlo, la stessa lingua dei suoi studenti, e anche lì o forse soprattutto lì avviene il reciproco riconoscimento, scatta una sodalità che scavalca persino la differenza generazionale.

È un libro sulla scuola. Qualcuno ha già scritto: è un libro sull’amore. È certo un libro sull’amore che scatta, ed è difficile non accada, tra adulti e adolescenti e viceversa, in quel contenitore, o territorio speciale, che è la scuola, dove imparare il fallimento, reificando Beckett e anche Pasolini, è affare duro e puro non solo per gli immaturi, nella loro marcia verso la maturazione, ma anche per adulti sempre poco risolti – a dispetto del fatto che, agli occhi dei loro studenti, essi appaiano compiuti, e dunque vadano a occupare uno dei vertici del famoso triangolo identificato da René Girard nei romanzi di Stendhal, chiamato per brevità triangolo stendhaliano, il triangolo del desiderio. Per concludere, non solo imperversa, per tutto il romanzo tra formazione e cronaca, una cosiddetta overwhelming question, una domanda martellante, eredità eliotiana, ma essa consiste in Chi sono i morti?, tormentone che riemerge a volte persino in modo inatteso, quando ormai non ci si pensava quasi più o non pareva più il focus del momento, decisa eredità joyciana (The Dead, in Dubliners). Ciò inquadra in chiave esistenziale, se ci fosse bisogno ancora di indicarlo, la materia e la forma di questo libro, reificando un pensiero che in genere presiede alla formulazione letteraria: la retorica e/o speculativa posizione del dubbio.

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