A proposito di “Ballata per la sirena”
La zattera delle sirene
Il nuovo romanzo di Arturo Belluardo è un viaggio a ritroso nelle proprie radici. Un'odissea che mescola mito e vita quotidiana, sesso e illusioni, Medea e Monteverde vecchio; e finisce in mare, accanto ai migranti
«Sua madre era lì con lui ogni giorno, e lui le parlava, e lei comunicava con lui. Mamma, quanto sei esattamente presente? Sei soltanto qui o sei dappertutto?”
…La sua mamma morta era con lui, lo osservava, lo circondava. Gliel’avevano sguinzagliata dietro. Era tornata per accompagnarlo a morire». (Philip Roth)
Nell’esergo di Philip Roth, che Arturo Belluardo pone in apertura del suo romanzo Ballata per la Sirena (Perrone editore, 254 pagine, 20 Euro) e nella dedica alla Bellezza, alla Giustizia e al Jazz, ma soprattutto al jazz, il jazz come improvvisazione, il jazz come rutilante creazione d’immagini, sono racchiuse le chiavi interpretative di questa terza opera letteraria che segue le sue precedenti Minchia di Mare e Calafiore. Opere nelle quali sono già anticipate alcune tematiche, la Sicilia, o forse ancor più la sicilianitudine, il sesso, la bulimia, che saranno sviluppate in una forma estrema, in questa Ballata per la Sirena.
Il protagonista è un avvocato che sussume in sé tutti gli stereotipi del sessismo, del razzismo, del clientelismo e dell’azzeccagarbugli colluso con un ambiente di avvocati e avvocaticchi di religione ebraica descritti secondo i più biechi cliché, che è costretto a ritornare da Roma, dove vive e lavora, a Siracusa, sua città natale, perché la madre è in punto di morte.
Da questo inizio, in cui causa ed effetto sono fattualmente legati, si sviluppa un tessuto narrativo di difficile catalogazione, dove il piano della narrazione trova la sua forma espressiva in un linguaggio virtuosistico, volutamente ampolloso in cui la tragedia greca, la mitologia classica si intersecano e si contaminano con una mitologia contemporanea come in una reinterpretazione e aggiornamento splatter dei Miti d’oggi di Roland Barthes.
Così, lo sviluppo onirico del racconto è un continuo susseguirsi di Medea, di Monteverde Vecchio, di Omero, di camicie Brooks Brothers con colletti botton down, di cravatte di Marinella, di Ortigia e Siracusa, della Magliana e il Trullo, di doppio petto di Ermenegildo Zegna, di rapporti sessuali alla nougatine con la bianca ucraina e con la negra nigeriana o con la caposala con i capezzoli che premono uscendo fuori dal reggipetto di pizzo, fino a che, come schiuma di onda da cui era nata Afrodite, non si alza la richiesta della madre: «Portami la mia coda. Portami al mio mare. Lasciami libera in mare. Prometti. Prometti.»
La coda di sua Madre: sua madre era una sirena pescata dal mare. E lui? Il figlio della sirena si dirigeva, con la macchina presa a noleggio, verso la fonte Ciane, diretto all’ingresso del mondo sotterraneo, alla discesa agl’inferi nel punto esatto in cui Ade si immerge, trascinando con sé Persefone, la sua Kore, la figlia di Demetra, la dea dei raccolti.
È un percorso di riconciliazione e di riscatto col passato e con se stesso il furto del cadavere della madre dalla cella frigorifera come il trasferimento rocambolesco a mare dove egli stesso si trasforma in sirena. In quei fondali, presso gli scogli Ru Frati, come gli abissi di Anthemoessa, la patria d’origine delle sirene, egli decide di immergersi.
«Io sono il ricordo della donna, di tutte le donne, del tempo in cui il mondo era bambino e si specchiava nello zaffiro del mare. Io sono il ricordo del tempo in cui non c’erano storie, in cui non c’erano nomi. C’era solo canto. E acqua».
Il turbinio onirico, linguistico, lessicale quasi fosse un’improvvisazione jazzistica in cui le associazioni di immagini e di concetti, di alto e basso, si alternano e si confondono, prosegue senza sosta, fino alla conclusione dell’opera. Quando avverrà l’incontro con il gommone di immigrati provenienti dall’Africa che sta per approdare sulla costa siciliana, che nella trasfigurazione simbolica dell’autore diviene la Zattera della Medusa di Gericault, la storia si avvierà ad un finale inaspettato.
Il tema dell’immigrazione tocca da vicino l’autore che dedica questo libro «con amore e rancore, alla vera dura madre, alla città che mi ha dato i natali e che mi ha sputato via, alla ricerca di qualcosa che forse non ho mai trovato». Allora si capisce la sua rutilante cifra letteraria, il sovrapporsi di lingue e linguaggi senza soluzione di continuità, come necessità di dare mostra di una bulimia esistenziale mai satura e non pacificata.