Un racconto inedito
Affari di famiglia
«L’Alfio che conobbi io, in Costa d’Avorio, era già un pezzo avanti in quest’impresa. Niente a che fare col ragazzino impaurito che scappò davanti al morto. Aveva messo tanto così di pelo sullo stomaco, un tipaccio spavaldo e sicurò di sé, che crede solo nei rapporti di forza, un po’ nella fortuna e non si pone limiti d’altro tipo»
Ancora qui a chiedermi perché gli ho detto sì… Non le sopporto proprio, io, le gite domenicali fuori porta. Traverso Piazza Vittorio, imbocco Santa Croce in Gerusalemme, direzione Porta Maggiore. Poco viavai in giro, negozi chiusi, ragazzi in bicicletta, gente che porta a spasso il cane. Imposto sul navigatore l’indirizzo del messaggio whatsapp. Ricevuto da un tale che non vedo e non sento da anni, e che all’improvviso s’è rifatto vivo. Gli è caduto l’occhio sul mio numero in rubrica, così m’ha detto, e gli è venuta voglia di chiamarmi. Era gioviale, allegro. Ho riconosciuto subito la sua selvaggia voce tonante. E chissà perché, senza riflettere, ho accettato l’invito. Non posso più tirarmi indietro, ormai…
Questo tizio che m’ha invitato, questo Alfio. L’ho conosciuto molto tempo fa, molto lontano di qui. Su una diga, in Costa d’Avorio, uno dei posti dov’è possibile incrociare un ingegnere (me) e un geometra (lui) italiani in mezzo all’Africa. Colleghi, nello stesso cantiere. Cioè, a essere onesti, colleghi… Alfio era il mio capo. Era il capo di un un po’ tutti, laggiù. Io stavo parecchie tacche sotto, ero solo un novellino di primo pelo, allora, lui già un anziano. Poi, dopo la Costa d’Avorio, di dighe assieme ne abbiamo fatte diverse altre. Sempre in Africa. E un po’ alla volta ho ridotto le distanze. L’ho raggiunto. Poi l’ho anche superato. Questo succede, tra ingegneri e geometri, nel nostro mestiere. Sicché, dopo un po’ che l’ebbi superato, lui smise. Raggiunta l’età della pensione si ritirò. Se ne tornò a Priverno, provincia di Latina. Il suo paesello, è lì che m’ha invitato. Tra un paio d’ore lo rivedrò. E capirò come gli butta. Parleremo dei vecchi tempi, di sicuro. Ma non è solo una rimpatriata. No, c’è dell’altro.
Perché gli ho detto sì, non me lo spiego proprio. E sono un po’ seccato con me stesso per averlo fatto. Gli è che m’inquieta rivederlo dopo tanto tempo. Fuori dall’Africa, il nostro posto. Quest’altro – Italia, basso Lazio, ’sta Priverno – non ci accomuna affatto. Che abbiamo da dirci, qui? Non so, c’è qualcosa che m’irrita, sono nervoso. E mentre guido, voglio cercare di comprendere il perché…
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Alfio Neroni lasciò Priverno prima dei vent’anni e ci tornò suonati da un pezzo i sessanta. E per tutto il tempo che stette fuori, perlopiù in Africa, a casa non ci mise piede che per un paio di settimane all’anno, nei brevi periodi di ferie che il suo esigente lavoro gli concedeva. Quando partì, era orfano, sul lastrico e disperato. Quando tornò era ricco. Insomma, piuttosto ricco… non quanto il pedigree di famiglia avrebbe imposto, ma abbastanza, abbastanza…
Il pedigree di famiglia di Alfio Neroni è sempre stato una faccenda seria. Un cruccio profondo, una questione complessa. Il suo complesso, si può dire, il centro del garbuglio. Qualcosa in cui c’è di mezzo l’amor proprio, i soldi, il sesso e pure altro…
Ma, per quanto complessa vista dall’interno, vista da fuori la questione si riduce a questo: a Priverno la sua è sempre stata una delle famiglie che contano. Nell’Ottocento pare ci sia stato un Neroni cardinale, l’avo illustre della casata. Secula seculorum di cattolicesimo privernate. Poi, dopo l’unità d’Italia, presa di Roma, eccetera, la casata decadde. Avvoltoi più famelici, nelle loro marsine, presero il posto di quelli con la tonaca. Memento homo quia pulvis es et in pulverem reverteris, uno dei motti di famiglia le si ritorse contro. Bastarono un paio di generazioni. Gli ultimi fuochi se li sparò il padre di Alfio. Nobiluomo tronfio che coi suoi fasti da gran signore assestò le mazzate finali alle murate di un vascello un tempo solido e glorioso. Ultimi fuochi in senso letterale: si tirò un colpo in testa, lasciando palazzetto e terre ipotecate, una marea di debiti e cambiali a mazzi disseminate sul piano ligneo della scrivania. Intrise di sangue e di materia cerebrale che gli zampillava dal borioso testone, bucato come le sue mani. Dopo che, premuto il grilletto, s’abbatté secco su quel mucchio di carte.
Alfio fu il primo a entrare nello studio, quando sentì il colpo. Lo trovò così, riverso sul tavolo, il lago rosso scuro che s’allargava sotto… Beh, lo si può capire se se la diede a gambe. Era solo un ragazzo, men che vent’anni, non ebbe il fegato d’avvicinarcisi neppure, a quel malloppo sanguinolento. Scappò, lasciandosi alle spalle il capoccione abbattuto e tutta la sua ingombrante eredità. S’era da poco diplomato geometra. Un’impresa del nord gli offrì un contratto per l’estero. Saltò su un treno per Milano, poi su un aereo per l’Africa. Tanti saluti.
Avrebbe anche potuto funzionare. Poteva pure non rimproverarsela per il resto della vita, quella fuga, se oltre ai mucchi di cambiali intrise del sangue di paparino, non si fosse lasciato alle spalle una sorella. Assunta, di due anni più giovane. Assunta fece quel che le donne sono brave a fare in queste circostanze. Aveva solo diciott’anni, ma fece pulizia, mise ordine. Innanzi tutto sulla scrivania. Tirò su il capoccione abbattuto, lo pulì, lo lavò, lavò il corpo che seguiva attaccato, lo vestì e fece celebrare un cattolicissimo funerale nella chiesa maggiore di Priverno. Funerale a cui Alfio, in quel momento in volo sul Sahara, non partecipò.
Una volta seppellita la salma, celebrato quel che c’era da celebrare, pronunciate le dovute orazioni – mentre Alfio probabilmente passava il suo primo giorno e la sua prima notte in un cantiere africano a cercar di capire da che guaio fosse scappato e in che guaio fosse andato a cacciarsi – Assunta tornò a quella scrivania e mise ordine anche tra le cambiali. Innanzi tutto, le pulì. Nettò meglio che poté tutto quel sangue ormai rinsecchito, che tratteneva ancora qualche grumo del non eccelso encefalo paterno. E poi, quando le carte furono tutte grossomodo smacchiate e abbastanza leggibili e per lo meno alla vista e al tatto un tantino meno orripilanti, le ordinò per gruppi, per importi, le classificò, catalogò le ipoteche. Fece i conti, insomma. Dello spaventoso debito familiare.
Una ragazza in gamba, non c’è dubbio. Ma non sarebbe potuta andare molto oltre questo, se da laggiù, dall’Africa, non fosse finalmente arrivata una lettera.
Secondo Google Maps, mi ci vuole poco meno di un’ora e mezza da Roma Frattocchie per arrivare fino a Priverno. Il pranzo è fissato per l’una, non sono ancora le undici, quindi decido di non fare l’autostrada. No. Un pezzo di Casilina, poi viro verso sud, attraverso i Lepini, scollino a Roccagorga, a Priverno ci arrivo da lì. Approfitto. Mi vedo un pezzo di Lazio che conosco poco. Se non ho fretta e la distanza è breve, mi piace, a me, andare a zonzo, perdere tempo…
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Quando ricevette quella lettera, Assunta non aveva fatto passi avanti. Aveva solo esteso l’opera d’ordine e pulizia dal cadavere di paparino e dalla scrivania lorda di cambiali e cervella saltate, a tutta la casa. Quel palazzetto di tre piani e cinquanta stanze al centro del paese, ancora zeppo di vecchie porcellane e vecchi argenti, dipinti d’epoca e tendami, tappeti e broccati, con stemma araldico e nome di famiglia scolpito sull’archetto in pietra. Tutta roba che ormai non apparteneva più a loro. Apparteneva in primis alla banca, che deteneva l’ipoteca. E poi ai titolari di tutte quelle cambiali.
Quel che restava della servitù, già in arretrato di parecchi mesi di stipendio, era sparito il giorno stesso del funerale, aggiungendosi alla schiera dei creditori. Lei restò sola, arroccata in quell’enorme dimora vuota attorno alla quale s’aggiravano sciacalli ansiosi di spolpare la carcassa. Banca e strozzini non le saltarono subito addosso. Le accordarono un periodo di tregua. Tardivo omaggio alla casata, malgrado il suo ultimo, disonorevole epigono, che, visto il suicidio, ebbe persino bisogno della dispensa vescovile per essere sepolto in terra consacrata. Insomma, non si fecero immantinente sotto a riscuotere i crediti. Ma non avrebbero certo tardato.
Finché durò la tregua, Assunta la tenne ordinata in modo impeccabile, quella dimora. Lavorando dalla mattina alla sera, in ginocchio sui pavimenti di marmo, maniche e sottane rimboccate, a pulire, lavare, spolverare, lustrare, stirare. Attestando così giorno dopo giorno – col lavoro delle sue mani, con la sua cura – il titolo di possesso che vantava su quella casa. Quanto conta, per una donna, la casa. Quel tetto era tutto ciò che le restava, lei ci stava aggrappata con le unghie, era la sua zattera. Ma non avrebbe potuto resistere ancora a lungo, se non fosse arrivata la lettera.
Quando la ricevette, tirò fuori dall’armadio l’abito che portava il giorno del funerale. Il meglio che potesse offrire il suo sguarnito guardaroba: mantiglia a ricamo, cuffia, guanti, trapunta, veletta, gonna al ginocchio, calze a velo di seta ed eleganti mocassini con un po’ di tacco, tutto nero. E così bardata – luttuosa, ma seducente – si recò alla banca. Chiese del direttore, che dopo più di due ore d’attesa la ricevette. Lei gli mostrò la lettera e, benché avesse solo diciotto anni, fu anche abbastanza sveglia da mostrare, oltre alla lettera, un assegno. Il primo stipendio di Alfio, a riprova che quel che scriveva non erano solo chiacchiere.
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Lascio la Casilina dopo Palestrina e viro verso sud. Colleferro. Artena, uno dei borghi più scoscesi d’Italia, abbarbicato come un rampicante sulle prime pendici dei Lepini. Nei campi d’attorno, sciatti e disordinati, ruderi di vecchie fabbriche chiuse da tempo. Questa fettuccia di agro romano, conquistata all’industria negli anni Trenta e poi caduta agli inizi del Duemila, disseminata dei resti paesaggistici e sociali di quella campagna perduta, ne conserva ancora vaghe tracce nel poligono aerospaziale Avio, dove si costruiscono parti di lanciatori di satelliti per la Guyana Francese. L’ex-Cayenne di Dreyfus e Papillon.
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Mentre Assunta faceva pulizia, Alfio atterrava in Ghana. Fiume Volta, diga di Akosombo, iniziò da lì la sua gavetta. I contratti per l’estero a quei tempi erano duri. Un rientro ogni due anni, con ritiro del passaporto appena sbarcato in cantiere. Una branda in camerate da dieci, sei o quattro, a mano a mano che salivi di grado, ma pur sempre relegato in stiva, ai ranghi bassi della gerarchia di cantiere.
L’orario era pesante. Dieci ore al giorno sei giorni a settimana, più straordinari. Che poi erano ordinari, perché ti toccavano regolarmente tutti i giorni, oltre a mezza giornata la domenica. Alfio montò come assistente in turno, due settimane di giorno, due settimane di notte. L’asprezza e l’aridità che aveva dentro, l’umiliazione e il fiele che gli venivano dalla disfatta famigliare, la vergogna e il senso di colpa per la sua fuga, probabilmente gli furono utili. L’aiutarono a superare la botta del primo impatto. Quasi non se ne accorse, era come sotto anestesia, aveva il cuore imbottito di novocaina. E, per converso, lo straniamento e l’abbrutimento di quel trapianto africano, la ruvidezza del cantiere, gli permisero di superare la devastazione che aveva dentro, d’elaborare il lutto. Lo sradicamento servì, d’ambo le parti.
E quando se ne riscosse era ormai a bordo, il peggio era passato. La paga era buona, il lavoro duro, l’ambiente rude, le giornate volavano. Quanto alla pesantezza dell’orario, in realtà non contava. Perché lì, in cantiere, il confine tra lavoro e vita privata svaniva. Tutte le ore erano di lavoro, salvo quelle in cui dormivi, mangiavi, ti ubriacavi, scopavi o giocavi a carte o a biliardo. E se sottrai alle ventiquattr’ore il tempo che puoi dedicare a queste cose più quelle in cui ti tocca lavorare, vedi che ti resta ancora il tempo d’annoiarti. Poi c’era l’ambiente, le persone. Le stesse con cui lavori, dopo ci fai anche tutte quelle altre cose. Per cui, proprio, il lavoro coincide con la vita. Al millimetro. Non puoi dire che il lavoro ti pesa. Se poi ti pesa la vita, affari tuoi.
Parlando di cose serie, di stipendio. Ne valeva la pena, un paio d’anni così e uno a quei tempi ci si comprava casa. Ma, quanto alla casa, non erano esattamente questi i piani di Alfio Neroni. Non so se ne avesse avuti fin dall’inizio, di piani, se sia partito covando quell’idea. Oppure gli si formò nella zucca a poco a poco, mentre stava laggiù. Sicuramente l’eredità ingombrante che credeva d’essersi lasciato alle spalle ebbe il suo peso. La questione famigliare. Non se n’era affatto liberato, non ci si libera mica così, scappando, del proprio garbuglio. Germinò lì, a cinquemila chilometri dalle sue radici. Come certe essenze infestanti che non lasciano spazio a forme di vita concorrenti, vogliono tutto, esigono tutto. Il trapianto in suolo primitivo ebbe quest’effetto: caddero i freni inibitori. E del geometrino introverso e sottomesso, umiliato dalla decadenza familiare, esacerbato dal suicidio paterno, impaurito da quei mucchi di cambiali e da molte altre cose, in poco tempo fece uno dei più agguerriti figli di puttana che abbia visto in giro per cantieri. Lì in Africa, suo territorio di caccia e di riscatto.
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Scalo i Lepini fino a Carpineto, traversando faggeti selvaggi… Tanto selvatici che di recente vi è riapparso un membro importante del bestiario nostrano. Quello della selva oscura, il feroce delle favole, la metafora del male: il lupo. Ne ho letto qualcosa sui giornali. Un paio di pecore sbranate appena fuori dal paese. Un puledro scenograficamente sventrato sulla neve insanguinata. Roba così. I lupi, di nuovo tra noi. Gli abitanti sono divisi. Allevatori e contadini, che per l’ancestrale minaccia animale nutrono un odio atavico, già rispolverano le buone vecchie usanze dei tempi andati, e preparano i pali a cui appiccare, all’ingresso del paese, le carcasse delle bestiacce abbattute a fucilate. Gli altri oscillano tra un’ecumenica accoglienza ambientalista e un pizzico d’orgoglio per la ricomparsa, nel loro territorio, di un così illustre predatore, il cui latte svezzò il mitico gemello che fondò la più predatoria città della storia.
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Sicché Assunta, per quanto ragazzina, si giocò bene le sue carte. Versò qualche lacrimuccia, sollevò un po’ la gonna sulle calze a velo. Il direttore s’impietosì.
E poi, tra recuperare in un colpo solo, mettendo le mani sul palazzetto, una parte del credito – epperò portarsi a perdita, in bilancio, tutta la differenza – oppure la prospettiva di incamerarne tutti i mesi una piccolissima parte, ma sempre con l’agio di esercitare l’ipoteca il mese dopo, se la rata successiva non fosse stata puntualmente pagata, in genere una banca non ha dubbi. Fatti i dovuti conti, sceglie sempre la seconda strada, se no non farebbe il mestiere di banca.
Lei s’impegnò personalmente ad abitare, custodire, tenere in ordine e ben mantenuto quel bene – il palazzetto e tutto quel che conteneva, di cui fu fatto debito inventario – che per la banca stava a garanzia del credito e per i due fratelli del loro progetto. Perché ormai avevano un progetto in comune, è chiaro.
Quella lettera fu la prima di molte altre. Nei mesi che seguirono, attraverso i leggeri fogli di carta velina che negli anni Sessanta le poste italiane imponevano alle missive ‘par avion – by air mail’ – com’era stampigliato sulle apposite buste – Alfio e Assunta imbastirono una rada ma essenziale corrispondenza epistolare. A tema fisso: riscattare, col lavoro di lui in Africa e la cura di lei a Priverno, le proprietà e l’onore di famiglia. Non importa quanti anni ci avrebbero messo.
L’Alfio che conobbi io, in Costa d’Avorio, era già un pezzo avanti in quest’impresa. Niente a che fare col ragazzino impaurito che scappò davanti al morto. Aveva messo tanto così di pelo sullo stomaco, un tipaccio spavaldo e sicurò di sé, che crede solo nei rapporti di forza, un po’ nella fortuna e non si pone limiti d’altro tipo.
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Arrivo a Priverno puntuale, l’una spaccata. Alfio è lì ad attendermi, sotto l’archetto con lo stemma che porta in calce il nome di famiglia e dà accesso al piccolo cortile lastricato su cui affacciano le stanze. Lo trovo un po’ ingrassato ma in forma, settanta e più portati benone. Ci abbracciamo, mi solleva di peso e poi mi rischiaccia a terra con quelle manacce, vengo travolto dai suoi modi sguaiati e chiassosi. È un omaccione alto un metro e novanta, ben sopra al quintale. Mi s’aggancia al collo, mi trascina giù per il cortile, le ex-scuderie, le cantine, gli stretti corridoi del pian terreno, sale e salette, poi ancora su, per lo scalone in pietra che porta al primo piano…
Quadri, arazzi, baldacchini, vecchie armature incassate nelle nicchie, spadoni, alabarde e balestre appesi alle pareti. Niente di pregio, in realtà, una montagna di ciarpame, polverosi cimeli da sangueblù di provincia… Ed eccoci a tavola: io, lui e Assunta, la sorellina.
Lei e Alfio non potrebbero essere più diversi. Un gigante canagliesco, straripante e sfrontato lui. Alta, lei pure, ma asciutta come un’aringa, rigida, aristocratica, mento aguzzo, due occhi puntuti come spilli, inguainata dalle caviglie al sottogola in un castigatissimo vestito nero – di tessuto pregiato, direi, ma di taglio sobrio, un’eleganza monastica – capelli corvini, che assieme all’abito mettono ancor più in risalto il pallore del viso e delle mani. E un penetrante profumo di tuberosa, che mi trafigge quando le bacio la mano.
Servono il pranzo tre giovanissime ragazze nere. Africane, vestite di pagne, gli abiti tradizionali di laggiù, che qui paiono una specie di livrea. Contaminazione feudal-coloniale che quest’arcigna castellana ha elaborato con cognizione, dati i recenti sviluppi della casata… Dirige il pranzo a colpi di sguardi. Glaciale, manovra a distanza la sua esotica servitù, a occhiate, inarcarsi di sopracciglia, aggrottarsi di fronte, al più brevi cenni del capo. Nemmeno un suono, in questa specie d’alfabeto Morse visivo, che significa: mesci il vino, ritira il piatto, servi la pietanza… Quasi non rivolge parola neanche a noi, di quando in quando s’alza e si ritira. “Avrete tanto da raccontarvi,” dice. “E’ meglio lasciare gli uomini da soli,” ed è una delle poche occasioni in cui sento la sua voce. Voce metallica, secca e dura come il suo aspetto. E comincio a intuire, sotto sotto, come stanno le cose…
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Quando incontrai Alfio per la prima volta, lì in Costa d’Avorio, ebbi subito l’impressione che dietro le spacconate nascondesse qualcosa.
Vedevo, in cantiere, come maltrattava i suoi, indifferentemente bianchi e neri. Sfruttava gli uomini a fondo, gli tirava fuori fino all’ultima goccia d’energia che poteva spremerne a vantaggio della diga. Uno che sopraffà, travolge. Non il tipo di capocantiere di modi bruschi e asciutti che ho spesso incontrato in questo mestiere. Tutto il contrario. Uno sempre sopra le righe, esuberante, eccessivo. Non lavorava pulito, pasticciava e strafaceva. Un gigante borioso, prepotente nei modi, violento e anche un po’ losco.
Ma alla fine, malgrado il casino, la sua energia trascinava il cantiere e i suoi lavori rendevano più di quel che costavano. Per le compagnie italiane che in quegli anni disseminarono dighe per l’Africa, era quel che contava. Fece carriera. E, con la carriera, anche un bel po’ di soldi, che lui mandava a Priverno quasi intatti. Assunta ci pagava ipoteche, estingueva cambiali, saldava debiti, riscattava terreni.
Fu una lenta, paziente opera di reconquista, condotta con successo da questa coppia tenace. Nessuno dei due si sposò mai, né lui né lei. Si scambiavano a distanza lettere stringate come rendiconti d’affari, incontrandosi solo due volte all’anno, per quel paio di settimane di ferie che Alfio trascorreva in Italia. Probabilmente durante quei brevi periodi di convivenza, nell’ordinatissimo palazzetto tenuto come uno specchio da Assunta, affinavano la loro unione su vari piani. Concordavano passi, focalizzavano obiettivi, quali terreni anticamente posseduti dalla famiglia mettere nel mirino, pianificavano il futuro.
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Malgrado il complicato cerimoniale che lui e soprattutto lei hanno allestito, il pranzo alla fine scorre via liscio, tra battutacce di Alfio, ricordi di cantiere, ottimi vini e ottime pietanze – cibi sapidi e caserecci: fettuccine con eccellente ragù d’agnello, ravioli di formaggio e fonduta, carni rosse, cacciagione – conditi da un fitto intreccio di occhiate tra fratello e sorella, tutt’un fraseggio di gesti complici, conclusi dal caffè che Assunta fa servire in tazzine di ceramica su un vassoio con tovaglioli a merletto, seguito da un nocino fatto in casa ch’è una meraviglia.
Mentre sorseggia il nocino e s’accende un mezzo toscano, agitando il prospero sullo sparato unto di macchie della camicia, Alfio mi fa: “Ho una sorpresa per te. Vieni, si fa un giro in cantiere.”
Lo guardo, interrogativo. Per tutta risposta s’alza, mi solleva di peso dalla sedia e mi trascina via: “Andiamo! Andiamo!”
Usciamo. Scappiamo, quasi. Via dal castello e dalla castellana. Fuori, oltre il cortile, è parcheggiato il suo fuoristrada, una vistosa Range Rover metallizzata, piena di fari e di antenne. Imbocca la provinciale che scende dal paese e dopo qualche chilometro si butta a destra, per uno sterrato che affonda nella macchia.
Ed eccolo, il cantiere. Su un dosso circondato di querce, una villa in costruzione. Una di quelle ville dozzinali, di nessun pregio, metà residenza campestre metà suburbio borghese, col terreno cintato intorno, il porticato, la veranda, i pilastrini di cemento armato grossolanamente scolpiti a colonna corinzia, in parte ancora racchiusi dai casseri, una leggera gru a torre che solleva fogli di lamiera, betoniere da traino, un piccolo escavatore e… Operai africani. Una decina di operai africani al lavoro. Un tuffo in luoghi e tempi lontani.
Li conosco, so chi sono.
Scendono giù dalle impalcature e vengono a salutare. Uomini che hanno lavorato nei nostri cantieri in passato. Carpentieri, muratori, falegnami, ferraioli. Che Alfio dev’essersi portato qui da chissà dove, dopo che se n’andò dalla Compagnia. Alcune facce le riconosco. Di qualcuno ricordo persino il nome. Loro ricordano benissimo il mio. Mi chiamano patron.
Come chiamano, del resto, anche Alfio. Che impartisce ordini, col suo vocione imperioso, temprato al cantiere. Scattano tutti, quando lo sentono. Come colpi di frusta. Li vedo affaccendarsi, formicolare in giro. Semina il panico a urla e gestacci, ma quasi subito si calma: “Basta così, basta così. Abbiamo ospiti quest’oggi, si fa festa,” sbraita. E’ domenica pomeriggio, quasi buio, troppo tardi persino per festeggiare. Se non gli dà nemmeno mezza giornata a settimana di riposo… “Lavatevi! Vestitevi! Pago da bere al maquis, stasera offro io!”
Li vedo raccogliersi in una zona in fondo al recinto, dove hanno attrezzato una specie di doccia da campo, all’africana, coi fusti pieni d’acqua incastellati su un’impalcatura, un tubo che scende, un clarino da cui si diramano manichette di gomma. Dopo aver riordinato attrezzi e mezzi d’opera sotto le brusche direttive di Alfio, gli operai si spogliano nudi, si lavano all’aperto, sul lastricato, schizzandosi l’un l’altro, insaponati dalla testa ai piedi, s’asciugano con rozzi teli di juta e si rivestono indossando abiti – jeans e camisacci – che differiscono ben poco da quelli da lavoro. Montano su un pick-up in nove: due in cabina, sette accovacciati dentro il cassone. E ci avviamo, il Range Rover di Alfio davanti, il pick-up coi suoi neri dietro, lungo uno stradello che costeggia il bosco. E mentre guida, Alfio mi spiega il resto.
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Con questi operai – che facevano parte delle nostre squadre laggiù – lui e la sorella hanno messo in piedi una piccola impresa. La premiata ditta Neroni oggi costruisce e ristruttura ville in buona parte del basso Lazio. Gli operai alloggiano in vecchie case coloniche, ruderi sparsi per i terreni che un po’ alla volta la coppia s’è ricomprati. Catapecchie che a stento stanno in piedi, ma gli operai a poco a poco se le sistemano, riparano i tetti, intonacano i muri, ci portano l’acqua e l’elettricità. Diversi di loro hanno con sé le famiglie, in quei ruderi vivono donne e bambini.
Alfio – o dovrei dire Assunta? è certamente lei che tiene i conti – pratica paghe che non arrivano nemmeno alla metà di quel che prenderebbe un operaio italiano e non spende un soldo in tasse e contributi. Li fa lavorare secondo orari da diga africana: duecentosessanta-duecentottanta ore al mese, sabati e domeniche inclusi fino al long week-end di paga, a fine mese, quando concede loro due interi giorni di riposo. In compenso fornisce gratis l’alloggio, paga i conti dell’acqua e della luce, e permette ai meritevoli di coltivare piccoli appezzamenti di terreno sulle sue proprietà, attorno alle casupole. E’ sorto così una specie di villaggio africano, con le capanne e i campicelli intorno, pollame che razzola su uno spiazzo in terra battuta dinanzi a una veranda fatta con due pali di legno e un pezzo di lamiera e qualche capo di bestiame brado che pascola sul retro. Le donne tengono i campi, le case, bestie e bambini. Gli uomini si spaccano la schiena in cantiere per tutto il giorno.
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In fondo lo stradello s’allarga in una specie di radura e sulla spianata circondata d’alberi e cespugliame spinoso, rivedo un posto che conosco bene: un maquis. Un maquis de la brousse… un’apparizione. Uno di quei caffeucci africani che s’incontrano nella savana, ai margini dei villaggi, fatti più o meno come questo: un recinto di canne, una tettoia di rami, quattro tavoli disseminati su uno spiazzo sabbioso, fili volanti attaccati a un generatore che alimenta un frigo con dentro un po’ di casse di birra e un impianto stereo che diffonde la loro musica.
Sotto le fioche luci colorate, sulla pista circondata di boscaglia e avvolta dalla penombra, una decina di ragazze ballano. Ragazze africane giovanissime, petites soeurs che i suoi operai gli procurano facilmente. Ballano come solo loro sanno fare, i corpi selvatici che scattano a bruschi strappi ritmati dalla musica, e pare che ad ogni gesto liberino quanti d’energia, a salti, a impulsi. Forza vitale pura, ch’emana libera e si diffonde ovunque, la cogli nell’aria, vibra ancora lì attorno, tra le piante, riverberata dal bosco, fusa con rami e foglie.
Ed ecco che Alfio, mezzo ubriaco, si butta in pista anche lui, una bottiglia di birra in mano. E balla alla sua goffa maniera, da vecchio bianco, plantigrado dai gesti grevi, indifferente all’oscenità e al ridicolo del confronto con la danza fantastica di questi satiri e ninfe neri.
S’è ritagliato il suo pezzetto d’Africa qui, nel basso Lazio, affossato tra Ciociaria e Agro Pontino. E oltre a farci su quattrini con la costruzione di brutte ville e a procurarsi sfogo e piaceri col maquis, quest’angolo africano deve fargli anche da rifugio al castello, lontano dagli artigli e dal profumo di tuberosa della sorellina; e forse gli fa pure d’antidoto a quel male – dal nome esotico e incongruo di mal d’Africa – che a tanti che ci hanno passato troppo tempo gl’impedisce poi di riambientarsi qui.
Qui inselvatichisce, torna primitivo. S’agita tra ragazze troppo giovani per essere sue figlie, in mezzo a operai che sfrutta e maltratta, al suono di una musica che appartiene a loro, e si lascia andare… E c’è della disperazione nel suo abbandono. Posso capirlo. Sì, lo capisco.
Sicché lo raggiungo. Mi prendo una birra. Ballo anch’io.
Poi si fa sera. Quando annotta, lasciamo gli operai e le ragazze al maquis a continuare la loro festa – finalmente soltanto loro, festa africana giovane, vigorosa, vera – che probabilmente andrà avanti fino all’alba. Alfio mi riaccompagna a Priverno, alla mia macchina. Fine della gita, si torna a Roma.
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Mentre guido lungo la via Appia – decido di tornare da lì, attraverso la bonifica – e investiti dalle sciabolate dei fari incrocio uno dopo l’altro i cartelli delle Vie Migliari, la rete di strade poderali, canali regolati da chiuse e stazioni di pompaggio, campi e granai, che scandiscono questa piana strappata alla palude, ripenso a quei due.
Che coppia… da prendere con le molle, l’una e l’altro. E quel qualcosa che non avevo compreso, non del tutto, ora mi è più chiaro… Le ragazze africane che ho visto, che ho ancora davanti agli occhi, coi loro abiti colorati, il loro modo di servire a tavola, di danzare… Quel linguaggio del corpo al tempo stesso indolente e vitale… Tutte quelle ragazze che la sorella gli coltiva in casa e i suoi operai al maquis… Beh, non hanno affatto intaccato la ferrea gabbia familiare in cui è rinchiuso.
Ai suoi tempi, quando rientrava per le due canoniche settimane di ferie, quando la reconquista era ancora in corso, queste distrazioni non le aveva. Allora Assunta deteneva l’esclusiva. E Alfio doveva consegnarsi senza riserve a quei temporanei incesti, consumati liturgicamente come in sagrestia, in qualche antro appartato e protetto del palazzo, scelto con cura – ne sono certo, secondo qualcuno dei suoi implacabili rituali – dalla sorellina, vero capo della famiglia e della ditta. Negli affari. E anche nel resto. Lui non poteva certo tirarsi indietro, dopo quella fuga. E pure adesso, pure adesso ch’entrambi sono invecchiati, malgrado tutte queste giovani e fresche ragazze africane che lo accudiscono come un bambolotto e che lei comanda a bacchetta… Ha un controllo assoluto su di lui, sul suo lavoro, sulla sua vita sessuale, sull’economia di famiglia… Non mi stupirei se ancor oggi qualche tributo carnale l’esigesse e lui dovesse ben pagarglielo. Alla sorellina, l’unica con cui va sotto.
Le fotografie sono di Roberto Cavallini