Giuliano Compagno
Elegia per un antidivo

Metodo Giannini

Omaggio agli ottant'anni di Giancarlo Giannini, un grande attore al quale riesce il sortilegio di chiamarsi fuori dal personaggio che sta recitando. Merito di una "filosofica" estraneità alla vita e di uno sguardo personalissimo

Nel borgo di Pitelli, sul finire degli anni Settanta, ebbe inizio l’opera di trasformazione di alcuni orti interni in tre terrazzamenti. Ci vollero alcuni mesi finché il 28 marzo 1977, appena scoccato mezzogiorno, gli operai presero a festeggiare il termine dei lavori con abbondanti trofie al pesto spezzino e un bianco offerto dai fratelli Barite. Si trovavano assieme nella neonata Piazza degli Orti, che sarebbe divenuta il centro della vita sociale del paese. Mi va di pensare che non sia stato un caso se proprio in quegli attimi, al 135 della North Grand Avenue di Los Angeles, nel “Dorothy Chandler Pavilion”, si stesse svolgendo la 49ª edizione della cerimonia degli Oscar. Tra i candidati quali migliori attori protagonisti spiccavano nomi celebri: c’erano Peter Finch e William Holden per Quinto Potere, ci stava Robert De Niro per Taxi Driver, c’era anche Sylvester Stallone per Rocky… Il quinto attore era un outsider e veniva proprio da quel paese in collina dove gli operai stavano brindando. Proprio così, veniva da Pitelli e si chiamava Giancarlo Giannini, per Seven Beauties.

Pasqualino Settebellezze, titolo originale, era risultato un film scioccante. Lina Wertmüller aveva dipinto su Giannini un anti-eroe estremo e grottesco, ossia un tipo umano alla cui esistenza reale avrebbe concorso l’infinito talento di un attore. L’impresa impossibile riuscì appieno, tanto che quella tragica maschera popolare assurse a metafora dei tanti vizi, delle poche virtù tardive e delle assurdità di un italiano senza tempo.

Con Lina Wertmuller

Racconterà Giannini che quella gigantesca prestazione aveva avuto origine da un incontro a Cinecittà. Uno strano tipo si aggirava con una tanica in spalla vendendo bicchieri d’acqua a cinque lire. Aveva fatto il carcere e l’attore ne approfittò per domandargli qualche aneddoto utile per la scena in cella. Da lì in poi la vita di quello gli tracimò ai piedi come una fanghiglia di macerie: il campo di concentramento, i kapò, le sorelle prostitute, i casi di cannibalismo nei lager… La memoria di Pasqualino divenne il racconto di Lina Wertmüller e del suo perfetto interprete.

Eppure Giancarlo Giannini non era un predestinato. Lasciato il borgo ligure per trasferirsi con la famiglia a Napoli, il ragazzo frequenterà l’Istituto “Alessandro Volta” dove, a introdurlo alle nozioni di Fisica, non sarà un professore qualsiasi ma il compagno di banco di Enrico Fermi. Seguirà un periodo di studio appassionato, di manualità, di pratica e di applicazione elettronica, insomma le basi della sua esperienza. E quelli saranno anche gli anni dei pomodori di Acerra, i più buoni della sua vita.

Ma qui vorrei sospendermi perché non vorrei dedicare i miei auguri a Giancarlo Giannini ripercorrendone la vita professionale, le decine di film, i grandi registi della sua carriera, i premi e i riconoscimenti, i doppiaggi finemente asincroni… Cosa potrei aggiungere a ciò che in questi ultimi giorni è stato scritto da bravi critici, da colleghi, da coloristi e da carissimi amici? Sarebbe persino improbabile trovare un che di non cercato, per cui meglio pensare e sentire che Giancarlo Giannini è l’ultimo anello di una preziosa catena che era incominciata a legarsi negli anni Venti e che con lui aveva scoperto l’ultimo possibile interprete. E nel riflettere sulle ragioni per cui Giannini apparve atipico rispetto a coloro che egli stesso ricorderà con infinito affetto quali suoi maestri e amici di scena e di set, ciò non dipende da una valutazione di questi insuperati campioni della commedia italiana; l’anello terminale, forse eccedente e inatteso, di quella scuola magistrale ma incompiuta, Giannini lo sigilla grazie ai suoi film. Pur restando nel genere, lo spettatore si sorprenderà nel godere di una descrizione del mondo a tal punto stupefacente da racchiudere in sé generi mai percorsi dal cinema italiano: il narrato d’avventura, il racconto picaresco, la biografia romanzesca e poi ancora il fantastico, il meraviglioso e il barocco.

Non si tratta di un’elencazione di poetiche abbastanza estranee al nostro cinema, bensì dell’esito di un dono interpretativo che rimanda alle tante espressioni naturali che, nel recitare, a Giannini escono dagli occhi come se ce li regalasse a ogni battuta. Il suo è lo sguardo di un attore al quale riesce il sortilegio di chiamarsi fuori dal personaggio che sta recitando. In fondo, perché Mastroianni e Giannini risalteranno quali attori maggiormente internazionali? Perché loro più di altri, del pari meritevoli ed eccezionali? E dire che il grande Vittorio Gassman era un poliglotta, portava con sé una cultura umanistica così vasta da confondere, in più occasioni, la sua stessa professione, dotato qual era di molti talenti: capocomico, traduttore, poeta, letterato, affabulatore, persino un po’ filosofo… Eppure tutti questi primati non gli sarebbero valsi un vero e proprio riconoscimento mondiale. Gassman risultava estroso, decentrato, eclettico, ma con ciò egli rimaneva nell’alveo di una migliore italianità che pure non adorava.

Invece, senza nemmeno pretenderlo, Mastroianni e Giannini quell’oceano lo trasvoleranno in un battito d’ali. Probabile che ciò sia accaduto in virtù della loro estraneità. Il mondo li aveva assolti perché estranei ai fatti, separati, indifferenti. Vi era una sorta di innocenza ad accomunare i due attori. Lo stesso Giannini qualche giorno fa, nel raccontarmi della sua prossimità con Marcello, mi descriveva un amico che temeva la solitudine e sapeva star solo, a godere del suo tempo più libero e a sorseggiare un ottimo gin. Funzionava così… Marcello e Giancarlo si distaccavano dal mondo, ciascuno andando per la sua strada e, a un certo punto, dileguandosi insieme, che poi sarà il senso più vero di quel rapporto così fraterno. Ma è nella negazione fortemente sentita del preteso metodo americano di infondersi nel personaggio, che Giannini risulta impareggiabile. Per quel che vale, il mio non è un giudizio di valore ma riguarda la saggezza di un artista il quale, nel discernere le due effigi della recitazione, le annulla entrambe. L’effetto straordinario è che quando Giancarlo Giannini recita il ruolo a lui assegnato, svaniscono tanto l’attore quanto il personaggio. Perché a suo avviso né l’uno né l’altro esistono.

Con Mariangela Melato

È lo stato di grazia dell’interpretazione. Provate a rivedere la scena in cui Giannini e Mariangela Melato si scambiano attimi e attimi di sguardi, di mezzi sorrisi, di nascondimenti, di emozioni timide e, infine, del loro amore perduto. Non si tratta di due attori, non è questione di personaggi; quei due sono vestiti, da capo a piedi, di abiti non loro, sono degli sconosciuti che, come per miracolo, hanno preso le parti e volano.

Non è un mistero che l’esistenza di Giancarlo sia stata spezzata da un dolore indescrivibile. Nelle rare occasioni in cui egli vi ha fatto cenno si coglieva, oltre al pudore e alla sacralità che sono dovuti a un accadimento tanto drammatico, tutto il senso del mistero e dell’ineluttabilità della morte. In quei momenti disperati Giannini aveva presto compreso, non solo che era più tragico il destino di chi sarebbe rimasto ma pure che la vita continuava identica, e con essa il carattere, l’indole, la flemma e gli impulsi di ogni sopravvissuto.

Dopo di che non vi è nulla che si conservi per grazia ricevuta. Ci vorrà un sano attaccamento alla vita: i desideri, il gusto di bere un caffè buono, la preparazione di un pesto delizioso, l’essere stato amato, l’essere ancora amato e poi fumare, dialogare al bar con uno sconosciuto oppure architettare una piccola grande invenzione e respirare l’aria di collina. E, come non bastasse, nella frescura del primo mattino incedere in una lenta passeggiata, senza fretta, senza impegno, scansando ogni ricordo, anche il più trionfale… Un uomo che sta passeggiando che guarda davanti a sé e scorge una giovane donna elegante venirgli incontro con un sorriso che ricorda tante cose ma che egli non sa bene quali siano, finché sono tanto vicini che lei allarga le braccia e lui faccia lo stesso, socchiuda gli occhi e dica: «Piacere! Giancarlo Giannini».

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