“Magia” e “Lucente Stella”
Lo spirito di Ariel
Salomone e Saba, Shakespeare, lo scrigno di Yeats e l’immortale “Bright Star” di John Keats. Roberto Mussapi ci svela il rapporto tra magia e parola. Segreti radicati nell’amore che si fa Poesia, attraversati dall’atto magico della traduzione. In due preziosi libri strettamente connessi
Può la magia tradursi in Poesia, mi chiedo leggendo uno dei quaderni della collana curata da Isabella Leardini per Vallecchi, e nello specifico quello affidato a Roberto Mussapi che sceglie proprio questa parola, Magia, per descrivere una delle linee di forza della sua poetica? La magia di cui parla Mussapi, però, credo sia quella dell’amore, di quel sentimento che accoglie e rinnova, un amore che ridona la vita e richiama dalla morte. Non è il cruento duello tra Eros e Thanatos, ma il fiore che in forma liquida viene versato sulle palpebre degli amanti e conduce in un sogno che squaderna storie e voci. Fiore-fluido che si trasforma e trasforma. La Poesia è allora un sostituto, la formula che tramuta l’io e lo induce a fondersi (non ad annullarsi) nell’opera, mondato della superbia del Dottor Faustus ma innervato dell’umiltà di Keats, morto giovanissimo a Roma e consapevole della sua breve gittata e che nei versi si trasfonde e si immedesima, con il creato, con le creature. Keats sa e scrive che «il Poeta è la più impoetica delle cose che esistono, perché non ha identità, è continuamente occupato a riempire qualche altro Corpo, il Sole, la Luna, il Mare e gli uomini e le Donne… tutte creature naturali, naturalmente poetiche, ma il poeta no, non ha identità, è certamente la più impoetica di tutte le Creature di Dio».
Ma sì, invece, la Poesia è la formula – quel particolare rituale che restituisce un principio, un procedimento, una composizione, uno schema fisso che aiuta la memoria (come nelle formule omeriche), un complesso di simboli – che attesta l’invisibile, o quello che in un determinato momento può essere o venire percepito come invisibile, ma che la Poesia richiama e testimonia fornendo la chiave di accesso per un mondo che, così ridestato, suscita meraviglia. E, per osmosi, una forma di conoscenza per visioni ed estasi. Ecco, credo sia questo ciò di cui Mussapi ci parla conducendoci per mano nei mondi di Yeats e della moglie Georgie, o di Saba e Salomone, del grande mago Prospero che di fronte all’amore custodito nel cuore di Miranda spezza la bacchetta, o ancora di Stevenson che si ferma nella notte ad ascoltare il visibile per poi lanciarci in orbita con Molokai e Keola. «Il sogno astrale muove l’anima umana verso l’alto e l’infinito, ispira i versi dei grandi poeti, Keats che si rivolge all’usignolo, Shelley all’allodola e alla nuvola, e massimamente, al demone tra terra e cielo, il Vento Occidentale dell’ode famosa. E Ariel, il demone shakespeariano, è spirito dei venti… e l’uomo da sempre, come Leopardi supremamente, scruta la volta stellata».
Ma cos’è che unisce magia e sogno? Forse la capacità di guardare oltre e l’umiltà di denudarsi per essere accolti in un universo di senso più ricco e strano. Magia che sospende il tempo per spalancare i cancelli dell’inarticolato, le sue vele che si gonfiano e filano sull’oceano straniero di una coscienza dormiente ma non estinta. Il cuore di credere. Il cuore semplice, dice qualcuno. E magico perché strabiliante, qualcosa che è, ma ora non più, in subitanea metamorfosi. Onirico perché fatto della stessa sostanza dello Straniero. Simbolo e geroglifico. Conchiglie come cosmologie acquatiche, soffio sessuale e rigenerazione spirituale. Rinascita e traduzione. Anche questa è formula che dischiude il duro guscio di una sostanza straniera, irriconoscibile e inerte, all’apparenza. Ma intima, in definitiva, qualcosa che ci parla.
Se la vida es sueño e noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, la Poesia sarà trascrizione di un mondo onirico. Ecco il tentativo di Yeats. E la traduzione sarà l’interpretazione doppia di un geroglifico intravisto tra le cortine del sonno e nebulosamente ricordato al risveglio. Il sogno di un’amicizia lontana che non smette il suo canto, come nel romanzo di Javier Marias, Un cuore così bianco, dove una donna canticchia qualcosa che non si può fare a meno di ascoltare perché è una storia che si rimodula e torna, torna sempre, come l’amore, come la magia, come la poesia. Come la visione che si fa carne e parola. Una speranza di redenzione. Una certezza d’aria, d’Ariel, di vita che col suo gioco ci rende creature tremendamente serie, da prendere sul serio. Un incantesimo. Lucente. Quella stella. E un piccolo poeta che muore nella sua stanza accanto alla scalinata di Trinità dei Monti sentendo che s’appressa un alito di ghiaccio: «Non sarà dura. Grazie a Dio è arrivata». Un amico pittore che l’accudisce. Una tomba: Qui giace uno il cui nome è scritto sull’acqua. Mentre l’altro poeta dal destino lapidario, Shelley, per lui scriverà tra i più bei versi che abbia mai composto: per fargli spazio tra i morti che permangono, per dargli una tomba tra gli eterni dove possa dormire un sonno di rugiada, immemore dei suoi mali, ormai divenuto stella fissa.
Ecco, questo (e di più, molto di più) spira dalle pagine dell’altro libro dedicato alla traduzione di Keats, di Roberto Mussapi (una scelta antologica: Lucente Stella, Feltrinelli, 2022). Mussapi è sicuro traduttore di un’anima siderale che brilla ricordandoci un dolore che non offusca la bellezza dell’esistenza veloce, una bellezza che è verità, una verità che è bellezza: quelle che un cuore sottile sente nella gola spiegata di un usignolo, desiderando solo «entrare nel regno che quel canto svela, uscire dal fragile e straziante confine fisiologico tra vita e morte e passare in un altro regno, dove il dolore si dissolve in una diversa dimensione dell’essere». Tradurre il giovane poeta inglese, allora, segna per Mussapi l’ingresso nelle viscere della sua poesia, una necessità interiore, un allargamento dei confini, ma anche un’opera senza nome, lui poeta/mago innamorato della magia dell’amore. «E tu modula ancora, cigno morente, continua a narrare / la storia incantevole, la storia del dolore che si fa amare», verrebbe da dire con i versi che Keats rivolge a Lord Byron, quel fragile giovane che non rinunciava alla «dolorosa gioia d’amore», aspirando a vivere per sempre coricato sul seno sbocciato del suo dolce amore oppure a smorzarsi dolcemente nella morte.
Ecco il sogno che una magia traduce in poesia. Come il Bubo Bubo di Mussapi, il liminare custode:
(…) Non hai bisogno di conoscere il buio
e le ombre della selva e il velo della luna,
io sono qui, ai confini, tra la città e la campagna
accanto alle soffitte e sotto il cielo,
c’è luce nei miei occhi, ti fa luce
nella tua mente nel sonno e nel buio
l’amore che mutò la mia natura
dalle vette celesti alle ombre cupe,
io ali chiuse, Bubo Bubo custode.