Raoul Precht
Periscopio (globale)

Modello Stoner

«Arrivato a quarantadue anni, William Stoner non vedeva nulla di emozionante nel proprio futuro. Del suo passato, poco gli interessava ricordare». Omaggio a John Edward Williams, a cent'anni dalla nascita, inventore di un personaggio paradigmatico

Magari nel 2300 o 2400 la letteratura come la intendiamo oggi non esisterà più, e i suoi cultori saranno pari all’esiguo numero di persone che oggi si dedica, che so, all’arte del ricamo o a collezionare tappi di bottiglie. Se ci sarà ancora un’editoria e si produrranno ancora libri, quale che ne sarà la forma, sono però certo che almeno un romanzo continuerà a passare di mano in mano, da un lettore clandestino all’altro, e questo romanzo sarà Stoner di John Edward Williams.

Perché Stoner? Anzitutto, naturalmente, perché è scritto bene, perché coinvolge anche il lettore che non sappia nulla dell’ambiente (universitario) in cui si svolge la vicenda, perché, malgrado l’apparente stasi della stessa, è avvincente, perché è l’opera principale di un autore parco e riservato, che non sfornava un libro dopo l’altro ma li pubblicava solo quando gli pareva di essere giunto a un risultato espressivo convincente. Ma soprattutto perché è tanto verosimile da diventare vero, e questa verità lampante, assoluta, quasi perfetta derivante dal tono, dal linguaggio e dalla chiarezza della prosa è uno dei risultati più rari e difficili che uno scrittore possa raggiungere.

Di Williams celebriamo il centenario della nascita: era nato infatti il 29 agosto 1922 in Texas e si spegnerà per un arresto respiratorio a Fayetteville, nell’Arkansas, il 3 marzo del 1994, avendo vissuto negli ultimi trent’anni di vita un’esistenza apparentemente banale e priva di scossoni come quella del protagonista del suo romanzo principale, sia pure funestata dalla dipendenza da fumo e alcool. Ma prima, nella sua biografia contano molto l’esperienza della guerra (sarà per due anni e mezzo pilota aeronautico in India e Birmania), con la conseguente dotazione di incubi e attacchi di malaria, i quattro matrimoni e tre divorzi nonché i tre figli avuti in giovane età. Fin da ragazzo, si era segnalato come grande lettore, al punto da finire sui giornali e diventare una piccola celebrità locale per il numero di libri presi in prestito dalla biblioteca del liceo. Dopo gli studi universitari a Denver pubblica un romanzo, Nothing But the Night (Nulla, solo la notte, Fazi 2014), poi ripudiato, e una prima raccolta di poesie, The Broken Landscape, a cui nel 1965 ne farà seguire un’altra dal titolo The Necessary Lie. Dopo un dottorato di ricerca in letteratura inglese è di nuovo a Denver come assistente universitario e nel 1960 pubblica il suo primo romanzo importante, Butcher’s Crossing (anch’esso tradotto in Italia da Fazi nel 2013). Stoner, edito dalla Viking Press nel 1965 (in Italia, Fazi 2012, e ora anche Mondadori), è quindi il suo terzo romanzo; gli farà seguito nel 1972 Augustus, libro che gli darà l’unico riconoscimento rilevante, permettendogli l’anno successivo di ricevere il National Book Award, alla cui cerimonia Williams sarà tuttavia assente. (È anche l’unico suo libro uscito da noi quando l’autore era ancora in vita; fu infatti pubblicato da Sperling & Kupfer nel 1974 e ripreso in seguito da Frassinelli, Castelvecchi, Fazi e Mondadori.) Poi, dal 1972 alla morte Williams avrebbe lavorato a un unico romanzo, The Sleep of Reason, rimasto tuttavia incompiuto.

Malgrado tutte le differenze di ambientazione e di stile – Butcher’s Crossing è uno studio della vita di frontiera nel Kansas ambientato un secolo prima, Augustus racconta la vita dell’imperatore, Stoner si svolge nell’ambiente universitario americano della prima metà del Novecento – è stato rilevato come i temi affrontati da Williams nelle tre opere maggiori siano tutto sommato comparabili, se non identici: si parte dall’iniziazione di un giovane alla vita adulta, lo si segue mentre si districa fra le inevitabili rivalità e spiacevolezze che fanno parte della vita, si assiste alle sue vittorie (poche) e sconfitte (tante) nella vita professionale e nei confronti dell’altro sesso, fino allo scioglimento finale, su cui pesa l’ombra del grande scacco, della disillusione permanente. Queste, le affinità, declinate tuttavia in modo assai diverso da un romanzo all’altro.

John Edward Williams

In Butcher’s Crossing, una sorta di western (definizione che peraltro Williams odiava) ma molto sui generis, Williams presenta, precorrendo Cormac McCarthy, un’allegoria delle caratteristiche distruttive e perniciose del modo di vivere americano e una critica serrata della fascinazione di stampo emersoniano, che tanta influenza ebbe su certa letteratura americana, per la natura brada e selvaggia, considerata benigna a priori. Per documentarsi, Williams era solito passare giorni interi campeggiando nelle foreste e sulle montagne, e in un certo senso si può sostenere che si tratti anche in questo caso di un libro velatamente autobiografico, in cui confluiscono le esperienze fatte durante queste lunghe esposizioni al mondo naturale. La macellazione di una mandria di bufali che è al centro della narrazione diventa una descrizione forse troppo lunga, ma funzionale alla sopravvivenza della squadra di cacciatori in un inverno estremo che non lascia loro altra opzione di sostentamento. Siamo comunque lontanissimi, qui, da qualunque raffigurazione romantica e idealizzata della natura.

In Augustus, l’ultimo libro pubblicato, in cui narra la storia del grande imperatore prendendo le mosse dall’assassinio di Giulio Cesare nel 44 a. C. e che potrebbe sembrare, focalizzato com’è su un uomo di successo, una specie di anti-Stoner, lo scrittore si sofferma in realtà soprattutto sul potere e sui suoi abusi. Per Williams, che stilisticamente opta per un romanzo in gran parte epistolare, Augusto è un uomo capace e per certi versi illuminato, costretto però dalla sua dedizione al potere a compiere atti scellerati in nome di un bene che reputa superiore e a cui sacrifica brutalmente anche gli affetti più cari, figlia compresa. In un certo senso è il libro più politico di Williams, con un’acuta analisi dell’arte della guerra e delle sue motivazioni, sebbene poi vada rilevato come dalla politica attiva lo scrittore si sia sempre tenuto lontano, anche negli anni Sessanta e Settanta, quando sulla Guerra Fredda, sulla crisi di Cuba, sul Vietnam e sul movimento delle Pantere Nere ogni intellettuale, da Mailer a Baldwin, da Philip Roth a Vonnegut, era chiamato a dire la sua. Williams non ha semplicemente mai creduto a una funzione sociale o politica dello scrittore nella società, tenendosi quindi accuratamente in disparte, ma non si è sottratto al piacere di analizzare il potere e le sue distorsioni con cura, e a volte con sgomento, nelle proprie opere.

Ma è evidentemente su Stoner e sulla perfezione di questo piccolo libro che occorre soffermarsi. Un libro flaubertiano par excellence, esente da qualunque sentimentalismo e tributario di un’estrema precisione ed economia di mezzi, e dunque minoritario in una letteratura come quella statunitense, sempre così opulenta e mastodontica.

In un’intervista a Ian Hamilton per il London Magazine del novembre 1964, il poeta Philip Larkin, un coetaneo di Williams di cui abbiamo parlato recentemente, diceva (la traduzione è mia): “Una cosa per cui provo una leggera inquietudine è essere descritto come qualcuno che si è ritagliato una vita unicamente triste, uno che invecchia, deve lavorare e non riesce a ottenere le cose che vuole, e così via – ma è poi così diversa la storia per tutti gli altri? Mi piacerebbe sapere come passano il tempo tutti questi recensori romantici: per dirne una, riescono a uccidere molti draghi? Se gli altri hanno una vita meravigliosa, allora mi fa piacere per loro, ma non posso fare a meno di notare che i critici esagerano un po’ con le mie tristezze”.

Questa citazione, mutatis mutandis, si potrebbe applicare a Stoner, inteso ora come personaggio: Williams descrive infatti la vita di un giovane che intorno al 1910 lascia una fattoria del Missouri per diventare, gradino dopo gradino, un grigio e sottovalutato docente universitario, conducendo, fino alla morte nel 1956, una vita di studi e di relativa trasmissione del sapere che gli darà ben poche soddisfazioni. “Arrivato a quarantadue anni, William Stoner non vedeva nulla di emozionante nel proprio futuro. Del suo passato, poco gli interessava ricordare.” È in fondo la vita di tutti e di ciascuno, come di tutti e di ciascuno sono le delusioni sul lavoro, gli scontri coniugali, l’avventura sentimentale che per un attimo sembra riscattare tutto il grigiore, la scoperta dell’impossibilità di un’altra esistenza, l’accettazione dei fatti, che tuttavia non corrisponde necessariamente a una sconfitta su tutti i fronti.

A far inizialmente ignorare il romanzo congiurarono diversi fattori: anzitutto la cornice accademica, che già di per sé allontanava il lettore comune. C’era poi il fatto che il protagonista non è un eroe di successo, ma semmai a priori una figura triste e dimessa : uno che lavora sodo, ma senza ottenere particolari soddisfazioni, che sposa la donna sbagliata, che s’imbarca in una controversia lavorativa da cui uscirà sconfitto e che contribuirà alla fine a far fallire anche l’unica relazione amorosa soddisfacente, che si allontana sempre più dall’unica, amata figlia, Grace, mero strumento nelle mani della madre, diventando per lei un estraneo e sentendosi responsabile della sua dipendenza dall’alcool. Fin dall’inizio c’è poi un riferimento fin troppo colto al sonetto n° 73 di Shakespeare, in cui il Bardo evoca le occasioni perdute, l’invecchiamento quasi inconsapevole e la morte; riferimento assolutamente pregnante e anzi irrinunciabile, che, abbassandone i toni vibranti, Williams saprà trasformare in splendida evocazione narrativa e in personalissimo tributo, ma percepito forse dal lettore comune come troppo elitario. E ancora: Williams compie subito quello che secondo le scuole di scrittura è un errore madornale, ci racconta cioè fin dai primi paragrafi come finirà la storia e quello che possiamo aspettarci dalle circa trecento pagine successive. Così descrive fin dalle prime righe il suo personaggio: “Non superò mai il grado di ricercatore, e pochi studenti, dopo aver frequentato i suoi corsi, serbarono di lui un ricordo nitido. (…) Può capitare che qualche studente, imbattendosi nel suo nome, si chieda indolente chi fosse, ma di rado la curiosità si spinge oltre la semplice domanda occasionale. I colleghi di Stoner, che da vivo non l’avevano mai stimato gran che, oggi ne parlano raramente; per i più vecchi il suo nome è il monito della fine che li attende tutti…” Insomma, niente di eroico o di mitico. Già l’università del Missouri, dove Stoner trascorre fra studio e insegnamento quarantasei anni di vita, non è certo Yale, Princeton o Harvard; e la sua carriera, come Williams ci anticipa qui, non prenderà mai davvero il volo, sarà anzi ostacolata dalla sua dirittura morale e dalla scarsa inclinazione al compromesso. Quella rigidità e solidità di pietra preconizzata dal cognome del personaggio.

Le figure che si oppongono a Stoner e non gli consentono di riuscire nella vita sono davvero troppo forti per lui: e questo vale tanto per sua moglie Edith, frigida, convenzionale, nevrotica, isterica e maligna (forse l’unico punto debole del romanzo, per questa caratterizzazione troppo perfida, anche se la descrizione del corteggiamento, della prima notte di nozze e della luna di miele sono da manuale), quanto per la coppia di antagonisti rappresentata da due disabili, l’ambizioso collega Hollis Lomax, che diventerà poi capo del dipartimento, e il suo pupillo Charles Walker, studente di dottorato modesto e ignorante se non addirittura subdolo, cui Lomax vorrebbe far fare a tutti i costi una brillante carriera accademica. Durante l’esame orale Stoner si oppone fermamente, in nome di una superiore e olimpica fedeltà alla letteratura e al mondo del sapere, alle irregolarità e ai favoritismi di Lomax, ma uscirà sconfitto dallo scontro, che sembra quasi prefigurare ante litteram le attuali polemiche sulla “political correctness”. Non solo, ma sarà sempre a causa di Lomax, che di Stoner rappresenta una specie di alter ego, essendo egli stesso sconfitto dalla vita, che terminerà bruscamente anche l’unica relazione sentimentalmente soddisfacente e davvero passionale del protagonista, quella con la dottoranda Katherine Driscoll, unico lampo di luce e di felicità, quasi fuori tempo massimo, in una vita altrimenti scontata e ripetitiva.

Williams, che scriveva solo durante l’estate, quando era libero da impegni accademici, e che seguiva un suo modo di lavorare metodico e sofferto, dichiarò in più occasioni la propria indifferenza rispetto al numero di lettori che i suoi libri avrebbero potuto avere, e soprattutto di non aspettarsi alcun guadagno legato alla scrittura. Proprio a proposito di Stoner la sua agente, Marie Rodell, gli aveva del resto scritto: “I don’t see this as a novel with high potential sale” [Non mi pare proprio un romanzo dall’elevato potenziale di vendita.] Parole profetiche, o semplicemente realistiche, visto che venderà appena 1700 copie. (Si pensi, a mo’ di confronto, che il best-seller di quello stesso 1965, Herzog di Saul Bellow, vendette 142.000 copie in edizione rilegata, senza contare le successive edizioni economiche.) Inutile nasconderselo: il disinteresse generale per Stoner non influirà positivamente sull’animo di Williams. Praticamente ignorato alla sua uscita nel 1965, il romanzo dovrà attendere quarant’anni prima che si verifichino le circostanze che porteranno alla ripubblicazione e al successo internazionale, sottraendo almeno in parte Williams all’infausto destino di essere – come Salter o Yates o Mavis Gallant (di esempi se ne potrebbero fare molti altri) – un “writer’s writer” cioè uno scrittore amato solo da altri scrittori ma non letto (e acquistato) dal grande pubblico. All’affermazione del libro, ripubblicato in due diverse occasioni nel 2003 e nel 2006, contribuiscono la recensione, nel 2007, di un influente critico del New York Times, Morris Dickstein, l’entusiasmo di Colum McCann e di Julian Barnes sul Guardian e la traduzione francese, nel 2011, da parte di una scrittrice affermata e popolare, Anne Gavalda, che spingerà gli editori dei principali paesi europei a intraprendere anch’essi lo sforzo di tradurre l’opera. (Già nel 1973, a dire il vero, all’uscita del libro in Gran Bretagna, C. P. Snow si era espresso in modo entusiastico, chiedendosi perché mai il romanzo non fosse universalmente famoso, ma le sue parole erano rimaste inascoltate.) Nel 2018 sarà poi pubblicata, ad opera di Charles J. Shields, anche un’accurata biografia di Williams. A fare il resto sarà tuttavia il passaparola dei lettori, affascinati, sconvolti, grati per una storia che sembra riassumere in sé un destino generale, quello di un uomo che affronta le peripezie della vita con gli strumenti di cui di volta in volta dispone, raramente vincendo, più spesso uscendone sconfitto, e che alla fine muore, banalmente e come tanti altri, per un tumore. Sconfitto e distrutto, ma al tempo stesso vincente, per aver saputo, malgrado tutto, conservare e nutrire per tutta la vita una passione, quella per i libri. Ma William Stoner resta anche una figura tragica, se pensiamo – e questo è un monito per tutti noi – che le sue traversie umane non gli saranno state rese più facili dal fatto di aver vissuto circondato dai libri, perché anch’essi nascondono un pericolo sostanziale, quello di non riuscire a surrogare la vita vera e di lasciarci, alla resa dei conti, con in mano il classico pugno di mosche.

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