“Autobiografia della gaffe”
Il Gaffeur Fortunato
Per Umberto Eco è «un atto di sincerità non mascherata», per Mario Fortunato, autore di un libro un tempo suggerito da un “editore monarca assoluto”, è molto altro. Fenomenologia della gaffe analizzata e ricostruita nell'arco di un'esistenza e strettamente intrecciata con la Letteratura
Autobiografia della gaffe di Mario Fortunato, è un piccolo bellissimo libro (Neri Pozza, 151 pagine, 14,50 euro). Centocinquanta pagine che in realtà ne contengono molte altre a cui rivolgere la propria attenzione se si è disposti a rispondere al canto delle sirene (tutt’altro che pericoloso) pronte a travolgere il lettore. Perché se in quest’opera l’autore ha deciso di mettere a nudo la sua natura di gaffeur, in effetti utilizza in parte questa personale attitudine come MacGuffin – quell’espediente narrativo (ma qui tutt’altro che irrilevante) che serve allo svolgersi della trama e che si rivela davvero solo alla fine – a cui Hitchcock faceva ricorso nei suoi film.
La narrazione autobiografica procede in modo cronologico evitando tutti i difetti dell’autorefenzialità. Le memorie dell’autore muovono al riso, alla tenerezza e inducono a un’introspezione non priva di utilità. A partire dalla giovinezza, la fenomenologia della gaffe viene dunque a configurarsi. Il primo episodio rilevante risale ai 28 anni: Mario Fortunato, già celebrato “giovane scrittore” (per Luoghi naturali, Einaudi, 1988, viene definito “maestro del racconto”), viene invitato a un dibattito su “La letteratura e i giovani”, alla presenza delle autorità e di Giulio Einaudi, suo «primo editore e monarca assoluto». Azzarda un esempio strettamente correlato a una disabilità del sindaco (o prefetto) seduto in prima fila e, non facendo eccezione alla caratteristica che distingue il gaffeur, prosegue imperterrito senza accorgersene addentrandosi nel parallelismo. «Sei così bravo in materia – il commento dell’editore monarca assoluto – che dovresti scrivere un libro sulla gaffe».
Ed ecco che la gaffe si rivela indissolubilmente legata alla giovinezza (che ben inteso può protrarsi nel tempo), perché nascendo «da un atto di sincerità non mascherata» (Umberto Eco), «l’obiettiva sopravvalutazione della sincerità è un tipico appannaggio dei ventenni». La gaffe può essere indotta da un colpo d’occhio, l’Augenblick, quel batter di ciglia estatico che secondo Heidegger (Fortunato ha studiato filosofia all’università e il tedesco fu per lui «scoperta e passione») «è una folgorante visione ontologica che precede il pensiero e lo racchiude… » (definizione di Fortunato). Può iscriversi «nella nobile tradizione zen del tiro con l’arco», è anche, o prima di tutto, «un tentativo di autodiffamazione», «controspionaggio interno» dell’inconscio, ha un «carattere eversivo», è un’arte – alludendo a Montale – «disgraziatamente semantica». Attraversando Freud e la sua Psicopatogia della vita quotidiana (altra lettura decisiva nella sua formazione), l’autore mette a fuoco la differenza tra la gaffe e il lapsus: «la gaffe nasce da qualcosa di primitivo e intrattabile, il lapsus contiene invece un nucleo intenzionale, benché camuffato. È malizioso, là dove l’altra è per definizione ingenua».
Appare anche “l’omino gobbo” ad agitare il mondo del gaffeur. È «l’inquilino della vita distorta» dell’Infanzia berlinese di Walter Benjamin, la sua caratteristica principale «consisteva nel fissare il malcapitato e tirargli un brutto scherzo, producendo guai d’ogni genere»: l’omino gobbo rappresenta per Benjamin quello che per il nostro autore «si condensa nella figura della gaffe». Per Benjamin «è la proiezione della sua tragica inadeguatezza», per Fortunato «il riflesso ridicolo e modesto – ridicolo perché modesto – della mia inettitudine».
A questo punto della nostra descrizione, non starà sfuggendo perché si è pensato al MacGuffin. Si è arrivati a pagina 89 passando attraverso autori e opere (e non solo quelli citati), e abbiamo ancora abbastanza margine per addentrarci oltre: Ingeborg Bachmann, Evelyn Waugh, E.M. Forster, Marcel Proust. Addentrarci nelle loro opere amate dall’autore che magistralmente contagia il lettore con quest’amore, opere lette e rilette, comprese e anche tradotte in epoche diverse della vita, opere da cui l’autore estrae elementi di gaffe riconoscendo se stesso. Il contagio che Mario Fortunato espande passa attraverso una lingua narrata che risuona come un canto, com’è nel suo stile (vediQuelli che ami non muiono mai, Le voci di Berlino, Sud – cito parzialmente, ma tanti altri titoli convalidano la mia impressione) che molto si esercita nell’arte della traduzione. Non a caso, Fortunato è stato annoverato tra i premiati dal Ministero della Cultura come migliore traduttore del 2022: per Autobiografia di un perdigiorno di Evelyn Waugh e per aver già superato brillantemente le “sfide” lanciate da Virgina Woolf e Guy de Maupassant.
Nel capitolo conclusivo, “Vecchiaia”, Mario Fortunato individua all’orizzonte una speranza di salvezza. Qualcosa verso cui si avanza e che saprà dare ristoro all’inguaribile gaffeur, «un premio e una benedizione… il faro nell’oceano di uggia della senescenza». Suggerito dal solipsismo che è «vocazione emotiva» coltivata nell’età estrema, il silenzio è l’approdo che toglierà alla gaffe il suo ubi consistam. In quel silenzio, in quel brillio vedo una promessa di futuro che contiene il passato e il presente: l’immensità della Letteratura, tutta quella che la vita di Mario Fortunato, in ogni suo passaggio, contiene, che delinea la sua autobiografia e che è a disposizione di tutti noi.
Nell’immagine vicino al titolo, particolare di “L’uomo disperato, autoritratto” di Gustave Courbet, che appare anche nella copertina del libro di Mario Fortunato