Giuliano Compagno
Tra performance, danza e teatro

Appunti sul Nuovo

Incontro con Tomasz Kireńczuk, direttore artistico del festival di Santarcangelo: «La pratica artistica concede la possibilità di rinnovare i pensieri e le prassi ma è fondamentale non cercare il Nuovo, giacché trovarlo è difficile, forse impossibile»

A Lubsko abitano in ventimila, affacciati lungo il fiume Lubsza a meno di trenta chilometri dal confine tedesco; ettari ed ettari di foreste attorno alle abitazioni. Nel 1985, quando vi nasce Tomasz Kireńczuk (nella foto), Lubsko sembra un paesotto rurale, grigio, senza futuro. Non per tutti i bambini, a quattro anni, suona la campana della libertà. La ode il piccolo Tomasz e milioni di polacchi… Vivaddio! Dopo mezzo secolo tra nazisti, stalinisti e presidenti-fantoccio. Colui che ho dinanzi a un tavolino di Zaghini, dove mangiavano Fellini e Tonino Guerra, è quel bambino di un tempo, che oggi è il direttore artistico del Festival di Santarcangelo.

È alla sua terza esperienza, vero?

Sì, nel 2008 avevo fondato il Teatr Nowy di Cracovia, che sarebbe diventato uno dei più importanti centri di produzione di teatro indipendente in Polonia; poi, tra il 2011 e il 2019 ho collaborato con Krystyna Meissner alla programmazione e alla curatela di “Dialog. International Theatre Festival” a Wroclaw, una rassegna che in Europa ha lasciato un bel segno.

Mi vado a leggere queste poche righe: “Alla base del progetto di Dialog c’era l’idea di provocare un confronto tra produzioni straniere polacche, se possibile. Talvolta nascevano dei conflitti, talaltra no. Di sicuro avevano luogo incontri, scambi, si parlava di quel che stava all’origine di ogni produzione… A Dialog le discussioni sugli spettacoli sono importanti”. Parole di Krystyna Meissner, una delle grandi protagoniste del teatro europeo. Come iniziò la vostra collaborazione?

Quella della Meissner era stata una grande intuizione: era il momento di Dialog! E mi chiese di farle da portavoce. Le dissi che forse non sarei stato capace, ma lei ci credeva più di me. E poi Wroclaw era un’esperienza fondamentale! Siamo presto diventati molto amici, tanto che lei mi ha offerto di diventare il suo assistente. Era assai più grande di me, se mi ricordo bene era nata nel 1933 e aveva incominciato negli anni ’60. Forse questa grande distanza ha reso più semplice il nostro rapporto. Aveva una personalità forte, un carattere difficile ma nutriva anche un’infinita curiosità. Davvero, non ha mai smesso di informarsi, di chiedere… persino quando era malata domandava cosa stesse accadendo di nuovo… Una grande apertura mentale!

E cosa le ha insegnato?

Il mondo delle arti stava cambiando e con esso mutava la figura del curatore. Di questo eravamo entrambi consapevoli. Eppure nel corso di quella grande trasformazione, la cosa più importante che mi andava insegnando era il senso delle scelte artistiche. Per lei ogni curatela era fondata qualora si riuscisse a difendere la propria scelta senza mai deflettere di una sola parola, senza mai calcolare nulla di politicamente conveniente. Krystyna Meissner mi consiglierà di seguire sempre la mia intuizione. «Per quanto riguarda uno spettacolo devi rispondere a una domanda: se l’artista verrà attaccato, riuscirai a difenderlo senza mezzo dubbio? Se sì, la tua scelta era giusta!».

Klatwa” del regista croato Oliver Frljić

Ed è mai accaduto?

Sì, accadde con enorme clamore nel 2017. Avevamo scelto uno spettacolo di grande impatto: Klatwa del regista croato Oliver Frljić. Il lavoro era ispirato a un dramma del 1903, opera di un pittore e drammaturgo cracoviano, Stanisław Mateusz Wyspiański. Si intitolava L’anatema e Frljic l’aveva trasformato in una performance dove la religiosità tradizionale e contemporanea colludevano in un verso tragico attraverso le umane attitudini della subordinazione e dell’umiliazione, con la scabrosa implicanza del dubbio: Giovanni Paolo II era stato compiacente riguardo ai casi di pedofilia? A mettere in scena tutto ciò, in Polonia, era un regista acclamato, un rappresentante del teatro critico europeo; ciò non impedì che scoppiasse il finimondo: attacchi politici contro il teatro, violenze, manifestazioni, picchetti all’entrata del teatro per impedire l’accesso al pubblico, fino al punto che il ministro della cultura minacciò di ritirare il finanziamento ministeriale al festival…

E lei non si piegò, e fece benissimo.

Ero comunque scioccato: la politica non poteva arrivare a tanto! Ci avrebbero negato il 30% del budget ma noi mettemmo in scena Klatwa come programmato. I soldi ce li tolsero davvero. E io organizzai un crown founding fino a coprire in una settimana quanto era venuto a mancare. Vincemmo noi, vinse il desiderio di difendere una scelta. Il mio attivismo era prevalso su tutto. Le imprese eroiche sono ben altre, sia chiaro. Ma il nostro era stato un piccolo atto di libertà.

Ho scelto quattro spettacoli tra quelli che andranno in scena a partire da venerdì 8 luglio. Li commentiamo a uno a uno?

Ottima idea!

Perché New Creation di Anna Karasińska?

Anna Karasińska è un’artista nata in Polonia. Ha studiato Belle Arti, filosofia e regia. I suoi spettacoli sono generalmente segnati da una sobrietà formale, da un certo disinteresse per ogni gerarchia e dal forte coinvolgimento emotivo del pubblico. Lei si occupa di spazi locali e in qualche modo li cambia, li risuscita e li ricolloca in una nuova situazione. Inoltre Anna non lavora con attori professionisti….

Il che sarebbe banale se non fosse che i suoi riferimenti sono le comunità adiacenti il luogo stesso…

Proprio così. In questo caso Anna ha usato un luogo importante di Santarcangelo, un vecchio cementificio che appartiene della storia della città. Il “Buzzi-Unicem” chiuse nel 2008 e da allora si è progressivamente sgretolato, quasi a diventare una specie di castello diroccato. La narrazione spontanea è stata affidata a quattro migranti che campano e lavorano lì attorno e a una storica locale.

Mi viene in mente che questi luoghi industriali siano recentemente diventati luoghi di guerra e di resistenza da parte di civili e di militari assediati. Rifugi sotto attacco. Quale sarebbe la metafora di questa immagine?

Che in Europa non stiamo poi tanto bene. Ci illudiamo che sia un posto sicuro e accogliente, che ciascuno abbia diritto alla propria sicurezza… ma noi sappiamo che non è così; nella mia Polonia erigono muri alle frontiere e ci sono i migranti siriani che vanno a morire nelle foreste. La grande speranza è che questi spazi abbandonati diventino luoghi di cura, di vita e di dimora.

Catol Teixeira, foto di Julie-Folly

Perché La peau entre les doigts di Catol Teixeira?

Catol è una performer e coreografa di Porto Alegre, tra le città brasiliane una delle più sensibili all’arte contemporanea. Tra il suo incuriosito peregrinare, danza classica, circo aereo e la grande scuola a La Manufacture di Losanna. Attualmente vive a Ginevra. Nel 2017 ha partecipato al ROAR di Berlino, dove ha studiato con Anna Nowicka e Maria F. Scaroni. Il suo lavoro si interroga sulla movimentazione e sull’abitazione del corpo. Cos’è il punto di vista? Perché muovermi? Quale paura mi blocca? Di conseguenza la sua performance è un’alternanza di presenza e di assenza, di intimità e di allontanamento.

Mi ricorda un bel saggio di Edward Bullough (tra l’altro genero di Eleonora Duse…) che curai e tradussi venticinque anni fa: La distanza psichica come fattore artistico e principio estetico. Appena torno a Roma ne citerò un breve passo… «Il centro di gravità di un’esperienza piacevole risiede nell’Io che la sperimenta».

Mi sembra molto pertinente. Catol si muove nell’incertezza e nell’ignoto, si sposta dove vi sia una crepa da oltrepassare. Egli è un artista non binario e lo spettacolo rappresenta una sorta di lavoro finale alla scuola di Lausanne. Lui è una performer fortissima e la qualità del suo gesto è insuperabile, una presenza potente che investe un corpo, come il suo, che è in trasformazione e che segue il movimento dello spettatore. Il suo è un corpo divenuto artigianale, nel senso che gli dava Peter Brook: non siamo artisti ma artigiani di una tecnica specifica.

“Siamo ovunque” foto di Dorothée Thébert-Filliger

Perché Siamo ovunque?

Siamo ovunque è un progetto ideato da Dreams Come True, Hichmoul Pilon Production, Collective anthropie e l’omonimo collettivo bolognese. La direzione artistica è di Yan Duyvendak, artista belga poliforme che ama utilizzare la sua espressione visiva e rappresentativa all’interno di fenomeni socio-culturali. Yan ha saputo creare uno spettacolo con i collettivi svizzero-italiani, con attivisti e militanti nelle emergenze e nei conflitti. Ciò darà luogo a una lettura collettivo da parte di un pubblico disposto in una tavola rotonda: voci femministe, anticapitaliste, antirazziste, antispeciste, hacker, voci contro qualunque forma di oppressione sociale, per i diritti LGBTQIA, contro gli ecocidi, per i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori del sesso, contro la violenza poliziesca, per l’autodeterminazione e l’emancipazione di tutte le lavoratrici e i lavoratori, contro la precarietà del lavoro, contro il sistema penitenziario e a favore delle occupazioni a difesa dei territori. Sono e saranno Ovunque.

Infine, perché La notte è il mio giorno preferito di Annamaria Ajone?

Perché Annamaria Ajmone è una fantastica danzatrice, nonché una coreografa eccellente, che pone il corpo come materia cangiante a seconda dei suoi luoghi di visitazione. Ha frequentato molti festival di arti performative e poi gallerie d’arte internazionali. Ora è artista associata della “Triennale Milano Teatro 2021-24”. Annamaria conduce una ricerca di grande sensibilità sullo sguardo degli animali per sentire la loro presenza all’interno della Natura, il che ci è purtroppo estraneo e concerne il concetto di conservazione.

Annamaria Ajmone, foto di Andrea Macchia

L’esperienza dello sguardo animale ha coinvolto Michele Sofisti, un fotografo italiano che vive presso Neuchâtel e si è soffermato sugli occhi diffidenti, impauriti e accorti di questi esseri perennemente in pericolo.

Proprio così: La notte è il mio giorno preferito è una riflessione sul rapporto con l’Altro che si sviluppa attraverso una meditazione sugli animali e sugli ecosistemi ove essi abitano. A ciò la Ajmone si ispirata al saggio di Baptiste Morizot Sur la piste animale, una acuta indagine filosofica sull’arte dell’abitare di molte creature animali.

Quali sono stati i suoi riferimenti letterari di lingua polacca?

Non ho molti dubbi: Tadeusz Kantor…

Ricordo ancora l’incipit del mirabile saggio Renato Palazzi su Kantor, La materia e l’anima: «La sera del 15 novembre 1975, fra le nude pareti di mattoni della Galleria Krzysztofory, una cantina divenuta il luogo di ritrovo del più irrequieto gruppo artistico di Cracovia, l’eterna capitale culturale polacca, un uomo di teatro non più giovane e pressoché sconosciuto fuori dal suo Paese presenta uno spettacolo che cambierà per sempre la scena del Novecento. I grotteschi vegliardi della Classe morta, gli atroci cadaveri ambulanti dai volti grigiastri e dai poveri abiti neri che al suono struggente di un valzer effettuano sinistre parate circensi attorno ai banchi della loro antica scuola, portandosi sulla schiena gli inquietanti manichini di cera nei quali sono raffigurati loro stessi da bambini, pongono il pubblico di fronte a un mostruoso specchio deformante, lo costringono a confrontarsi con un’insopportabile prefigurazione del nostro comune destino».

Meraviglioso!… E poi Witold Gombrowicz! I suoi Indemoniati… «Non sapete leggere, giovanotto?» disse un viaggiatore grigio e occhialuto a un giovane che si sporgeva dal finestrino. «Non vedete che lì c’è scritto VIETATO SPORGERSI?». Il treno era partito da poco da Lublino.

Torno per un attimo al Teatr Nowy di Cracovia. Cosa significa per lei il Nuovo?

Il Nuovo è una cosa infinita. La pratica artistica concede la possibilità di rinnovare i pensieri e le prassi ma è fondamentale non cercare il Nuovo, giacché trovarlo è difficile, forse impossibile. Occorre non abituarvisi. Il nuovo accade, e nel momento in cui lo scorgi, tutto cambia ancora una volta. Dirigendo un festival come questo, viene da pensare di proporre qualcosa di nuovo, ma poi comprendi che non serve presentare qualcosa di mai visto, piuttosto entrare in un meccanismo e donare una nuova energia e una nuova sensibilità.

E i suoi riferimenti di lingua italiana?

Appena giunto a Roma fui molto coinvolto dall’opera di Pier Paolo Pasolini. Lessi il suo primo libro proprio a Santarcangelo, era un’intervista pubblicata da Feltrinelli. Lo tradussi parola per parola, fu una fatica felice. Le sue opere cinematografiche erano conosciute in Polonia, mentre i romanzi non erano molto tradotti. Ho anche lavorato sul Futurismo, di cui mi interessavano i cambiamenti che esso aveva provocato nel teatro contemporaneo. Dunque mi concentrai sulla sua performatività rapportata a quella del mio tempo.

Posso raccontarle in poche frasi la mia Polonia?

La ascolto volentieri

La mia Polonia è quella oppressa nel 1970, che ero ancora bambino ma vedevo i telegiornali e la gente arrabbiata. Non la invasero i carri armati ma ricordo gli operai uccisi e la grande repressione interna. Il vostro presidente era…

Władysław Gomułka! Che tragedia…

Sì, lui. poi Solidarność, il sindacato che mi pareva imbattibile, l’arresto di Lech Wałęsa, la libertà vigilata e infine la liberazione dai sovietici… E dire che in Italia oggi vi è chi è tornato a simpatizzare per i sovietici… Poi ci fu la Polonia del Papa, gli immigrati e i visitatori che mi parevano assai temporanei. E quando visito Cracovia nel 2003, essa mi appare come una città silenziosa che aspetta una chiamata alla gioia.

Una chiamata che arriverà poco dopo. La Polonia di oggi con il suo potere che governa i conflitti che crea, con i milioni di rifugiati ucraini, quelli che già c’erano e quelli che abbiamo accolto dopo l’invasione. C’è stata una solidarietà reale ancor più da parte della cittadinanza che non dai politici. All’inizio la situazione non era molto chiara, si avvertiva pesantemente la propaganda di Putin, ad esempio sulle fantomatiche repubbliche indipendenti. Vero, noi abbiamo avuto esperienze difficili con l’Ucraina, l’abbiamo dominata per secoli; molti miei famigliari furono uccisi dagli ucraini negli anni ’20… Mia nonna mi diceva sempre che, da un lato la famiglia aveva sofferto molto ma dall’altro lato lei non sarebbe sopravvissuta se i vicini ucraini non l’avessero aiutata a fuggire. C’è gente buona ovunque.

Grazie di questo bel dialogo, Tomasz Kireńczuk. C’è una frase di Primo Levi che, mi auguro con tutto il cuore, non sarà mai più valida sino alla fine del mondo: «Perché ognuno è l’ebreo di qualcuno, perché i polacchi sono gli ebrei dei tedeschi e dei russi». Viva la Polonia! Viva l’Ucraina! E che sia splendido il suo Festival di Santarcangelo!

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