Paolo Petroni
Alle Terme di Caracalla di Roma

Tempo di Bernstein

"Mass", l'opera di Leonard Bernstein diretta da Diego Matheuz con la regia di Damiano Michieletto per Il teatro dell'Opera di Roma è quasi un "riassunto" del '900. Sia dal punto di vista musicale sia da quello storico sociale

Una grande orchestra, con elementi anche molto diversi e un direttore delle qualità di Diego Matheuz che riesce a eseguire e passare con semplicità espressiva dal blues al contrappunto bachiano, dal musical ai giochi alla Stravinsky, dallo swing rock a varie citazioni classiche e non, così che dà il meglio della complessa e varia partitura eclettica della Mass di Leonard Bernstein, che quando nacque nel 1971, proprio per questa sua disinvoltura musicale, a suo tempo fece arricciare il naso a molti musicologi, mentre le vere contestazioni gli arrivarono per i contenuti.

Scritta negli anni più caldi della contestazione e delle dimostrazioni contro la guerra in Vietnam, è un po’ invocazione, un po’ richiesta, ora spirituale ora perentoria, della pace, inserite in una Messa tutta particolare, religiosa e laica col suo grido dubbioso «siamo stanchi del tuo silenzio celeste»,  interrogativo sull’assenza di Dio per quel che accade sulla terra e tra gli uomini (oggi sappiamo che persino l’Fbi si interessò alla sua messinscena e al suo autore e il presidente Nixon, invitato alla prima, la disertò).

Quindi, in queste estati in cui gli enti lirici puntano su un repertorio stanco, l’iniziativa dell’Opera di Roma è lodevole e interessante, pur se tutti hanno rilevato come la vena e la verve di Bernstein qui apparisse stanca, più appoggiata alla maniera e la tecnica che alla sua celebre, scintillante inventiva. Quel che lascia perplessi invece è come un atto di qualità come questo sia stato poi mandato allo sbaraglio sul piano dello spettacolo, incongruo, banale, con le coreografie televisive di Sasha Riva e Simone Repele e la regia di Daniele Michieletto, che aveva da costruire uno spettacolo spoglio, intenso, essenziale, una messa e un’invocazione, e invece, come si sentisse costretto a mostrare invenzioni varie, propone un lavoro tutto esteriore, eccessivo e superficiale, sentendosi forse sfidato dalla grandiosità degli spazi delle Terme di Caracalla.

Per fortuna è in parte sia teatrale, sia musicale, il protagonista, il perno del lavoro, il prete celebrante impersonato dall’ottimo baritono austriaco Markus Werba, contornato dalle giovani ma già abbastanza solide voci dell’Accademia. Il problema è che lui dovrebbe officiare una messa tradizionale in latino, con  inserti i  inglese stile gospell e in ebraico, e appena  si intona un canto sacro, un Kirie come un Sanctus, ecco apparire inopinatamente a occupare il cento della scena una o più coppie di danzatori impegnate in sensuali passi a due, così che, per esempio, tutto l’inizio sembra rifarsi a echi di un film musicale come Sette spose per sette fratelli mentre i presenti fanno e disfano un muretto perpendicolare alla scena. Muretto che prelude al grande muro che andrà a chiudere il fondo con le sue tre parti calate da tre grandi gru, simbolico di una mancanza di comunicazione e pregiudizi tra le persone (e non tra queste e un’entità superiore, una necessità di spiritualità, prima messa fortemente in crisi e poi recuperata coralmente). Comunque discorso comprensibile, legato a un lavoro nato contro la violenza e la guerra, così che su questo muro compiano i nomi dei tanti muri che costellano oggi il nostro pianeta con la loro lunghezza, tra Ungheria e Serbia, tra Usa e Messico, tra Israele e Palestina, e così via in un numero altissimo e che va aumentando, ma poi ci sono tentativi di trapassarlo, con mani e braccia che compaio, poi viene invaso da una grande scritta didascalica, Wall of shame, per chi non avesse capito, e ancora vi viene dipinta una grande croce nera su cui l’officiante con una scala va a mettersi come un Cristo.  

In questo, e nei balletti che sembrano prescindere dal contesto in cui vengono eseguiti, la sostanza e la forza della “mass” di Bernstein sono diluite, si sperdono, mentre è nota l’edizione in cui il Celebrante nel momento culminante della contestazione da parte dei partecipanti alla messa lancia a terra il calice e l’ostia che sta per consacrare. Certe volte un gesto è più forte di tanta, complessa, pensata messinscena, che qui termina con ancora le gru che sollevano alcuni pesanti teli neri come incatramati, sino a farne dei pinnacoli, delle sorte di tende, non si sa.

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