Al Palaexpo di Roma
PPP in contumacia
L'ennesima mostra dedicata a Pasolini è una reinvenzione del suo mondo e dei suoi film firmata dal fotografo tedesco Ruediger Glatz (con la complicità dell'attrice Tilda Swinton): performance e immagini in memoria e in assenza
Un’altra mostra su Pasolini. Una delle tante, troppe rivisitazioni che si sono moltiplicate in tutt’Italia nel centenario della nascita, celebrato come un rito di purificazione collettiva dai sensi di colpa, dalle accuse, dai sospetti che la sua morte prematura e feroce ha messo in circolo, con vistose scivolate nell’agiografia che consentono a tutti, anche a chi lo ha disprezzato e combattuto, di impadronirsi delle sue profezie, delle sue opere e delle sue contraddizioni e neutralizzarne l’impatto, trascinandolo come un santo fuori dal suo e dal nostro tempo.
È una mostra che si è appena inaugurata a Roma nelle sale del Palaexpo, dove terrà banco per tutta l’estate, una sorta di prologo alla grande passerella di riepilogo che sempre qui in autunno dovrebbe sigillare l’ultimo atto delle celebrazioni. Lo sguardo che ci propone è quello della fotografia, un linguaggio al quale Pasolini si è avvicinato con molta diffidenza. Arrivando a negarne in molte interviste non tanto il valore estetico, che comunque trovava spesso mistificante, quanto l’ambizione di catturare la realtà e il senso del tempo.
Quell’istante di un volto, di un corpo, di un’azione umana congelato nella scelta e nell’intenzione di uno scatto gli appariva come una prigione che ne tradiva la trama nascosta e ne indeboliva gli echi. Preferiva le foto di occasione, specie quelle di gruppo, che gli lasciavano da spettatore la possibilità di interrogare le figure anche di margine, immaginarne o decifrarne gli stati d’animo, il prima e il dopo che portavano in scena. Il movimento. Quel susseguirsi di immagini da saldare in racconto che la pratica del cinema, affrontata da autodidatta, gli aveva insegnato. O l’alternarsi di immagini fisse e altre in sequenza che aveva individuato come momenti di forza espressiva in alcuni dei suoi documentari più riusciti d’indagine sociologica come La rabbia.
Una diffidenza, quella per la fotografia, che però a volte in Pasolini lasciava il posto ad una sorta di gratitudine sognante, come per quelle immagini di lui giovinetto a Casarsa che gli rimandavano l’eccitazione innocente di una vita tutta da vivere. Oppure, sulla stessa scia, ad una condiscendenza nel mettersi in posa, il suo corpo che sprizzava energia sui campi di calcio tra i ragazzi che lo circondavano, o si esibiva in giacca e cravatta tra gli amici e negli incontri nei salotti buoni della cultura romana. Per consegnare così al futuro le attese e la soddisfazione del suo io narciso. Con un calcolo tra il dare e l’avere che, divenuto più netto negli ultimi anni, include anche le fotografie costruite con la complicità di un amico, Dino Prediali, come materiali del romanzo in gestazione, Petrolio, che lascerà incompleto.
Scatti di lui nudo, nelle stanze della Torre di Chia, suo ultimo rifugio, commissionati e realizzati per sembrare scatti rubati, schegge di un vouyerismo artefatto cui consegnava come un capro espiatorio il suo corpo e i suoi impulsi rapaci.
No, non c’è nulla di tutto questo nella rassegna del Palaexpo. Per attraversare questo capitolo si può visitare un’altra mostra ospitata a Roma nello Spazio WeGil a Trastevere (clicca qui per leggere la recensione di Roberto Cavallini). O recuperare il ricordo recente di un’altra intrigante esplorazione pasoliniana, ricca di sottigliezze da addetti ai lavori, incastonata come un siparietto tra il bianco e neri esposti a Roma, alla Nuvola dell’Eur, in un revival del festival della fotografia organizzato da Marco Delogu come un riassunto della manifestazione che ha inventato e per oltre un decennio è stata il suo cavallo di battaglia.
Forse un sasso lanciato, come volontà di riprendere l’avventura, nello stagno della cultura capitolina, facendo tesoro dell’esperienza di gestione dell’istituto di cultura a Londra, conclusa un anno fa con il rientro in Italia. Credenziali che gli hanno spianato la strada verso la guida del Palaexpo, al posto del presidente uscente Cesare Pietroiusti, nel giro di nomine decise dal nuovo assessore alla cultura Gotor e dal sindaco Gualtieri.
Ed ora eccolo qui nella sua prima uscita ufficiale a presentare la mostra Reflecting Pasolini che il suo predecessore gli ha lasciato in eredità. Con un doppio e palese imbarazzo. L’ansia del debuttante cui è stata affidato il compito di risollevare le sorti di questo padiglione espositivo di via Nazionale e restituirgli un pubblico all’altezza dei suoi costi e del suo prestigio. Impresa complicata dalla disaffezione innescata dal covid e dalla programmazione altalenante e a singhiozzo dell’ultimo quinquennio che ne ha ridotto il richiamo sia a livello internazionale che cittadino.
E l’impaccio di un esperto e grande ammiratore di Pasolini che, pur apprezzando la qualità delle opere dell’autore chiamato alla ribalta, una sessantina di foto in bianco e nero firmate da un collaudato collega tedesco di 47 anni, Ruediger Glatz, non condivide probabilmente né le direzioni su cui si è concentrato il suo sguardo, né l’impostazione patinata di questa rivisitazione: lui alla Nuvola dell’Eur ha scelto altre strade.
L’idea di partenza, come spiega il titolo, è di interrogare i messaggi e l’arte di Pasolini, non in presa diretta ma cogliendone e decifrandone i riflessi rimandati dagli specchi di due campi d’osservazione diversi.
Il primo è la registrazione di una coinvolgente performance svoltasi l’anno scorso al Mattatoio e replicata per pochi giorni, con la regia di Olivier Salland, storico e curatore di moda. E l’interpretazione di un’attrice di straordinario talento, Tilda Swinton, invitata a rimodellarsi addosso gli abiti e i costumi confezionati per i set di Pasolini dal suo collaboratore preferito, un maestro da Oscar come Danilo Donati. E a ridar loro vita, insieme a quella dei personaggi che li indossavano, recuperando ed evocando i gesti, le pose, i volti degli attori e delle attrici dei vari cast.
La memoria e le emozioni del cinema trasformate tra le arcate di ghisa del padiglione di Testaccio, in un rito di vestizione e camuffamento alla Fregoli di grande impatto, in bilico tra teatro e sfilata di moda. Apparizioni in palcoscenico e dietro le quinte.
Allo spettatore il compito di addentrarsi in quel labirinto incantato di allusioni e agnizioni, confrontarlo con i propri lontani ricordi di pubblico in sala o di un remake alla tv, seguendo il filo d’Arianna che i movimenti plastici ed enigmatici di Tilda Swinton stendevano di volta in volta davanti ai loro occhi. Un gioco di preziosa fattura, ma in cui Pasolini – evocato da un doppio rimbalzo, quello dei costumi di Danilo Donati, e quello di una performer, abilissima ma d’altra generazione e altra scuola – finiva trasfigurato in una sorta defilato convitato di pietra, di ombra irraggiungibile e sfocata. Offuscato da una nube sovraccarica di perfezione e bellezza, che probabilmente lo avrebbe affascinato, ma al quale aveva voltato le spalle.
Non apparteneva alla sua visione del mondo di poeta e intellettuale. A quel suo inconfondibile modo di dire e raccontare delle sue poesie, dei suoi romanzi e dei suoi film. Brusco a volte persino ruvido nella ricerca di verità senza sconti, anche la comicità maltrattata senza indulgenza, depurata dagli ammiccamenti con cui per strappar la risata a tutti si infarciscono le barzellette.
Insomma un approccio del tutto opposto da quello che sembra aver ispirato Ruediger Glatz, chiamato ad immortalare la performance del Mattatoio. Con uno sguardo che segue passo dopo passo il corpo a corpo tra Tilda Swinton e gli abiti con cui si camuffa, strappando incanto alle pieghe e alla resistenza dei veli e dei tessuti, moltiplicando con immagini sovrapposte quei suoi cambi d’identità, fissando i dettagli che connotano la presa di possesso dei personaggi richiamati in scena, oscillando tra astrazione e realismo come nella dedica al Totò di Uccellacci uccellini sintetizzata solo dal suo cappellino.
Prove di bravura che ci regalano una galleria in bianco e nero di innegabile fascino, ma finiscono per relegare sempre più ai bordi la presenza di Pasolini, di non inquadrarne più nemmeno i riflessi impressi nello specchio. D’accordo, riconosciamo le citazioni di Medea, della pallida maschera che Silvana Mangano sovrappone a Giocasta, moglie e madre dell’Edipo Re, le vesti, le giubbe, i cappucci che richiamano sul proscenio protagonisti e comparse del Decamerone e dei Racconti di Canterbury, ma è evidente che stiamo assistendo ad uno spettacolo molto diverso dall’originale, che su Pasolini dobbiamo accontentarci solo di un giudizio in contumacia.
È un’assenza così vistosa da aver spinto Glatz a completare il proprio intervento con un secondo capitolo, un campionario di altre foto allestite nella seconda sala che cercano di individuarne con una ricerca più mirata almeno le tracce di sé, del suo immaginario e dell’operare che il poeta friulano si è lasciato alle spalle. Un vagabondaggio nei luoghi che P.P.P ha attraversato e abitato, in ambienti che ha scelto e utilizzato nelle sue opere per il grande schermo, che però sembra sfuggire di mano al fotografo tedesco.
Troppo labili e di testa i riflessi che cerca di catturare, troppo ferme le inquadrature per cancellare i depistaggi del troppo tempo passato. Di maniera quello scorcio del litorale di Ostia, una distesa assolata di sabbia e uno sciabordio di piccole onde, dove la tragedia della sua vita è giunta al traguardo in una notte cupa d’autunno e in uno squallore di sterpi e di fango. Irrilevante l’esplorazione dei vicoli del Pigneto, dove si è consumata l’avventura di Accattone. Fredda e immobile la facciata della Chiesa di San Felice di Cantalice al Tuscolano che prestava come la stele di un confine invalicabile di classe le sue quinte squadrate alle passeggiate di Mamma Roma. Troppo distante e difesa da una foschia di troppo calcolato pudore la Torre di Chia per restituirci il senso di ultimo rifugio di provocazioni e di sfide incompiute che la biografia di Pasolini le aveva assegnato.
Il momento in cui Ruediger Glatz sembra avvicinarsi di più a quell’ombra cui da la caccia è a mio avviso consegnato ad un bianco e nero ingrandito che riproduce il dettaglio di un affresco medievale staccato dalla parete della cappella originaria e custodito ad Assisi. Evoca l’episodio cruento che segna la vita e la conversione di un santo minore, di origine franco belga: San Giuliano l’ospitaliere. Lui, un guerriero sempre in giro per governare il suo feudo, torna di sorpresa a casa, entra nella sua stanza, intravede due corpi vicini nel suo letto nuziale, e nella furia di marito che si immagina tradito, afferra il coltello e uccide. Solo dopo scopre di aver tolto la vita ai suoi genitori, che a sua insaputa erano venuti a trovarlo e ai quali per senso di ospitalità la moglie aveva ceduto per la notte la camera nuziale.
La beffa del destino del mito di Edipo Re saccheggiata e rimodellata dal cristianesimo sospeso sul baratro dell’Apocalisse dell’Alto medioevo come parabola di una redenzione esemplare che Giuliano conquista trasformandosi in un infaticabile soccorritore di infermi, appestati, lebbrosi. Questa sì una storia impregnata di fantasia popolare e di inconscio che a Pasolini sarebbe davvero piaciuta, i labili confini tra il bene e il male, l’omicidio e il martirio, la crudeltà e l’innocenza, osservati da vicino, senza reticenze e senza veli, come farà nel suo film su Salò.
Ma è uno spunto che in mostra resta praticamente isolato. Perché le altre immagini tornano ad annaspare attorno al vuoto come in una confessione di impotenza che ha un timbro inconfondibile d’autore ma non riesce a trovare affinità e risonanze che ci avvicinino a Pasolini e alle sue spaesanti profezie sul versante della raffinatezza estetica. Una resa che resta sigillata da due immagini esemplari. Due panoramiche della casa di Bologna dove il poeta è nato, ma non ha mai davvero abitato. Un appartamento in ristrutturazione, destinato a non si sa chi. Muri ancora scrostati, l’orbita di una porta che non è stata ancora montata.