In margine alla morte del grande regista
Ricordare Peter Brook
Shakespeare, spiritualità, vuoto: sono le tre parole chiave del teatro di Peter Brook. Ecco perché occorre ricordarlo: da lui e dalla sua lezione bisogna ripartire per dare ancora un senso al teatro
Peter Brook ha insegnato qualcosa al teatro anche con la sua morte. Questa circostanza è propria dei grandi la cui “improvvisa” assenza (è sempre improvvisa, la morte, anche se sopraggiunge a 97 anni) impone riflessioni, analisi, considerazioni necessarie; come a ricapitolare quale strada ci aspetta a partire da ciò che è stato. Quel che è stato Peter Brook si può riassumere in tre parole: Shakespeare, spiritualità, vuoto. Ora che non c’è più a indicare una strada con i suoi spettacoli (l’ultimo, Battlefield risale al 2015) è la memoria della sua arte a darci indicazioni per il futuro: occorre ripartire dalle parole, dallo spirituale del teatro e dal vuoto del suo spazio. La morte di Peter Brook questa rifrazione del pensiero critico ce la impone con la sua assenza, un po’ come fu, venticinque anni fa, per l’altro gigante del teatro del Novecento, Giorgio Strehler. Il quale, morendo alla vigilia del debutto del suo essenziale allestimento scenico di Così fan tutte nel suo nuovo teatro milanese, ci impose una riflessione sull’autosufficienza della creatività teatrale. Valutazione, diciamolo, che qui in Italia mancò quasi del tutto: al punto che oggi quasi più nessuno ricorda chi sia stato Strehler e quali emozioni ci abbia regalato. Facciamo che così non accada anche per Peter Brook.
E, dunque, torniamo a lui. La sua prima stagione, quella inglese, consumata quasi interamente nel segno di Shakespeare, ha rappresentato una sorta di marcia di avvicinamento al nucleo centrale del teatro: i suoi allestimenti (spesso con mostri sacri come Laurence Olivier, Vivien Leigh, John Gielgud sulla scena) traevano da Shakespeare la lezione dell’essenzialità del rapporto tra finzione e immaginazione. Fatta di scene ridotte a poco o nulla, costumi evocativi, grande attenzione alla parola e al ruolo del corpo dell’attore nello spazio. La parola, soprattutto, in questa prima fase del suo lavoro, era al centro dell’attenzione: Al Pacino, quando girò uno strepitoso film-documentario su Riccardo III di Shakespeare, andò anche da lui, da Peter Brook, a farsi rivelare il segreto della parola elisabettiana. E Peter Brook, con un sorriso maligno sussurrò che non possono essere gli americani a cogliere il suono del blank verse (ossia il pentametro giambico, sarebbe a dire la metrica con cui Shakespeare scriveva i suoi copioni)…
Consegnato alla regìa dall’inizio degli anni Cinquanta, Brook iniziò subito a percorrere una strada parallela a quella di Giorgio Strehler. Regìa critica è stata chiamata quella di Strehler e, soprattutto all’inizio, il lavoro critico sui testi di Shakespeare è stato profondo anche in Peter Brook. Ma anche la predilezione per l’immagine, per la gestione totale dello spazio scenico li accomunò fin da subito, come pure – dopo – li ha avvicinati una particolare visione spirituale del teatro, seppure dalle caratteristiche sostanzialmente diverse. Brook e Strehler hanno sempre vissuto il teatro come una specialissima religione fatta di regole, tabù e profonda ritualità.
La scoperta della nuova drammaturgia (Genet, Peter Weiss) segnò il punto di rottura. Dopo aver trionfato nelle grandi istituzioni inglesi (anche avendole travolte e ammodernate), Peter Brook chiuse le porte e si trasferì in Francia, a Parigi, a ricercare un modo nuovo di fare teatro. Il problema, visto oggi, è semplice: l’arte dell’attore a cavallo della metà del Novecento è stato quello di aggiungere una dimensione psicoanalitica, spesso quasi nevrotica, ai personaggi: il discrimine tra vecchio e nuovo teatro, allora, era lì. Pensate a Olivier e Gielgud, appunto, o a Gassman e Albertazzi in Italia, o a Jean-Louis Barrault e Laurent Terzieff in Francia: dagli anni Cinquanta/Sessanta in poi la loro modernità fu nella loro capacità di recitare la nevrosi dei grandi eroi del passato, da Edipo a Amleto. Mai come allora, la definizione di “pazzia” in scena è stata tanto ricca e inquietante. Merito anche di Peter Brook, che in quella follia e in quella nevrosi (mutuata, per quanto possibile, dalla lezione di Artaud) identificò il grumo della “modernità” di Shakespeare, per esempio (e d’altra parte accanto a lui correva la sua corsa Jan Kott con il suo memorabile saggio Shakespeare nostro contemporaneo).
Così, passando per una concezione alternativa e comunarda del teatro, Brook edificò la sua religione teatrale a Parigi, dove nel 1970 fondò il Centre International de Recherches Théâtrales. Una religione basata sul vuoto o, per dire meglio, sull’essenzialità.
Nel 1979 molti rimasero attoniti di fronte a La conférence des Oiseaux. Basato su un testo tratto da Jean-Claude Carrière dal poema persiano di Farid Uddin Attar, quello era uno spettacolo straordinariamente semplice: una serie di panche lungo il perimetro del palcoscenico, gli attori seduti a guardare il centro della scena dove, volta a volta, si avventuravano gli interpreti dei vari uccelli. La trama è apparentemente semplice: tutti gli uccelli del mondo si riuniscono per scegliere il loro re e, su consiglio dell’upupa, vanno in cerca del Simurgh, l’uccello mitico della tradizione persiana. Il viaggio alla scoperta del vero re è avventuroso e folle allo stesso tempo: si conclude quando i pochi sopravvissuti (dalla moltitudine che erano) trovano uno specchio che rivela come la maestà, ossia la forza, sia nell’unione. Il vero re è la collettività.
Ebbene, questo mitico e semplice percorso filosofico era compiuto, da Peter Brook regista, con qualche cencio, qualche piuma, qualche cappello e la straordinaria mimica degli attori i quali diventavano uccelli sulla scena grazie alla mobilità del loro corpo e delle loro voci. Da questo punto di vista, noi giovanissimi spettatori che all’università studiavamo le impalpabili tecniche di Mejerchol’d o le inutili ossessioni del teatro balinese, in un colpo solo capimmo tutto. Capimmo che cos’è il rito del teatro e la sua capacità di inventare un mondo soltanto basandosi sul rapporto fiduciario tra chi recita e chi assiste: capimmo la forza della finzione, e come essa sia del tutto autosufficiente. Questo è il teatro, ci diceva Peter Brook.
Una magia rinnovata con il successo straordinario e un po’ trendy di Mahabharata qualche anno dopo (1985): nove ore di epica indiana per raccontare come la guerra sia morte per chi vince non meno che per chi perde. La negazione della civiltà.
L’oriente di Peter Brook era un serbatoio di metafore essenziali: ciò che la cultura africana era stato per Picasso. Vale a dire il cuore delle regole primarie dell’uomo. O, con più precisione, la quintessenza dei suoi bisogni e la loro rappresentazione. Senza orpelli, senza nevrosi; in ultima analisi senza psicologia. Perché il punto di arrivo di Peter Brook è stato lo stesso di Samuel Beckett: per passare dalla metafora all’allegoria (ciò che rende libera la forza interpretativa del pubblico) occorre bandire la psicologia dei personaggi. Non a caso, prima di Battlefield di cui riparleremo tra poco, l’ultimo successo di Peter Brook è stato l’allestimento gioioso di Atto Senza Parole II di Beckett, appunto: un vero e proprio capolavoro comico a sottolineare quanto fosse stata sbagliata, in precedenza, la lettura drammatica, nichilista e antireligiosa dell’universo beckettiano. Ma questa è un’altra faccenda che ci poterebbe lontano.
Restiamo alla lezione di Peter Brook. Trent’anni dopo Mahabharata, egli è tornato a lavorare sul grande poema epico indiano. A fronte del kolossal che aveva debuttato al Festival di Avignone del 1985, i 70 minuti di spettacolo del 2015 non erano un sunto, ma quasi l’essenza del progetto iniziale. Come s’è detto, il tema narrato dal poema è una lunga, sanguinosa guerra fratricida al termine della quale anche i vincitori sono sconfitti perché non c’è vittoria che possa convivere con un immaginario tanto a lungo macchiato di sangue. La rappresentazione del 2015 non aveva il tono maestoso di quella di trent’anni prima, ma era fatta quasi in forma di racconto: quattro attori, con l’ausilio di un musicista, interpretavano tutti i ruoli servendosi solo di alcune bacchette di legno, di pochi cubi sempre di legno e di sciarpe colorate per assumere l’identità dei numerosi, differenti personaggi. Il fascino di quell’allestimento era tutto qui, nell’essenzialità della metafora che lasciava volteggiare nello spazio (così reso sterminato: il vasto universo della fantasia e del mito) oggetti minuti i quali, grazie alle parole degli interpreti e all’immaginazione degli spettatori, diventavano armi, corazze, fortezze. Insomma, stiamo parlando precisamente di un uso allusivo del vuoto; lo stesso che ha sempre caratterizzato il teatro di Peter Brook. Salvo che, con ogni probabilità, si tratta di una lezione che egli ha tratto dalla sua profonda conoscenza del teatro shakespeariano e di quell’invocazione posta a suggello dell’Enrico V: «Supplite con la vostra immaginazione alle nostre imperfezioni». Il trucco è sempre lo stesso: si tratta di ammetterlo. O ricordarlo, come occorre oggi ricordare Peter Brook.