Leopoldo Carlesimo
Una storia di solitudini

La regina del giardino delle erbacce

«Entrò in classe e fece lezione come sempre. E constatò che Debbora, come negli ultimi giorni, la fissava. Sempre più intensamente. Elsa ebbe la sensazione che un altro passo nella rivelazione del suo segreto fosse imminente»...

“Sono la Regina del Giardino delle Erbacce,” disse Debbora alla prof d’inglese, abbassando la guardia e abbandonandosi a uno slancio emotivo in cui rinunciava, seppur per un attimo, al turpiloquio che normalmente infestava la sua bocca di quindicenne.

La prof non capì cosa intendeva. Ne ebbe una vaga idea solo molto dopo, quando capirlo, se ancora possibile, sarebbe comunque stato inutile. Ma a quel punto ormai non lo era più, nessuno avrebbe potuto. Non si poteva più capire quella cosa perduta, buttata via per sempre.

Quando, circa un mese prima, Debbora le confidò la frase, quel che Elsa capì fu solo che stava finalmente, miracolosamente, offrendo un suo lato tenero. Che socchiudeva uno spiraglio, che forse si poteva entrare da lì. E che lei non avrebbe dovuto spingere, ma solo attendere, attestare la sua presenza. Confermare così, con quel ‘io sono qui, fa’ pure con calma…’, l’aiuto che da mesi lei e l’altra mezza dozzina d’insegnanti coi quali condivideva le tribolazioni di quella difficile terza media tentavano di offrire a una ragazzina che definire ‘oppositiva e ribelle’ era a dir poco eufemistico e riduttivo.

Ma di ragazzini simili, che quel donnone un po’ troppo materno e un po’ troppo perbene della preside s’ostinava a definire ‘oppositivi e ribelli’, nella sua scuola ce n’erano parecchi. E fino a non molto tempo prima nessun membro del corpo docente aveva avuto motivo di pensare che Debbora fosse il caso più grave. Certo, aveva una situazione familiare molto difficile, ma questo era comune a parecchi altri ragazzi. In quella scuola. In quel quartiere.

Sì, è vero, Debbora, tra i ripetenti più grandicelli, era una di quelli che tenevano verso i professori un atteggiamento apertamente ostile, contrario a ogni forma di rispetto e di disciplina; e certo, sì, usava un linguaggio deliberatamente ed esageratamente scurrile, che su una bocca di quell’età… avrebbe fatto un effetto semplicemente grottesco e osceno, se non vi fosse stato qualcosa di oscuro, sotto, a renderlo allarmante. Ma, ciò nonostante, Debbora non era una delle più ‘oppositive e ribelli’ della scuola. Nella graduatoria che la preside stilava e periodicamente aggiornava nella sua mente ordinata, figuravano casi peggiori. E in questo giudizio Elsa e gran parte degli insegnanti erano d’accordo con lei. Almeno fino all’episodio.

Fino ad allora, in fondo, il lato oscuro di Debbora consisteva semplicemente nello starsene nel suo cantuccio, perlopiù muta. Rifiutava di partecipare alle lezioni e se forzata o anche solo interpellata, rispondeva con quel profluvio d’insulti in cui era fin troppo facile riconoscere un’eruzione della rabbia che covava verso un ordine cui non sentiva di appartenere. Ma, a lasciarla stare, a volte era lei stessa a fare il primo passo, e allora in genere, per brevi intervalli, diventava dolce e infantile come una bambina, sembrava persino molto più piccola della sua età.

Del resto di pluri-ripetenti ‘oppositivi e ribelli’ come lei, maschi e femmine, quella scuola ne contava parecchi, e molti di loro tenevano un atteggiamento ben più aggressivo e provocatorio di Debbora: disturbavano, interrompevano di continuo le lezioni, passavano di classe in classe a sobillare gli altri, sparivano per giorni interi quando pareva a loro. Alunni di seconda o di terza che avevano già quattordici, quindici anni e che, se volevano andarsene di scuola… a parte avvertire le famiglie – ammesso che qualche membro di quelle famiglie rispondesse all’appello – che altro si poteva fare? Fermarli fisicamente, no. A nessun insegnante era permesso mettere le mani addosso ai ragazzi. E se l’oppositivo-ribelle prendeva la porta e se n’andava, come impedirglielo? Una volta uno degli insegnanti maschi provò a mettersi di mezzo, ostruendo la porta. Quello prese la rincorsa e l’incornò a testa bassa come un toro.

Scuola difficile. Ragazzini difficili. Di oppositivi-ribelli, piccoli caporioni che trascinavano il resto della scolaresca, in quell’istituto ce n’erano diversi. Fino ad arrivare al caso limite di quel Bruno, detto Mazinga, un quindicenne alto e grosso, un teppista dalla strada segnata, che in varie occasioni era arrivato a minacciare materialmente gli insegnanti che osavano rimproverarlo: “Te vengo a prenne a casa, prof, lo so ‘ndo stai. Vengo a cerca’ te, personalmente…”

Perciò Debbora, chiusa nel suo mutismo, involtolata nel suo turpiloquio, non pareva proprio il caso più grave. Ce n’erano almeno una mezza dozzina, di alunni più difficili di lei. In genere si assentavano, uscivano di classe o di scuola sempre più spesso e alla fine semplicemente sparivano, non si vedevano più…  

* * *

Era al secondo anno in quella scuola. Istituto P. del quartiere Q., la sua prima cattedra. Fino ad allora Elsa aveva fatto un altro mestiere. Dopo una laurea in lingue era entrata in un’azienda commerciale. Neanche se lo ricordava più, quel concorso cui aveva partecipato così per prova, un tentativo tra i tanti appena uscita dall’università. E invece, dopo quasi vent’anni, ecco che le arrivava la nomina del Provveditorato. Era entrata in graduatoria, la chiamavano.

La decisione, in verità, la prese subito. Ma volle fingere con se stessa di riflettere, valutare, soppesare pro e contro, per tutto il tempo che la lettera del ministero le concesse prima della risposta definitiva. Sicché per quasi un mese meditò, almanaccò, allestì nel proprio teatro interiore quella pantomima di ragionevolezza che una scelta del genere – cambiar lavoro a quarant’anni, dopo quindici spesi in un’azienda in cui non si trovava affatto male – richiede a una madre single con un figlio a carico e la testa sulle spalle. Perciò valutò. Rifletté. Soppesò. E alla fine concluse quel che aveva già deciso fin dal primo istante. Cioè che voleva un cambiamento nella sua vita.

Perché volesse quel cambiamento, non è oggetto di questo racconto. Probabilmente tutto quel valutare e soppesare nascondeva questo, c’era un poisson noyé, un pesce nascosto da provare a stanare. Ma cercar di stanare cose simili richiede in genere una vita intera, non basta il mese concesso dal ministero, e ad essere onesti raramente la pesca è buona. Per cui, dopo un po’ di ponderazioni, anche nel caso di Elsa i pensieri s’arenarono sulle secche di considerazioni pratiche: il nuovo lavoro mi lascerà più tempo libero? ciò che farò sarà più interessante? e lo stipendio, a conti fatti, sarà più o meno alto?

In definitiva, le ragioni per cui lo fece – tutto quel riflettere, valutare, soppesare – si rivelarono in parte sbagliate: l’incarico non era meno, ma più faticoso; non le lasciava più, ma meno tempo libero. Ma in parte corrette: lo stipendio era effettivamente più basso, come aveva calcolato. Però… c’era un però. Su una cosa non s’era sbagliata. Avere a che fare con dei ragazzi, insegnare inglese a scuola – sia pur una media, anziché il liceo cui sarebbe stata abilitata per titoli e concorso – era più vivo che occuparsi di traduzioni di testi commerciali. E questo bastò a non farla pentire della sua scelta.

* * *

L’Istituto P., dove prese servizio, sorgeva in cima a un dosso che dominava il quadrante nord-ovest del quartiere, una collinetta delimitata su due lati dalle vie a scorrimento veloce che tagliano quel tratto di periferia romana, e sul terzo lato da una spianata occupata da ex-capannoni industriali in abbandono, uno smorzo edile, uno sfascio e qualche baracca. Era composto di quattro bassi fabbricati di un color rosa stinto, racchiusi da un muro di cinta grigio, disposti attorno a un piazzale lastricato cui s’accedeva per uno stradello in salita. Sul retro, la scuola confinava con l’estremità orientale del perimetro di un vecchio Forte, da tempo occupato da un centro sociale. Nel tratto di strada che costeggiava il Forte, la recinzione consisteva in uno sciatto assemblaggio di lamiera ondulata, rete metallica e tavolacci, in cui s’aprivano qua e là ampi squarci. Le finestre erano grandi e prive di tende. Le aule vaste, spoglie, freddamente illuminate dai neon, malamente equipaggiate di arredi sbilenchi e materiale didattico in disfacimento.

Questa – la collocazione urbana, l’obsolescenza delle strutture – era la parte meno problematica. La sfida tosta erano gli allievi. La scuola media P. era un crogiuolo, un melting pot borgataro in cui confluivano i figli in età scolare degli ultimi immigrati giunti a dozzine dalle rotte africane e balcaniche, smistati lì dal vicino centro di prima accoglienza di Via S.. Ragazzini che a stento parlavano qualche parola d’italiano, e che a scuola si mescolavano coi pischelli del quartiere, uno tra quelli a più alta densità di piccola delinquenza, disoccupazione e spaccio della periferia romana. A Elsa questa situazione, per quanto strano, piacque subito.

C’era, certo, il problema degli immigrati. Elsa se ne rese conto quando la preside, come primo incarico, le assegnò il compito d’imbastire un veloce corso d’italiano che desse una sommaria infarinata della nostra lingua a una ventina di ragazzini – africani, siriani, afghani, caucasici – appena arrivati nel nostro Paese, che dovevano essere inseriti, per blocchi d’età, nelle classi esistenti. Undicenni fino a quattordicenni, che in un paio di settimane bisognava mettere in condizioni di seguire alla meno peggio le lezioni. Quell’amalgama eterogeneo era la sua prima classe. Solo pochi di loro parlavano qualche parola d’inglese, il resto era una variegata babele di lingue e dialetti diversi. Per non parlare di razze, paesi, costumi, culture… Cosa mettere a fattor comune, in quella palude di sabbie mobili, dove cercare un fondo solido su cui poggiare i piedi per muovere i primi passi? Elsa pensò a internet, cominciò da lì. Con Google Earth, spiegandosi a gesti, provò a far cercare a ciascuno di loro il suo paese, la sua città, la sua casa. E innescando le emozioni, si innescava il dialogo.

Ma si rese ben presto conto che gli immigrati erano un falso problema. Quello vero erano i residenti, i figli del quartiere. Quell’enclave era una sorta d’isola, l’ultima borgata fondata nel Ventennio alle porte di Roma. Poi la città le era convulsamente cresciuta intorno, avvolgendola; ma non metabolizzandola. Q. restava un territorio a parte, una specie di riserva indiana circondata da una frontiera impalpabile, varcata la quale si penetrava all’interno d’un comprensorio di vie tagliate a scacchiera, a pianta romana, costeggiate di caseggiati squadrati e bassi, due o tre piani, connessi tra loro da giardinetti e cortili sui quali regnava un’atmosfera assopita e guardinga. Quasi nessun negozio, poca gente in giro. Un’identità percepibile, comune, diffusa, ostile ai forestieri. La sensazione di sguardi che ti seguono. Angoli perlopiù solitari, non di violenta, degradata bruttezza; persino ingannevolmente accoglienti, entro quelle corti semichiuse dove accanto a una panchina sgangherata si stende un lacero tappeto d’erba, attecchisce una siepe d’edera e s’ammucchiano siringhe. Parecchie case sono occupate. La maggior parte dei nuclei familiari residenti non ha nemmeno un membro che svolga un lavoro regolare.

* * *

Quando Debbora le fece quella confessione, a Elsa in realtà parve di capire diverse cose sul conto di quella ragazzina oppositiva e ribelle. “Io sono la regina del giardino delle erbacce” era un segreto, le stava confidando il suo segreto. Per il modo in cui lo disse, Elsa intuì che quella ragazzina le stava offrendo qualcosa di grande valore per lei. Cosa fosse quel qualcosa, cosa volesse dire quella formula… a questo avrebbe dovuto lavorarci. Quel titolo onorifico, che si attribuiva, d’esser regina… Le parve che il grande dolore, la grande sofferenza che quella pischella custodiva gelosamente dentro di sé come un tesoro, in quel momento, per chissà quale imperscrutabile combinazione di circostanze, glieli stava offrendo. Li stava offrendo a lei, a Elsa. Le stava porgendo una chiave per penetrare nel suo caveau, nella grotta dove quel tesoro era custodito. Ciò avvenne dopo l’episodio di Mazinga, quando Elsa, contro il parere della preside, si decise a convocare i genitori di Debbora.

* * *

Sull’episodio di Mazinga, il magistrato decise di non aprire un fascicolo, anche se quel fatto portò per l’ennesima volta polizia e carabinieri dentro la scuola. “Vabbe’, una più, una meno…”, sentenziò Ernestina, dalla sua seggiola sotto la campanella. La fatalista, burbera bidella che in fondo voleva un gran bene ai suoi ragazzi, a tutti quanti senza distinzione, e per premio di quando in quando finiva rinchiusa nello stanzino delle scope.

Che Mazinga avesse messo gli occhi su Debbora, da un po’ se n’erano accorti in parecchi. Mazinga, il bullo della scuola. Quello a cui non si può dire di no. Un quindicenne aggressivo con tutti, compagni e professori, compresi quelli che minacciò d’andare a prendere a casa. Per fortuna era sempre assente, non ci stava quasi mai, in classe, a infliggere agli altri le sue prepotenze. Il suo posto era la strada, si rifugiava lì. E di questo insegnanti e compagni gli erano tacitamente grati. Prima o poi sarebbe sparito per sempre e non sarebbe stato rimpianto.

Però nelle ultime settimane, da quando aveva messo gli occhi su Debbora, Mazinga a scuola ci veniva più spesso. E la guardava. E le girava intorno.

Successe proprio dentro la scuola. Debbora andò al bagno e non s’accorse d’esser seguita. Quando si ritrovò le mani di Mazinga addosso, nel cesso delle ragazze, aveva già la gonna alzata e le mutandine calate giù. E quelle mani addosso, che cercavano di strapparle il resto.

Nessuno capì come fece a sorprenderlo, perché Mazinga era grosso davvero. Era molto più grosso e forte di lei. Ma quando, pochi secondi dopo – tanto ci misero insegnanti e compagni, richiamati dal trambusto, ad accorrere al bagno – quando glielo tolsero dalle mani, Mazinga era una maschera di sangue. Debbora gli aveva chiuso la faccia tra il battente e lo stipite e continuava a sbattere a sbattere… con una rabbia, con una ferocia tali che negli occhi atterriti di Mazinga i ragazzi che per primi s’affacciarono al cesso lessero annichilimento, prima ancora che terrore… e quasi quasi gli fece pietà. La vergognosa fine del bullo della scuola. Bruno-Mazinga non ci mise più piede, all’Istituto P.. Quando guarì dalle ferite e fratture multiple che quella pischella gli aveva inferto, sparì del tutto, non lo si vide più neppure in giro per il quartiere.

Ma restava la furia della ragazzina, a cui dare un nome. “Perché? Da dove nasce tanta ferocia?” Si chiese Elsa. E, come lei, se lo chiesero in molti. Glielo dovettero strappare dalle mani, l’avrebbe massacrato, altrimenti.

Dopo quell’episodio, Debbora tornò tranquilla e assente, chiusa nel turpiloquio che sobbolliva in lei. Affiorava alla superficie solo quando un insegnante la interpellava, quando qualcuno provava a costringerla a partecipare alle lezioni. Fatte salve le rare occasioni in cui, come prima, era lei stessa ad avvicinarsi a professori o compagni. Se qualcosa destava il suo interesse, così difficile da stimolare, se qualcuno improvvisamente la incuriosiva. Allora un misterioso incantesimo scendeva su di lei e la trasformava, dalla furia che aveva massacrato il bullo, in una bimba che per linguaggio e reazioni emotive avrebbe forse trovato il suo posto in qualche classe non troppo avanzata delle elementari, piuttosto che in terza media. E per un po’ era dolce, nervosa, emotivamente instabile come una bimba piccola.

E allora Elsa, contro il consiglio della preside, decise di convocare a scuola la famiglia. Per capirne di più. Per conoscere cos’aveva attorno in casa, quella ragazzina, sperando che ciò l’aiutasse a comprendere cos’aveva dentro.

* * *

Si presentò solo il padre. Quando lo vide, Elsa prese paura. Un omone in canotta e bermuda, tutto tatuato, con una vistosa cicatrice che gli attraversava di sbieco la fronte molto stempiata, le labbra contratte in dentro perché gli mancavano gli incisivi superiori, il fiato che puzzava d’alcol alle dieci del mattino. Ma si fece coraggio e cominciò, con cautela, a parlargli della figlia…

Che il padre di Debbora fosse un pregiudicato che entrava e usciva tutti gli anni di galera, a scuola era un fatto noto; che la madre fosse tossicodipendente, altrettanto. Quel che Elsa apprese nel colloquio, e che spiegava la presenza di quell’uomo lì, era che la moglie, la madre di Debbora, l’aveva piantato un paio di settimane prima. Era andata via di casa, sparita, non si sapeva dove. E non era la prima volta. Dopo qualche tempo probabilmente sarebbe riapparsa, come altre volte. Da quel che l’uomo le lasciò intendere, forse era andata a prostituirsi lontano dal quartiere, a fare i soldi che le servivano per la roba.

Queste cose, l’omaccione mogio che aveva davanti gliele disse con la voce che si rompeva e le mani che tremavano, le parole che procedevano quasi sole, incespicando in una sorda cantilena mormorata con gli occhi bassi… Ed Elsa capì perché la preside le aveva sconsigliato di convocare i genitori. Quei due non servivano a circoscrivere il problema; se mai, ad allargarlo. Non erano d’aiuto. Non avevano strumenti per aiutare neanche se stessi.

* * *

Tuttavia a dispetto della preside – si disse Elsa – quell’incontro non fu inutile. Dopo, l’atteggiamento di Debbora nei suoi confronti cambiò. Elsa se ne rese conto chiaramente. S’accorse d’incuriosirla, di interessarla. Era forse diventata, per qualche segreto meccanismo di compensazione connesso al fatto d’aver convocato il padre, uno degli elementi che di quando in quando facevano scattare, in quella ragazzina, la molla che la trasformava. E la mutava in una bambina dolce, emotiva, fragilissima, molto più piccola della sua età. Lei, Elsa, era diventata quel fattore. Quando faceva lezione, Debbora assumeva un atteggiamento diverso, erano più frequenti e più prolungati gli intervalli in cui sembrava seguirla. Non con la mente, ma coi sensi. Seguiva il moto del suo corpo, il suono delle sue parole, i suoi gesti. Il turpiloquio affiorava meno.

Quando si rese conto che, durante le ore d’inglese, quella ragazzina non le levava gli occhi di dosso, Elsa si decise a tentare il colpo. E un giorno fece in modo, dopo una lezione, di trovarsi da sola a tu per tu con lei. ‘Si potrebbe quasi dire,’ pensò Elsa ‘che anch’io le tenda un’imboscata, come Mazinga.’

Accadde in una classe momentaneamente libera che serviva da deposito di materiale didattico dismesso, tra banchi accatastati, cattedre in disuso e lavagne rotte spinte contro e pareti. Fu lì che Elsa fece in modo di attirarla, fingendo di dover cercare qualcosa. E fu lì che, tra poche altre parole d’occasione, banali osservazioni su argomenti neutri, di routine, sulla scuola, l’ultima lezione, i compagni, Debbora all’impovviso la interruppe buttando lì quella confessione: “Io sono la regina del giardino delle erbacce,” disse. Lo disse così, di botto, e scappò via spaventata.

A lezione, il giorno dopo, la ragazzina continuò a fissarla. Ed Elsa si ripromise di ritentare il colpo.

* * *

Una di quelle mattine, arrivando presto a scuola, Elsa vide Debbora emergere da un buco nella recinzione che, dietro la scuola, delimitava il perimetro del Forte. Debbora non s’avvide di lei, ed Elsa notò che la ragazzina aveva un’aria furtiva e un po’ smarrita, come nascondesse qualcosa. Ma, visto che non l’aveva notata, decise di non mostrarsi, di non impaurirla cogliendola sul fatto. Se aveva un segreto, se era quello il suo segreto, non doveva carpirglielo; era necessario che glielo offrisse lei.

Entrò in classe e fece lezione come sempre. E constatò che Debbora, come negli ultimi giorni, la fissava. Sempre più intensamente. Elsa ebbe la sensazione che un altro passo nella rivelazione del suo segreto fosse imminente.

* * *

Ci mise quasi due settimane – in cui tutti i giorni, come se avessero un appuntamento, alla fine della lezione lei e Debbora s’incontravano in quell’aula dismessa, quasi di nascosto, per durate via via crescenti, che da qualche minuto s’allungarono a un quarto d’ora, a mezz’ora, a tre quarti… – per ottenere da quella ragazzina le prime reazioni ordinate, per conquistarsi la sua fiducia, per avviare una specie di dialogo, semplicemente incentrato su argomenti didattici: le sue lacune d’inglese, il ritardo che aveva nei confronti dei compagni… E allora Elsa pensò che, perché quegli incontri acquistassero un senso, per progredire oltre, bisognava introdurre un metodo, fissare un ordine… E che cosa poteva fornirle un metodo – a lei, che non era certo una psicologa – se non la sola cosa che era deputata a fare: insegnare una lingua?

Ne parlò con la preside. E con sua sorpresa quel donnone materno e ottuso stavolta capì. Accettò che tutti i giorni Elsa dedicasse un’ora di ‘corso di sostegno’ – un’ora chiaramente non retribuita – a quella ragazzina particolarmente difficile, così in ritardo sul programma, esclusivamente a lei… La preside coprì quella partigianeria nei confronti un’alunna quanto mai oppositiva e ribelle.

Cominciarono le lezioni di sostegno. La grammatica inglese – la semplice grammatica della lingua inglese declinata da un vecchio manuale illustrato tutto scompaginato, che Elsa recuperò dalla libreria di casa, sugli scaffali alti dei suoi libri di testo di ex-alunna ai primi anni – tracciò la strada, fece assieme da veicolo e da bussola.

The dog is under the table’ era scritto nel libro; e nell’illustrazione un cane dall’aria paciosa era accovacciato sotto la tavola. ‘Mr. And Mrs. Brown have their breakfast in the dining room’ seduti a tavola, due signori sorridenti avevano ‘bread and butter and two cups of tea’ davanti. I disegni aiutavano. Parole stampate in grande e immagini infantili. E una grammatica elementare, che per diverse settimane consentì a Elsa d’introdurre un ordine, una grammatica interiore in quella disordinata quindicenne tanto più piccola della sua età, emozionalmente analfabeta, che proprio di una grammatica d’impulsi e sentimenti – a parere di Elsa – aveva bisogno.

E magari aveva anche ragione, se avesse avuto più tempo forse ci sarebbe riuscita.

Non l’ebbe. Accadde qualcosa, a marzo. La catastrofe che non aveva previsto. Quel giorno Debbora non venne a scuola. E nemmeno il giorno successivo, né nei giorni che seguirono. Elsa si chiedeva cosa fosse successo, e stava già per convocare il padre a scuola, quando in classe giunse la notizia. Attraverso i compagni. E presto dilagò per l’intero Istituto.

La madre di Debbora era stata ritrovata. In un altro quartiere. Morta per overdose.

Di Debbora non si sapeva più nulla. Nessuno, neppure il padre, aveva idea di dove fosse. A casa, dopo la notizia, la ragazzina non era più tornata.

* * *

Le ci vollero due giorni, prima di avere l’illuminazione. Che piovve all’improvviso, così, mentre arrivava a scuola, molto presto al mattino, in grande anticipo rispetto alla campanella d’inizio delle lezioni. La luce era ancora livida e faceva freddo. I lampioni erano accesi. Un primo mattino invernale, brumoso, col fiato che si condensava in nuvolette biancastre davanti alle labbra esangui e gelate. Era nello stesso punto in cui aveva visto Debbora uscire da quel buco nella recinzione. Lo rivide. Rivide lo squarcio nella rete rugginosa che circondava il Forte, gli sterpi aggrovigliati, i tavolacci, i fogli di lamiera. E rivide Debbora, come in flashback, proprio come allora: Debbora che usciva di lì con quell’aria furtiva.

Allora s’avvicinò a quel buco, scostò i rovi e, con cautela, entrò. Le bastò fare pochi passi. Appena oltre la prima fila di cespugli c’era una radura. Un antro vegetale chiuso da alberi stenti, siepi spinose e ortiche. Tappezzato di chiazze d’erba, che spuntavano tenacemente tra cartacce, lattine e sacchi d’immondizia. Eccolo, il giardino delle erbacce. C’era dentro. L’angolo di mondo su cui Debbora regnava. E sotto un pino rinsecchito, addossato al tronco annerito dai fuochi dei bivacchi, giaceva il corpo di quella ragazzina ancora con l’ago in vena.

* * *

Piangevano tutti, all’Istituto P., quando vennero polizia e carabinieri. Questa volta Ernestina non ce la fece a commentare cinicamente: “Vabbe’, una più una meno…”. Piangeva anche lei, accartocciata come un fagotto sulla sedia sotto la campanella.

Vi furono indagini, ispezioni, domande. Stavolta il magistrato l’aprì, il fascicolo. E tutto fu ricostruito, compreso, risolto. Quel che si poteva capire, fu capito. Cioè solo i nudi fatti accessibili all’indagine di un magistrato. Quanto al resto… restò un corpo opaco, impenetrabile. E restò addosso soprattutto a lei, a Elsa.         

In effetti, quando tutto fu concluso, quel che le restò, la cosa più profonda che poté conservare, fu un’idea confusa, che le parve d’intuire… E cioè che Debbora, con quella frase, non offriva nessuna entrata. Socchiudeva uno spiraglio. Ma non per altri. Quella strettoia, quel minuscolo pertugio, poteva servire solo a sé. Un sottile, egoistico, salvifico spiraglio dal quale il genio che la rodeva sarebbe forse potuto uscire. E intuì che il loro compito – il proprio e di tutti gli altri inadeguati adulti che la circondavano – era non di accostarsi e provare a entrare, ma di far spazio al demone, e lasciarlo uscire. Non cercar di capire, carpirle qualcosa. Non le era richiesto nulla di così presuntuoso e assurdo. Il suo modesto, essenziale tributo avrebbe potuto essere semplicemente offrirle una possibilità. E ce l’aveva quasi fatta. E forse questo l’avrebbe salvata.

Lo comprese con rimpianto, perché le parve di esserci quasi riuscita.

* * *

L’anno successivo Elsa fu trasferita in un’altra scuola. Liceo linguistico M., quartiere Trieste. Una promozione. Innanzi tutto era un liceo, non una media. E poi la nuova scuola era organizzata molto meglio. Il materiale didattico era in buono stato, le strutture e gli arredi non cadevano a pezzi. Nelle classi, gli alunni erano disciplinati, rispettosi. Lì poté finalmente far lezione. Spiegava letteratura inglese, leggeva brani di scrittori che aveva amato, portava i ragazzi a teatro a vedere Shakespeare e d’estate organizzava viaggi studio in Inghilterra. La didattica funzionava, impegnava, dava soddisfazione. Dov’era prima semplicemente non esisteva. Ma un segreto come quello della regina del giardino delle erbacce, nessuno più glielo poté rivelare.


Le fotografie sono di Roberto Cavallini

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