Periscopio (globale)
I giochi di Max Aub
A cinquant'anni dalla morte, omaggio a Max Aub, scrittore "europeo" per eccellenza, che seppe vivere la vita e la letteratura come un gioco. Anche quando era un gioco drammatico, come quello imposto dal franchismo o dal nazismo
Il Novecento è stato (anche) secolo di fughe, di esili e di eroiche ripartenze. Non fa eccezione la parabola di Max Aub, scrittore spagnolo per elezione, ma anche universale e per eccellenza europeo, di cui il 23 luglio ricorrerà il cinquantenario della morte. Padre bavarese, madre francese di origine ebraica e cognome germanico (Mohrenwitz), Aub sembra destinato fin dall’inizio all’apertura mentale e a un fervido cosmopolitismo. Nasce a Parigi nel 1903, e a 11 anni è già costretto a lasciare la Francia a seguito dei sentimenti antitedeschi e al contempo antiebraici che si andavano diffondendo fra la popolazione allo scoppio della Grande guerra. Riparata in Spagna, la famiglia si stabilisce a Valencia, dove Aub si laureerà a ventiquattro anni in letteratura europea (oggi diremmo: letterature comparate), dimostrando una notevole facilità nell’apprendimento delle lingue, e dove più tardi comincerà la carriera letteraria.
Fra l’altro, dirige – come molti poeti e scrittori contemporanei: si pensi solo alla Barraca di García Lorca – un teatro universitario, El búho, scrive su vari giornali e riviste culturali, fra cui la Revista de Occidente diretta da Ortega y Gasset, e si schiera chiaramente a sinistra con l’adesione convinta al PSOE. Come affermerà a più riprese, malgrado le sue origini miste Aub si sente pienamente spagnolo (“si fa parte del paese in cui si è fatta la maturità”, taglia corto) e scrive unicamente in castigliano, sebbene (nella seconda parte della sua vita) con qualche influenza lessicale messicana. Costretto dall’avvento del franchismo a riparare in Francia, dove per la Repubblica aveva già ricoperto fra il 1936 e il 1937 l’incarico di addetto culturale all’Ambasciata, nel 1939 verrà arrestato con la falsa accusa di essere un militante comunista e deportato in vari campi di prigionia, prima in Francia – qui conosce fra l’altro il campo di Vernet, dove sarebbe transitato anche Arthur Koestler – poi in Algeria. Da qui riesce a scappare nel 1942, grazie anche all’aiuto di John Dos Passos, che redige un affidavit per l’emigrazione statunitense, e a riparare finalmente in Messico, dove resterà da emigrato e in esilio per trent’anni, riuscendo a tornare in Spagna una sola volta. Esperienza amara e profondamente deludente: la Spagna che si aspettava di ritrovare non esisteva più, aveva lasciato il posto a una società rassegnata alla dittatura franchista, opportunista e apatica, e quanto alle sue opere, ormai esaurite e mai ripubblicate, risultavano praticamente introvabili e ignote ai più. Aub analizzerà le sue controverse emozioni, da scrittore sradicato e privato dei suoi lettori, nel volume La gallina ciega. Diario español, del 1971 (A mosca cieca. Diario spagnolo, Theoria, 2018).
Questo, in rapida sintesi, il decorso esistenziale, che con le sue esperienze è ovviamente sotteso alla produzione letteraria, ricchissima e varia. Convenzionalmente in questa si distinguono due ambiti, che sono tuttavia interconnessi e in fondo difficilmente separabili: da un lato, la testimonianza, il riversamento nell’opera dell’Erlebnis fondamentale, quello connesso con la guerra civile, con la prigionia e con l’esilio; dall’altro, l’aspetto ludico e iconoclasta di molte altre sue opere. Entrambi ambiti in cui, come vedremo, Aub riuscirà a eccellere.
Del primo blocco di testi fa parte anzitutto il ciclo dedicato alla guerra civile spagnola, El laberinto mágico, articolato in sei romanzi in cui minuscoli paesini della Spagna rurale, cittadine di provincia e metropoli sono teatro di una vicenda complessa e collettiva. Convinto com’è della centralità dell’esperienza civile e politica per la sua generazione, Aub si erge a testimone di un’intera epoca e dell’intera società spagnola, che analizza con grande cura e precisione. Sfruttando un ricchissimo e variegato materiale narrativo, crea così un vero e proprio affresco, di dimensioni ineguagliate dagli scrittori a lui contemporanei. Il primo libro del ciclo, Campo cerrado (da noi pubblicato nel 1996 da Editori Riuniti con il titolo Barcellona brucia), Aub comincia a scriverlo nel 1939 a Parigi, appena tornato in Francia al seguito della troupe del film Sierra de Teruel, cui stava lavorando assieme ad André Malraux. L’ultimo e il più bello, Campo de los almendros, lo scrive e pubblica in Messico nel 1968. Bastano queste due date a dare un’idea della costanza e delle dimensioni di un impegno civile, sociale e politico che non è mai venuto meno. Semmai, è stato anzi periodicamente rinfocolato dai vari riconoscimenti internazionali che la Spagna franchista avrebbe ottenuto nel dopoguerra – grazie anche alla guerra fredda, che sposta l’attenzione dalle derive autoritarie e violente del regime di Franco – da parte di potenze formalmente democratiche come gli Stati Uniti e i paesi europei. Non è certo un caso che nel 1947 la Spagna venga inclusa, in funzione antisovietica, nel piano Marshall.
A questo possente affresco romanzesco si affianca una grande quantità di racconti, un’antologia dei quali è stata riproposta nel volume edito da Nutrimenti nel 2017 con il titolo Gennaio senza nome e un’attenta introduzione del curatore Eugenio Maggi. Al centro di tutto è la sofferenza di un popolo, della sua parte migliore, costretto alla fuga, alla diaspora, allo sradicamento; sofferenza che colpisce indistintamente tutte le età, tutte le professioni, tutti i ceti sociali. La sconfitta della civiltà, dei termini minimi della convivenza civile, diventa così simbolo di un’Europa perduta dietro i suoi totalitarismi, prima, e dietro vacue, inconsistenti democrazie poi, che di democratico hanno forse la forma ma non certo la sostanza.
Più che degne di attenzione anche le opere teatrali di Aub, come San Juan (1943), in cui affronta da agnostico il tema dell’antisemitismo e dell’eliminazione culturale e fisica degli ebrei in Europa, nonché le pagine diaristiche.
Il secondo blocco di testi, quello per così dire ludico, è in realtà percorso dalla stessa serietà e dallo stesso impegno ed è forse da leggersi quale reazione a quanto Aub denunciava in un famoso prologo: “Non andiamo verso nessuna direzione; il nostro grande ideale, adesso, è la mediocrità, è la coercizione dei propri impulsi. (…) Mai fummo tanto rasenti alla terra: essa ci inghiottirà senza lasciare alcuna traccia di noi.” Il prologo è quello ai Crímenes ejemplares (ho citato qui dall’edizione italiana di Sellerio, Delitti esemplari, 1981) e si chiude con questa frase significativa: “Ci resta soltanto il gioco, che dipende dal caso. C’è chi, felice, non si stanca mai di giocare. Io sì.” Ma prima di stancarsi definitivamente di giocare, Aub ci ha regalato una serie di testi ispirati a un’altra sua massima aurea: “Quando ho potuto, ho cercato di evitare la monotonia, che è un altro grosso crimine.”
Le ottantasette micro-confessioni del libriccino s’iscrivono in una prospettiva burlesca e scanzonata, ironica e parodica, di demistificazione della realtà e dei miti culturali, al pari della falsa biografia Jusep Torres Campalans, cui accennerò in seguito, del romanzo del 1960 La verdadera historia de la muerte de Francisco Franco (La vera storia della morte di Francisco Franco, L’Obliquo, 2011), scritto quando l’immarcescibile Franco era naturalmente ancora in vita, di un’antologia, anch’essa falsa, di poeti stranieri da Aub presuntamente tradotti (l’unico componimento vero sarà scritto da lui stesso), del Correo de Euclides, riproduzione perfetta di un quotidiano, ma pieno di notizie fasulle e falsi scoop, stampato in tipografia come un vero giornale e inviato come strenna natalizia agli amici, e infine del discorso apocrifo d’accettazione della nomina alla Real Academia Española de la Lengua (ovviamente nella Spagna franchista Aub non ebbe mai questo onore), corredato da una altrettanto apocrifa replica di Juan Chabás, che all’epoca era già morto da qualche anno.
Pubblicato in prima edizione nel 1957, con una tiratura di appena cinquecento copie, il volumetto dei Delitti raccoglie una serie di presunte testimonianze di assassini che spiegherebbero succintamente il motivo delle loro azioni cruente. L’aggettivo “esemplare” va visto come un primo elemento ironico, in quanto riferimento al castigo che, secondo l’assassino, la vittima avrebbe meritato di subire e come giustificazione dell’atto di violenza, inferto appunto a titolo d’esempio. Il secondo elemento ironico, molto più nascosto, è dato dai riferimenti, ben dissimulati nelle varie “testimonianze”, all’attualità storico-sociale nonché da alcune allusioni, nel prologo, alla guerra fredda. Il terzo, se si vuole, è dato dal fatto che questi micro-testi, così essenziali, finiscono per rappresentare un’elaborata e mai scontata riflessione sul destino e sulla morte.
Un anno più tardi, in una lettera a Vicente Aleixandre dell’8 aprile 1958, Aub scriveva: “Fra un mese o due ne uscirà un’altra che penso ti divertirà: mi sono inventato un pittore amico di Picasso, l’ho scritta come una monografia di Skira – ho dipinto tutti i quadri. Ai pittori prenderà un colpo. Se lo meritano: parlo di quelli che imitano, che si copiano l’un l’altro. Odio sempre di più quello che è falso.” È l’annuncio (discreto) di quella fantastica, serissima burla che è Jusep Torres Campalans, biografia verosimile di un falso pittore catalano, contraffazione creativa come poche altre, in cui, accanto al racconto biografico vero e proprio Aub presenta tutto il campionario che si acclude in questi casi: dati anagrafici, testimonianze (qui ovviamente false) di persone vere, con l’aggiunta di testimonianze di persone mai esistite, dichiarazioni (finte) ai giornali parigini dell’epoca, cioè gli anni Dieci, interviste (inventate) al presunto grande pittore ormai dimenticato da tutti, che Aub avrebbe incontrato per puro caso in Messico dove era riparato fin dallo scoppio della Grande guerra, catalogo ragionato delle opere, più di cinquanta quadri (dipinti dallo stesso Aub sulla falsariga delle opere cubiste più famose, e quindi del tutto verosimili), una foto con il fraterno amico Picasso (in realtà un fotomontaggio creato da amico-complice di Aub) ecc. ecc. Tutto un armamentario paratestuale in cui ciascun elemento funge da certificato di autenticità per gli altri. Fino al vero colpo da maestro, l’organizzazione di ben due mostre, una a Città del Messico e l’altra a New York, con (come si suol dire) un buon successo di pubblico e di critica, del tutto spiazzata, quest’ultima, dall’improvvisa comparsa di quella cinquantina di capolavori fin lì ignorati o dati per scomparsi. Ed è soprattutto il successo di critica che va sottolineato: perché, a parte pochi spiriti dubbiosi, ad Aub il gioco riesce a menadito, con la proliferazione di nuovi falsi, ovvero le recensioni vere della critica a opere ormai reali ma al contempo fittizie perché create non dall’inesistente Campalans ma dallo stesso Aub sotto mentite spoglie. In definitiva, è vero, Campalans non è mai esistito, ma sarebbe potuto esistere; non solo, ma Aub, grande conoscitore delle avanguardie artistiche del primo Novecento, è stato in grado di creare, rispettandone tutte le peculiarità e i segni distintivi, una riproduzione perfetta dell’artista in voga nei primi anni del secolo. A questo proposito il suo personaggio, si è detto, è una specie di sintesi estrema, o se si preferisce di minestrone: catalano come Miró, geniale ma anche cinico, scaltro e arrivista come Picasso, profondamente religioso come Van Gogh, primitivo e viscerale come gli artisti dell’Espressionismo tedesco, Campalans scopre l’arte e il suo essere artista, neanche a farlo apposta, a Parigi, e fugge in Messico allo scoppio della Grande guerra in cerca di un nuovo territorio e di nuovi linguaggi pittorici, come fece Gauguin con la Polinesia. Una sintesi prodigiosa, forse persino troppo bella per essere anche vera.
Gioco fine a se stesso, ci si può legittimamente chiedere, o invece manifestazione illuminante dell’inestricabile intreccio fra verità e menzogna, fra realtà e fantasia, e al tempo stesso sintomo di quell’impossibilità di una vera conoscenza che affligge l’uomo contemporaneo? E se poi la finzione, come Aub sembra suggerire, fosse migliore della realtà, più vicina agli ideali di civiltà e convivenza che dovremmo perseguire?
Oggi Max Aub gode di notevole considerazione da parte di molti scrittori della generazione successiva: basti citare fra tutti Rafael Chirbes, che ha scritto fra l’altro dell’influenza dell’ambiente valenciano, o Antonio Muñoz Molina, il quale gli dedicherà il discorso di accettazione – quasi a ideale risarcimento – in occasione della propria nomina alla Real Academia. Sembra essere un po’ più dimenticato dagli scrittori più giovani, ed è singolare. Proprio questi dovrebbero invece essere più sensibili che mai, se non all’aspetto cronachistico e testimoniale, che può sembrare (ma non lo è) superato, almeno a quello anarchico e giocoso della sua produzione. Chissà che il cinquantenario non possa servire a riportarlo al centro dell’attenzione, visto che negli ultimi decenni le nostre perplessità e il nostro sconcerto di fronte alla realtà sono rimasti inalterati. Se non si sono, anzi, addirittura aggravati, come purtroppo temo.